Vladimir Putin fu eletto dallo stato profondo, nel vicino eppure lontano 1999, per riportare la Russia ai fasti perduti del passato imperiale e sovietico e per evitare che la nuova età dei torbidi, cominciata nell’immediato post-implosione sovietica ed emblematizzata dalla malagestione di ogni cosa di Boris Eltsin, la conducesse alla deflagrazione totale.
Per molto tempo, guidato dall’obiettivo di reinserire la Russia nell’alveo delle grandi potenze, Putin si è concentrato sulla (ri)costruzione del potere duro e sulla sua proiezione oltreconfine, dall’estero vicino – Georgia 2008 – ai teatri cari all’interesse nazionale – Siria 2015 –, trascurando, o comunque dando meno importanza, alle questioni domestiche. L’aggravamento della competizione tra grandi potenze, però, ha cambiato tutto.
Se fino al 2012 il putinismo era un’ideologia senza idee, un termine impiegato da giornalismo e politologia per descrivere più il modus operandi di Putin che il suo progetto per la Russia, oggi non è più così. Oggi il putinismo esiste, è un guscio che contiene le istanze più diverse ed eterogenee, e sta accompagnando la Russia nel XXI secolo.
La Russia, che per quasi un secolo è stata patria dell’ateismo di stato e laboratorio del più grande esperimento di rimozione del sacro dal cuore dell’Uomo di ogni tempo, nel corso dell’era Putin si è reimpossessata del proprio io, ridiventando Terza Roma, Seconda Mecca e Nuova Gerusalemme.
Putin, un pragmatico che vede nella fede più un instrumentum regni che un salvacondotto per la vita eterna, ha compreso sin dagli esordi della presidenza l’importanza della religione in termini di collante sociale e di erogatore parallelo di beni e servizi pubblici (welfare). Di ogni grande religione tradizionale: cristianesimo, islam, ebraismo e buddhismo.
Il cristianesimo è stato rivitalizzato stringendo un asse adamantino con la fu perseguitata Chiesa ortodossa, nonché siglando un patto per la difesa dei cosiddetti valori tradizionali – e per il multipolarismo – con il Vaticano.
L’Islam è stato innalzato a seconda fede de facto della Federazione, venendo aiutato a crescere e lasciando che plasmasse parte della politica estera del Cremlino – dall’ingresso nell’Organizzazione di cooperazione islamica al rientro nei Territori palestinesi.
L’ebraismo è stato protetto gelosamente e coltivato, facendo sì che pogrom e diffidenze di età sovietica divenissero dei (brutti) ricordi, e trasformato in un braccio spirituale, e diplomatico, utile al Cremlino per tessere ottimi rapporti con l’internazionale ebraica e con Israele. Si pensi, ad esempio, alle dichiarazioni di Putin riguardanti l’appartenenza di Israele al Mondo russo.
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Per capire la rilevanza del sacro per Putin, più che le parole, sono necessari i numeri. Numeri, cioè cifre utili a capire in che modo la geografia urbana è stata riscritta nel dopo-Eltsin (grazie ai fondi statali). Numeri che parlano di un vero e proprio boom religioso:
- Più di 8.000 moschee costruite dal 2000 al 2015;
- Più di 5.000 chiese erette dal 2009 al 2016;
- 112 monasteri edificati dal 2009 al 2016;
- 40 templi buddhisti inaugurati nella sola Buriazia dal 2000 al 2018;
- Dozzine di sinagoghe costruite e altrettante restaurate nello stesso periodo;
Perché le grandi religioni organizzate siano importanti per Putin, che presenzia alle inaugurazioni delle maxi-moschee edificate in lungo e in largo la Federazione e partecipa agli appuntamenti più importanti del calendario liturgico ortodosso, non è mai stato un segreto: consenso, immagine pubblica, potere morbido.
I rubli investiti in chiese, moschee, sinagoghe e templi buddhisti per legarne i destini al Cremlino. La partecipazione ai momenti più elevati del calendario ortodosso per fungere da esempio per le masse slave, che sono a chiamate a vivere amor patrio e fede come un tutt’uno inscindibile. Le celebrazioni inaugurali in pompa magna di sinagoghe e moschee come messaggio ai partner-chiave di Mosca, da Israele alle potenze-guida dell’islamosfera.
