Talvolta si promuove e veicola erroneamente l’idea che l’epopea dell’islam politico abbia avuto inizio nel lontano 1979, anno della rivoluzione khomeinista in Iran. In realtà, come le origini del terrorismo islamista antecedono Osama bin Laden e Al-Qāʿida, così la storia dell’islam politico precede Ruhollah Khomeini affondando le origini nel pensiero e nell’azione di Hasan al-Banna, il fondatore della Fratellanza Musulmana.
Hasan al-Banna nasce il 14 ottobre 1906 a Mahmudiyya, un villaggio sul delta del Nilo localizzato nel governatorato di Beheira. Figlio di un insegnante di religione, nonché imam hanbalita, lo sceicco Ahmad Abd al-Rahman al-Banna al-Sa’ati, al-Banna cresce profondamente influenzato dalla fede, dalla mistica sufi e dall’idea che l’islam debba essere al centro della quotidianità dell’Uomo.
Le giornate del giovane al-Banna trascorrono seguendo le attività del padre, leggendo testi religiosi e la rivista islamica più in voga dell’epoca (al-Manar) e frequentando circoli sufi, come l’ordine al-Hasafiyya.
Nel 1919, data della rivoluzione egiziana contro l’occupazione britannica, al-Banna, pur avendo soltanto tredici anni, dimostra una maturità fuori dal comune. Per lui, infatti, la rivoluzione è l’occasione di fare attivismo politico tra i coetanei, spronati all’azione e alla partecipazione ai tumulti di piazza attraverso manifesti autopubblicati e monologhi infuocati.
Nel 1924 gli al-Banna si trasferiscono da Mahmudiyya al Cairo a causa di difficoltà economiche. La crisi ha colpito duramente il neo-indipendente Egitto, che fatica ad avviare il motore dell’economia, e neanche piccoli proprietari di immobili o terreni come gli al-Banna riescono ad affrontare l’onda d’urto.
È qui, al Cairo, che il giovane al-Banna viene a contatto con il cosmopolitismo, scoprendo come Mahmudiyya fosse l’eccezione, non la regola. L’attivista e zelota viene introdotto ad un sistema di studi all’occidentale, presso l’istituto Dar al-‘Ulum, rigettando quanto gli viene insegnato e, soprattutto, lo stile di vita che conducono gli egiziani della capitale.
Entrato a far parte di un’associazione giovanile islamica, la Jam’iyyat al-Shubban al-Muslimin, al-Banna inizia a scrivere per il giornale ad essa correlato, Majallat al-Fath, scoprendosi particolarmente ferrato nella trasformazione della penne in spade.
Al-Banna viene a conoscenza del tragico evento, la fine del califfato ottomano, a breve distanza dal trasferimento al Cairo. Nei suoi scritti descrive il fatto come una “calamità” e una “dichiarazione di guerra contro l’islam in ogni sua forma”, tentando di spiegarne la storicità al pubblico: è la fine di un’era, baricentrata sull’islam quale potere di rilievo nelle relazioni internazionali, e l’inizio di una nuova, ricalibrata a favore delle potenze occidentali.
Terminati gli studi al Dar al-‘Ulum nel 1927, al-Banna entra come insegnante in una scuola primaria di Ismailia, nei pressi del canale di Suez. Qui, per suo grande dispiacere, avrebbe scoperto come lo stile di vita occidentale fosse persino più esteso e capillarizzato che al Cairo. Sono gli anni a Ismailia, più di quelli nella capitale, che avrebbero influito in maniera determinante sulla foggiatura della propria visione del mondo.
Già disilluso nei confronti del colonialismo britannico e dello stile di vita occidentale, da lui ritenuto esiziale per l’integrità morale degli egiziani perché basato sull’esaltazione del secolarismo e sul libertinismo, a Ismailia ha modo di venire a contatto con un altro elemento che lo avrebbe ripugnato: lo sfruttamento della manodopera autoctona da parte dei grandi possessori stranieri.
È precisamente nel contesto di lamentele ivi ricevute da un numero nutrito di impiegati al canale di Suez che al-Banna, nel marzo 1928, sceglie di fondare un’organizzazione che si sarebbe occupata di lottare contro le ingiustizie sociali e di aiutare gli egiziani ad essere padroni della e nella loro terra: la Fratellanza Musulmana.
