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Yuri Ushakov, il negoziatore di Putin

Si chiama Yuri Ușakov ed è un profondo conoscitore dell’Occidente e, in particolare, degli Stati Uniti, nei quali ha servito come ambasciatore russo a Washington per quasi un decennio.

Il suo volto e il suo nome non sono molto familiari al pubblico occidentale, ma ciò non dovrebbe trarre in inganno: il fatto che sia (quasi) sconosciuto non significa che sia irrilevante. Ușakov, al contrario, è tra gli uomini più importanti di Vladimir Putin. Ed è anche colui che, nel dietro le quinte del palcoscenico, sta conducendo le trattative con gli Stati Uniti sul futuro dell’Ucraina.

Yuri Viktorovič Ușakov nasce il 13 marzo 1947 a Mosca, capitale dell’allora Unione Sovietica, in un contesto familiare del quale è dato sapere poco. La sua biografia, invero, sembra cominciare ventitré anni dopo, nel 1970, anno del conseguimento della laurea presso l’Istituto statale di relazioni internazionali di Mosca, altresì noto con la sigla MGIMO, e del successivo ingresso nel Ministero degli Affari esteri dell’Unione Sovietica.

Portato per le lingue e desideroso di assaporare l’estero, Ușakov viene inviato all’ambasciata sovietica di Copenaghen, Danimarca, entro la fine del 1970. L’occasione, sfruttata per perfezionare la lingua inglese e per apprendere il danese, si sarebbe rivelata il trampolino di lancio verso una promettente carriera nel Ministero degli affari esteri sovietico.

Sedici anni, dal 1970 al 1986, tanto dura la gavetta di Ușakov. Sedici anni di alternanza tra studio e lavoro. Lavoro presso il Dipartimento degli affari scandinavi del Segretariato generale del Ministero degli esteri sovietico. Studi di perfezionamento e un dottorato in politica estera dei paesi scandinavi presso l’Accademia diplomatica.

Nel 1986, al termine dell’estenuante gavetta, per Ușakov si spalancano le porte della diplomazia e della politica internazionale – che non si chiuderanno più. Sei anni nelle vesti di ministro plenipotenziario presso l’ambasciata sovietica di Copenaghen – dal 1986 al 1992. Quattro anni nel ruolo di direttore del Dipartimento della Cooperazione europea del Ministero degli Esteri della neonata Federazione russa – dal 1992 al 1996. Due anni all’OSCE, dal 1996 al 1998, in qualità di rappresentante permanente. E un anno di servizio al Cremlino, dal 1998 al 1999, come viceministro degli affari esteri.

Ușakov non è presente al momento del fatidico passaggio di scettro tra Boris Eltsin e Vladimir Putin, avvenuto durante l’ultima sera del Novecento, perché da pochi mesi si è trasferito a Washington. E qui rimane per quasi dieci anni, fino al 2008, ricoprendo le posizioni di ambasciatore straordinario e plenipotenziario della Federazione russa e di osservatore permanente presso l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA).

Rincasa nel maggio 2008, senza che gli venga dato il tempo di riposarsi. Lo stesso mese, infatti, viene convocato al Cremlino per essere insignito di un’onorificenza – l’Ordine dell’Amicizia – e per discutere della classica offerta irrefutabile: vicecapo della squadra di governo. Incarico che Ușakov accetta e che, peraltro, continua a svolgere ininterrottamente da allora.

Nel 2012, con il ritorno ufficiale di Putin alla guida del Cremlino, Ușakov entra nel circolo decisionale, nell’impermeabile piramide composta da oligarchi, securocrati e fidati amici del presidente. Putin, testimone dell’albeggiare della competizione tra grandi potenze, lo vuole al proprio fianco come consigliere per gli affari esteri.

Veterano della diplomazia, che può vantare un curriculum internazionale di altissimo livello, Ușakov è la persona di cui Putin ha bisogno per entrare nella mente degli Stati Uniti, coi quali una nuova guerra fredda sembra sul punto di nascere, e per rendere la politica estera della Federazione più incisiva. I risultati non tarderanno ad arrivare, giacché sarà proprio l’ex ambasciatore a negoziare il patto tra Cremlino e patriarcato di Mosca per la (ri)nazionalizzazione della società e per l’espansione dell’impronta russa all’estero – per il quale riceverà l’Ordine di Serafino di Sarov –, e a sveltire i lavori di costruzione dell’Unione Economica Eurasiatica – ottenendo in cambio un’altra medaglia.

Ușakov è un Richelieu che sa di non poter parlare con la stampa. Perfettamente a suo agio nel ruolo di eminenza grigia, non è uomo il cui volto viene fotografato dai giornalisti e il cui nome compare nelle interviste. È dai gesti, più che dalle parole, che si può intuire e tastare l’effettiva influenza di Ușakov nella formulazione della politica estera russa.

Pragmatico e moderato, ma disposto a seguire la via del guanto di ferro se e quando necessario, Ușakov ha accompagnato Putin nelle fasi più delicate della sua presidenza e ha utilizzato la propria rete di contatti negli Stati Uniti per (tentare di) raggiungere un compromesso sull’Ucraina all’indomani di Euromaidan. Missione fallita, naufragata definitivamente all’alba del 24.2.22, ma il cui esito non ha condizionato il suo eterodosso modus operandi: spie e imprenditori al posto dei diplomatici.

L’influenza di Ușakov all’interno del sistema decisionale è emersa con forza con l’incedere del conflitto. L’ex ambasciatore, invero, è stato l’amministratore del dialogo coi tre più grandi portatori di interesse della guerra: Cina, Turchia e Stati Uniti. Dialogo gestito con due obiettivi: pace e ordine postbellico.

In merito al dossier Cina, imperscrutabile testimone degli eventi, Ușakov è stato tra gli architetti della bilaterale Putin-Xi avvenuta ai margini del vertice dell’OCS di Samarcanda. E della Turchia, indispensabile aminemica, Ușakov ha sostenuto l’aspirazione di fare da paciere tra russi e ucraini, plaudendo pubblicamente al stacanovismo di Recep Tayyip Erdogan e alla sua decisione di non aderire al regime sanzionatorio occidentale.

Alla luce del tempo trascorso negli Stati Uniti, peraltro nel ruolo di capo diplomatico a Washington, non sorprende che Putin abbia affidato ad Ușakov anche l’onere delle trattative sottobanco con l’amministrazione Biden. Onere di cui si è a lungo vociferato e che gole profonde hanno confermato ai microfoni del Wall Street Journal all’indomani della cattura di Kherson, parlando di ripetuti contatti tra il negoziatore russo e il Richelieu di Joe Biden, Jake Sullivan.

Soltanto una cosa è sicura dell’enigmatico Ușakov: quando la guerra in Ucraina finirà, perché inevitabilmente finirà, la pace che le farà seguito porterà anche la sua firma.

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