Il culto della patria, a lungo dimenticato dalla generazione Eltsin cresciuta mangiando al McDonald’s e sognando l’American way of life, è uno dei pilastri fondativi del putinismo e della nuova Russia. Sotto Putin, infatti, si è assistito alla trasformazione del patriottismo in dogma, alla sua celebrazione pubblica e al suo inculcamento nei russi sin dall’età scolare.
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Le più importanti iniziative in materia di nazionalizzazione delle masse hanno avuto luogo dal 2012 al 2022, in concomitanza con l’aggravamento della competizione tra grandi potenze, e hanno investito ogni ambito della società, della cultura e dell’istruzione.
Alle scuole è stato dato mandato di instillare negli allievi i valori patriottici, e dunque sono stati riscritti i curricoli scolastici, sullo sfondo del divenire della resistenza al nazismo – la Grande Guerra Patriottica – il mito fondativo della nuova Russia.
Alle organizzazioni nongovernative, o paragovernative, sono stati offerti corposi finanziamenti per promuovere programmi di formazione ibrida, cioè civile e militare, destinati a bambini e preadolescenti. Boy Scouts in salsa patriottica, come Yunarmiya, utili per socializzare, praticare arti marziali e imparare ad amare la patria. Esperimenti, molte volte, di successo: soltanto Yunarmiya, nell’agosto 2020, registrava 718mila iscritti.
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Il referendum costituzionale del 2020 e la guerra in Ucraina del 2022 hanno dato impulso al programma di nazionalizzazione delle masse: la prima ha gettato le basi legali per una riforma ex novo del sistema educativo in direzione del patriottismo, la seconda ha giustificato nuove modifiche ai curricoli scolastici – dall’obbligo di cantare l’inno nazionale prima dell’inizio delle lezioni ad una maggiore enfasi sul ruolo della Russia nella storia del mondo.
L’obiettivo del programma di nazionalizzazione delle masse è ambizioso, orientato al dopo-Putin, e ha a che fare con la volontà di dotare il popolo russo di un’identità forte, a prova di guerre culturali e crisi civilizzazionali, nel secolo del ritorno della storia alla riscossa.
Se è vero che la demografia è destino, a meno di una radicale inversione di tendenza, il futuro della Russia è cupo e sterile: quattro milioni di abitanti persi dal 1991 al 2020, tasso di fertilità pari a 1,5 figli per donna, possibilità di choc demografico entro il 2050 a causa del mescolarsi di emigrazione, invecchiamento e inforestierimento.
Guidato dall’obiettivo di trovare una soluzione alla crisi demografica, nonostante l’assenza di modelli natalisti attuali ai quali ispirarsi – con l’eccezione dell’Ungheria –, Putin ha optato per l’erogazione di incentivi pecuniari – come il “capitale maternità” – e confidato nel supporto dei capi religiosi per incoraggiare le masse di credenti a creare famiglie numerose.
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La legislazione in materia di famiglia ereditata dall’Unione Sovietica non è mai stata rimessa ufficialmente in discussione, perché divorzi e interruzioni volontarie di gravidanza continuano a essere legali, ma le pressioni politiche – e sociali – hanno lentamente spianato la strada alla nascita di una società più conservatrice che in passato.
Con l’eccezione dei divorzi, il cui tasso resta elevato, gli aborti hanno registrato una tendenza al ribasso sin dalla seconda parte del primo decennio del Duemila. I numeri, di nuovo, possono spiegare ciò che alle parole riesce soltanto a metà: nel 2009 la Russia era stata la casa della cifra record di un milione e 200mila aborti, scesi a 450mila nel 2020.
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Il putinismo, in sintesi, verrà ricordato come il movimento, a metà tra reazione e restauro, che ha proiettato la Russia e i russi nel XXI secolo. Come il movimento che ha provato a ri-russificare gli eredi di Rurik, coscientizzandoli sulle loro peculiarità e sul loro passato. Un progetto di nazionalizzazione ambizioso come colui che l’ha concepito, Putin, e che potrebbe e dovrebbe aiutare la nazione a trovare, dopo secoli di incessante e infruttuosa ricerca, il suo posto nel mondo.