La Fratellanza Musulmana è, almeno inizialmente, una delle tante organizzazioni islamiche che costellano l’Egitto postcoloniale e tentano (senza successo) di proselitizzare attraverso prediche incentrate sulla superiorità dell’islam. Al-Banna, però, a differenza della concorrenza, riesce a smuovere qualcosa negli egiziani: trasforma la carità disinteressata in stato sociale organizzato e le prediche in sermoni politici ben curati, rafforza il potere d’attrazione fondendo islam e patriottismo e, inoltre, sposta il fulcro tradizionale dell’attivismo dalle moschee ai luoghi pubblici.
Entro il 1938, ovverosia un decennio dopo la formazione, la Fratellanza Musulmana avrebbe vantato il titolo di principale organizzazione islamica della nazione, possedendo rami in ogni provincia e 500mila membri attivi, godendo di simpatizzanti da Rabat a Gerusalemme.
In sintesi, il segreto alla base del successo della Fratellanza Musulmana dei primordi non è l’islam, ma un patriottismo contornato e plasmato da venature anticolonialiste e antibritanniche. La fede, in questo contesto, non è il quadro: è la cornice. Al-Banna siede, prende nota e apprende. È pronto per il salto di qualità.
La Fratellanza Musulmana cresce e diventa una forza nazionale perché, mettendo inizialmente in secondo piano la fede, riesce a strumentalizzare con maestria la vera vena scoperta di (quasi) ogni egiziano dell’epoca: il malessere nei confronti della succubanza culturale ed economica della nazione verso l’impero britannico.
Ogni luogo risulta adatto e permeabile ai sermoni di emancipazione dell’organizzazione più incompresa dell’epoca, dalle moschee ai ristoranti e dalle piazze ai luoghi di lavoro, e al-Banna diventa rapidamente il portavoce dell’Egitto profondo, colui che ha toccato il malcontento, ha vissuto il disincanto e che può fungere da guida.
Quella guida per la rinascita nazionale, però, ha un costo: il popolo deve uscire dallo stato di ignoranza (jāhiliyya) indotto dall’esposizione ai valori occidentali e tornare all’islam. Affinché il messaggio entri nelle case di quanti più egiziani, la Fratellanza Musulmana inizia a stampare su larga scala manualetti, volantini e scritti, diffondendoli a mezzo delle moschee e dei propri simpatizzanti oramai presenti ovunque, dalle scuole ai porti.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, l’organizzazione di al-Banna è un vero e proprio stato parallelo che possiede moschee, esercizi commerciali, cliniche, scuole e case editrici, e regge su un organigramma meticolosamente strutturato, basato su cellule denominate usar, che lo rende scarsamente permeabile alle attività di delatori e inquirenti.
Al-Banna, che precede Abdullah Azzam di cinque decenni, è il primo a porre l’enfasi sulla necessità di rivalutare il concetto di jihad per prestarlo alla politica e al dovere sacro, per ogni musulmano, di aiutare il proprio prossimo, ovunque esso si trovi: che sia in Egitto o in Palestina.
Sarebbe stata proprio la Palestina lo spartiacque della Fratellanza Musulmana. Qui, nella Terra Santa per antonomasia, fra il 1936 e il 1939, il triennio della “Grande rivolta” (Thawra Filasṭīn), seguaci di al-Banna provenienti da ogni dove del mondo sunnita avrebbero partecipato direttamente agli eventi attraverso raccolte fondi e banchi alimentari e, soprattutto, dando manforte nei combattimenti.
È in Palestina, in breve e in sostanza, che avviene l’internazionalizzazione ufficiale e definitiva della Fratellanza Musulmana e che, cosa storicamente più importante, si creano le premesse per la trasformazione dell’allora nascente questione palestinese nella causa di tutti gli arabi. Di nuovo, non (solo) la fede, ma il patriottismo, in questo caso il pan-arabismo, è l’ingrediente alla base della ricetta per il successo.
