Russia e Cina condividono un confine lungo 4.250 chilometri. Non si tratta di una frontiera continua, visto che la sezione ad ovest, la più corta, misura meno di 100 chilometri ed è collocata tra la Repubblica russa dell’Altaj e lo Xinjiang cinese, mentre quella ad est, di oltre 4.000 chilometri, va dalla triplice demacrazione tra Cina, Russia e Mongolia al fiume Tumen, limite settentrionale della Corea del Nord.
Nel corso dei secoli, guerre, crisi, rivendicazioni e accordi reciproci hanno accompagnato la storia di questo confine, più esteso di quello che separa Stati Uniti e Canada. Oggi, nonostante la partnership strategica siglata da Mosca e Pechino, restano diversi nodi spinosi, primo tra tutti il futuro della Siberia, periferia estrema del Cremlino, sempre più nel mirino del Dragone.
Dal punto di vista meramente geografico, e limitandoci ad analizzare il presente, possiamo suddividere il confine sino-russo in due differenti sezioni. La frontiera occidentale attraversa i Monti Altaj e, nel punto più ad ovest, collocato a 3.327 metri di altezza, troviamo la triplice demarcazione tra Cina, Russia e Kazakhstan, individuata grazie ad un accordo trilaterale. Dalla parte opposta, il confine orientale inizia dove si trova un’altra triplice frontiera, questa volta formata da Cina, Mongolia e Russia. Da qui il bordo prosegue verso nord-est fino a raggiungere il fiume Argun, per poi tallonare altri due fiumi, l’Amur e l’Ussuri.
Il confine attraversa quindi il lago Chanka e si sposta a sud-ovest. La frontiera tra Cina e Russia finisce con il fiume Tumen, nei pressi della Corea del Nord. L’attuale linea di confine sino-russa, stabilita da una serie di trattati stipulati tra il XVII e il XIX secolo, è stata per lo più ereditata dalla Russia dall’Unione Sovietica, mentre la linea di confine sino-sovietica era, a sua volta, la stessa del confine che esisteva tra l’Impero russo e quello cinese della dinastia Qing.
Nel XVII secolo le forze zarisite conquistarono le città di Yakasa e Nerchinsk, mentre nel XVIII secolo i russi effettuarono molteplici incrusioni nei pressi del lago di Balkhash e nello Xinjiang. L’espansione della Russia zarisita sembrava insomma essere in grado travolgere tutto e tutti, al punto che, alla fine dell’Ottocento, Mosca aveva sostanzialmente occupato circa 1.4 milioni di chilometri quadrati. Nel Novecento arrivarono nuove espansioni e nuove conquiste territoriali russe che avrebbero trovato posto, in seguito, nei cosiddetti “trattati ineguali”.
Due furono le crisi più acute tra Russia e Cina, che portarono, tra l’altro, a veri e propri scontri armati. Nel 1929 fu la volta della guerra sino-sovietica, un conflitto combattuto tra l’allora Unione Sovietica e i signori della guerra cinesi per stabilite la sovranità sulla Ferrovia Orientale Cinese, un’infrastruttura chiave per il controllo dell’estremo oriente. La guerra, andata avanti dal luglio al dicembre, terminò con la vittoria russa.
Nel 1969 fu la volta di una crisi molto più lunga che, nel momento di massima tensione, sfociò in un conflitto armato sul confine sino-sovietico della durata di sette mesi. I contrasti tra le parti terminarono tuttavia soltanto quando fu stipulato un accordo sul confine sino-sovietico, sottoscritto nel 1991. Ricordiamo che, nel marzo 1969, le schermaglie tra Mosca e Pechino portarono i due Paesi ad un passo dalla guerra, in occasione del famigerato incidente dell’isola di Zhenbao. In ogni caso, la rottura fu una conseguenza delle scissioni che, in quegli anni, si stavano formando in seno al movimento comunista internazionale.
L’anno chiave è il 1991. Cina e Unione Sovietica decisero di firmare un’intesa sul confine sino-sovietico per risolvere, una volta per tutte, le controversie sulle frontiere generatesi, per più ragioni, nei decenni precedenti. Le parti decisero inoltre di chiarire la ripartizione territoriale nelle regioni meno popolose.
Il crollo dell’Urss generò però quattro nuovi Stati, ovvero Russia, Kazakhstan, Kirhizistan e Tagikistan, i quali ereditarono varie sezioni dell’ex confine sino-sovietico. Pechino è quindi stata costretta a regolarizzare le frontiere con ciascuno dei nuovi Paesi.
