Nella storia contemporanea della Siria è emerso in maniera preponderante il ruolo degli alauiti: minoranza religiosa cospicua (5-6 milioni di persone prima dello scoppio della guerra civile, circa il 20% dei siriani), essi sono l’unico gruppo non maggioritario rappresentato al potere in Medio Oriente a partire dal 1970, anno in cui con un colpo di Stato interno al regime baathista iniziò la lunga leadership di Hafez al Assad, a cui dal 2000 è succeduto il figlio Bashar.
Parlando di alauiti, difatti, non ci si può limitare alla considerazione della sfera religiosa, si è obbligati a osservare l’ambito politico che coinvolge questa minoranza, fatto del resto tipico quando ci si approccia all’Islam mediorientale.
Quella degli alauiti è una storia che risale a più di mille anni fa, quando Muhammad Ibn Nusayr, vissuto nel IX secolo e probabilmente originario di Bassora, nell’Iraq meridionale, guidò la rottura tra i suoi seguaci e l’islam sciita duodecimano. Nato sin dall’inizio con struttura settaria, l’alauismo approfondì la classica impostazione sciita che attribuiva ad Alì Ibn Abi Talib, quarto califfo, cugino e genero di Maometto, una natura divina.
Gli alauiti ritengono Alì una manifestazione di Allah in terra dal carattere divino, superiore a quello dello stesso Maometto; i loro rituali hanno mantenuto a lungo una forte connotazione esoterica, basandosi su una serie di libri, trattati ed epistole scritte dal principale “apostolo” della setta, Husayn al Khasibi, che il mondo esterno ha potuto conoscere solo dopo la pubblicazione, nel 1863, del Kitab al-Bakhura da parte dell’alauita convertito al cristianesimo Soleyman Effendi, il “musulmano errante” che dà il nome all’omonimo saggio di Alberto Negri dedicato alla storia della setta.
Durante il predominio dell’impero ottomano la popolazione alauita visse, prevalentemente, ai margini della società, concentrandosi nelle zone montane a est di Latakia e Tortosa; questa scelta fu dettata dalle numerose persecuzioni subite nei secoli, a causa del loro credo che li faceva apparire come miscredenti agli occhi dell’ortodossia sunnita e sospetti, da alcuni ambienti dello sciismo.
I contatti con l’impero ottomano furono per lo più ostili, salvo qualche timido tentativo di assimilazione all’ortodossia sunnita mediante la costruzione di moschee. Tentativo che fallì miseramente a causa del tenace attaccamento alle tradizioni e la convinzione di non volersi riformare da parte degli alauiti e dallo scarso impegno dell’impero che non era interessato ad investire troppi sforzi e risorse in un territorio dal quale raccoglieva poche tasse.
Alla fine della Grande Guerra, la Siria fu concessa in amministrazione fiduciaria alla Francia: il mandato di Parigi sarebbe coinciso con l’inizio della moderna storia politica degli alauiti.
Nell’amministrazione della Siria la Francia adottò il più volte collaudato sistema del divide et impera cercando, nell’esasperazione delle differenti appartenenze comunitarie, un modo per minare l’unità e la forza del nazionalismo anticoloniale. Fu così che venne creato il governatorato di Latakia (1922), uno Stato in cui gli alauiti, che rappresentavano la maggior parte della popolazione in quella zona, si trovarono a vivere in un’entità semi-indipendente potendo finalmente godere di diritti negatigli per secoli. Poterono accedere finalmente a scuole e caserme, fu inoltre concessa loro la possibilità di affrontare le controversie giudiziarie in tribunali gestiti da giudici alauiti e non sunniti. Tutto ciò fu sostenuto dai sussidi economici di Parigi e fornì un’alternativa lavorativa alla pastorizia, all’allevamento o al contrabbando.
Quando, nel 1936, il governatorato fu fuso nella futura unità amministrativa della repubblica siriana, il seme dell’identità politica alauita era già stato gettato: ciò avrebbe giocato un ruolo fondamentale dopo l’indipendenza del Paese nel 1946.