Allo scoppio della prima guerra israelo-palestinese, combattuta fra il 1948 e il 1949, la Fratellanza Musulmana avrebbe fatto sentire la propria presenza nel neonato Israele attraverso l’invio di migliaia di combattenti volontari. Combattenti provenienti dall’Egitto e dall’intero mondo arabo.
Preoccupato dal peso sempre maggiore esercitato dalla Fratellanza Musulmana sulla società, nonché allarmato dalla possibilità sempre meno remota di un colpo di stato, l’allora primo ministro Mahmud al-Nuqrashi nel 1948 opta per la decisione più drastica: il bando, la messa fuori legge.
Il bando giustifica gli arresti, il congelamento di proprietà e il sequestro di stampatrici e materiale propagandistico. Al-Banna si salva (temporaneamente) a mezzo di una dichiarazione di condanna, chiesta a gran voce da al-Nuqrashi, in cui sostiene l’inconciliabilità tra islam e violenza. Era una trappola: sottomesso il leader, ergo placata la possibile rabbia della folla di seguaci, i servizi segreti vengono incaricati della sua eliminazione.
Il 12 febbraio 1949 è il giorno fatidico. Al-Banna viene chiamato alla sede del Cairo della Jama’iyyat al-Shubban al-Muslimeen, dove avrebbe dovuto partecipare ad un incontro con rappresentanti del governo. Ivi si reca, accompagnato dal fratellastro e lieto di poter dire la propria sulla Fratellanza Musulmana, ma nessuno si presenta né si sarebbe mai presentato. Cosciente o meno di un inganno, al-Banna decide di rincasare ma, a quel punto, è troppo tardi: in luogo di un taxi si presentano due assassini, che uccidono i fratellastri e pongono fine ad un’epoca.
Al-Banna è stato un autore incredibilmente prolifico. Ha messo la firma su oltre duemila articoli, nonché su una caterba di libri, inclusa una biografia poco nota e dal carattere struggente: Mudhakkirât al-da’wa wa al-dâ’iya, traducibile come “I ricordi di un predicatore”.
Il resoconto del suo vissuto dovrebbe aver aiutato i lettori a comprendere quanto sia stato determinante il ruolo da lui giocato nel permettere all’islam di risvegliarsi, o meglio di uscire dal letargo, dal lungo sonno. Perché fu al-Banna, molto prima di Sayyid Qutb, Azzam e bin Laden, a politicizzare l’islam, interpretare la questione coloniale nell’ottica di uno scontro di civiltà e sollecitare una riforma del pensiero islamico nel senso di una strumentalizzazione profittevole (e mortifera) dell’ambiguo ma potente concetto di jihad.
Avverso alla democrazia liberale e al capitalismo, credeva nella necessità di riformare lo stato secondo i dettami coranici e di ricostruire il sistema economico a partire dai valori e dagli insegnamenti della finanza islamica. A quest’ultimo proposito, è meritevole di considerazione porre l’accento su un aspetto poco noto del predicatore: il suo lato economistico.
Elaboratore di una teoria fiscale basata sul leveraggio della zakat ai fini del bilanciamento della spesa pubblica destinata al sociale e della riduzione delle disuguaglianze economiche, al-Banna fu, del resto, innegabilmente abile nel trasformare la Fratellanza Musulmana nel primo erogatore di beni e servizi pubblici universali dell’Egitto. Il suo successo, leva sul patriottismo a parte, si spiega anche e soprattutto rifacendosi a questo: al benessere diffuso tra la popolazione a mezzo di una “carità organizzata”, o meglio strutturata, e sostenibile grazie alla mobilitazione economica dei fedeli.
L’impianto lasciato da al-Banna in eredità ai successori non è mai morto, è ancora in piedi, così come vivo è il sentimento filopalestinese nel mondo arabo. E la Fratellanza Musulmana, lungi dall’essere un incidente della storia, ha dimostrato un inaspettato istinto di sopravvivenza e adattamento. Oggi in pochi ne sono a conoscenza, mentre molti sanno ma bistrattano, ma il corso della storia recente è stato cambiato da un diciottenne che, incredulo dinanzi alla caduta del proprio mondo, avrebbe promesso a se stesso di ricostruirlo. E, almeno per qualche tempo, ci riuscì.