Nel 1994, il primo ministro russo Viktor Cernomyrdin visitò Pechino per firmare un “Accordo sul sistema di gestione del confine sino-russo inteso a facilitare il commercio frontieristico e ostacolare l’attività criminale”. Nel settembre dello stesso anno venne quindi firmato un altro accordo per demarcare la parte occidentale della frontiera sino-russa. Nel 1997, il presidente russo Boris Eltsin e il suo omonimo cinese Jiang Zeming firmarono l’ennesimo accordo, questa volta per delimitare la parte orientale del confine sino-russo.
Nel 2004, infine, grazie all’Accordo Complementare, la Russia ha ceduto alla Cina la metà dell’isola di Abagaitu, la metà dell’isola dell’Ussurijskij e vari isolotti fluviali adiacenti.
La gestione del confine che separa Russia e Cina si rifà ad un trattato bilaterale siglato a Pechino nel 2006. Il documento prevede, tra gli altri punti, che i due Stati possono recidere gli alberi formando una striscia di 15 metri lungo la demarcazione.
Per quanto riguarda la navigazione civile, questa è consentita sui fiumi e sui laghi di frontiera, ma soltanto a condizione che le navi di ciascun Paese restino sul lato appropriato della linea di demarcazione. Lo stesso vale per la pesca.
La caccia è invece vietata entro i 1.000 metri dalla linea di confine, così come è vietato ai cacciatori attraversare la demarcazione per inseguire un animale ferito. Varcare la frontiera sino-russa in maniera illegale comporta l’arresto e, salvo casi particolari, il ritorno nel Paese di origine entro 7 giorni dalla loro cattura.
Il grande nodo spinoso riguardante il confine sino-russo si chiama Siberia. La sensazione è che il Power of Siberia Gas Pipeline, da solo, non basti a risolvere la pratica. È vero che stiamo parlando di un gasdotto di 3mila chilometri, nonché un progetto da 55 miliardi di dollari, creato ad hoc per rifornire la Cina di gas russo in cambio di centinaia di miliardi di dollari cinesi. Ma è altrettanto vero che la Siberia, complice il riscaldamento climatico, sta cambiando “forma”.
Detto altrimenti, quei territori che un tempo avevano la fama di essere selvaggi e inospitali, potrebbero presto diventare molto appetibili. Nel giro di qualche anno, foreste e praterie siberiane potrebbero essere pronte ad accogliere appezzamenti di grano, mais e soia. Ed è per questo che la Cina ha silenziosamente puntato la Siberia.
Non a caso c’è chi parla di “espansionismo pacifico” da parte di Pechino, nel senso che il Dragone starebbe cercando in tutti i modi di mettere radici nella periferia russa sfruttando due carte: il profilo demografico ed economico. Resta da capire quale sarà – e se ci sarà – la reazione di Mosca.
Un altro nodo spinoso nelle relazioni Russia-Cina coincide con l’Artico. Lo scorso marzo, Vladimir Putin e Xi Jinping hanno parlato della rotta artica. La notizia acquista un senso se colleghiamo questa regione al tema dell’energia. Già, perché Mosca può contare su diversi progetti attivi ben lieti di ricevere eventuali ed ulteriori finanziamenti cinesi. Yamal LNG e Arctic LNG 2, ad esempio, sono frutto della collaborazione sino-russa. I due progetti artici erano stati pensati per estrarre ingenti quantità di gas da rivendere ad acquirenti esterni. Adesso, a giudicare dalle parole di Putin, è lecito supporre che le aziende cinesi coinvolte possano alla fine allearsi anche con la compagnia petrolifera Rosneft per rendere le operazioni ancora più efficienti.
In ogni caso, da ben prima dello scoppio della guerra in Ucraina, la Cina ha iniziato ad incrementare la propria presenza nell’Artico attraverso un’ampia partnership con la Russia, in aree che includono porti e aeroporti multiuso, la citata estrazione di energia, per non parlare poi della ricerca scientifica e della condivisione di dati di intelligence, di sorveglianza e ricognizione. I problemi, al netto della partnership reciproca tra questi Paesi, potranno emergere nel caso in cui uno dei due dovesse diventare tanto più forte dell’altro al punto da fagocitarlo. Al momento non c’è niente di simile all’orizzonte ma i rischi non mancano.