La natura periferica e minoritaria della religione alauita la trasformò in un veicolo naturale per le istanze di rivalsa che, dopo le crisi regionali dei primi decenni del dopoguerra, animavano la provincia siriana e gli esponenti di gruppi etnoreligiosi non maggioritari del Paese, che vedevano nell’uscita dal loro isolamento una precondizione per la modernizzazione della Siria.
Numerosi ufficiali alauiti delle forze armate e altrettanti esponenti della loro élite furono perciò affascinati dall’ideologia modernista, panaraba e nazionalista del baathismo. Dopo numerose turbolenze politiche, nel 1970 nelle forze armate emerse Hafez al Assad, che con un colpo di Stato si impadronì della leadership nel Paese e portò, per la prima volta, gli alauiti nella stanza del potere.
Osservando per intero la struttura dell’apparato di sicurezza, dell’esercito, del partito, delle istituzioni statali e delle reti affaristico-repressive del regime di Assad si poteva facilmente notare che al loro interno erano presenti componenti di tutte le principali comunità presenti nel territorio (alauiti, sunniti, curdi, cristiani, ismailiti, drusi e sciiti). Eppure, i caratteri e gli atteggiamenti della minoranza alauita erano preponderanti all’interno di tutti gli organi del sistema di potere. Quando infatti si andava ad osservare più nello specifico, era facile notare che gli esponenti del cerchio di potere più prossimo al presidente erano per oltre il 60% alauiti.
Oltre ad un centro di potere familiarizzato, tutte le cariche ad alti livelli registravano un predominio della minoranza alauita. Il regime di Assad concentrò in sé sin dall’inizio, come segnalato da Alberto Negri, i caratteri distintivi della minoranza alla quale apparteneva: un forte istinto alla sopravvivenza e una costante sensazione di accerchiamento e di minaccia esterna.
La ricerca da parte di Assad di legittimazione internazionale si saldò con la necessità, per la minoranza degli alauiti, di trovare un posizionamento preciso in una galassia islamica che a lungo li aveva guardati di traverso. Dato che la borghesia urbana siriana, in larga misura sunnita, era diffidente circa le politiche economiche e sociali del governo di Assad, quest’ultimo avvicinò in maniera sempre più convinta esponenti del clero sciita.
La soluzione si manifestò nel 1973 nella figura dell’imam Musa Al Sadr, un ayatollah sciita, figura fondamentale nello sviluppo del Libano contemporaneo con il movimento Amal. Come scritto da Opinio Juris, “Al Sadr, che dal 1967 era il presidente del Supremo consiglio islamico, da abile politico, puntò a rivalutare il suolo degli sciiti in tutto il Medio Oriente,in particolare in Libano, dove per secoli erano rimasti ai margini della vita del Paese, dominato da cristiani-maroniti, sunniti e greco-ortodossi, e decise poi di includere anche gli alauiti del nord del Libano sotto la sua ala, nonostante gli stessi non godessero di una buona fama tra gli sciiti”. Così, in un hotel al centro di Tripoli, nel luglio del 1973, Al Sadr affermò che “i fratelli alauiti e gli sciiti condividevano una storia di oppressione e di persecuzione, e che nessun musulmano poteva arrogarsi il diritto di monopolizzare l’islam”.
Per gli alauiti era diventata dunque ufficiale l’ammissione nell’islam sciita: più che religiosa, la decisione apparve profondamente politica, tanto che allo stato attuale delle cose la Siria alauita è cardine occidentale della “mezzaluna sciita” che dall’Iran arriva al Mar Mediterraneo. Proprio l’Iran post-rivoluzionario, dal 1979 ad oggi, è stato l’alleato chiave per il regime dei due Assad. La religione, in Medio Oriente, non è mai fattore neutro, ma ha risvolti politici di lungo termine. Per gli alauiti, questi risvolti hanno coinciso con il posizionamento internazionale e geopolitico del governo di Damasco diretto dai loro esponenti.