Perché Israele non vuole che l’Iran abbia il nucleare

Israele e in particolare il suo primo ministro, Benjamin Netanyahu, hanno da sempre contrastato con forza l’accordo sul programma nucleare iraniano.

I motivi sono diversi, in cui si fondono elementi strategici a elementi più eminentemente politici. Difficili da sciogliere e da prendere a compartimenti stagni. Ma la storia ci insegna che il percorso di guerra ha sviluppi molto più complessi di quanto si voglia credere.

Iran e Israele, fino (e anche oltre) la rivoluzione dell’Ayatollah Khomeini, si ritengono preziosi alleati. Questo rientra nella tradizionale (ormai sopita) logica israeliana per cui tutti i Paesi non arabi della regione dovevano considerarsi alleati di Tel Aviv per la sua sopravvivenza.

Questa linea di pensiero israeliana era quella che David Ben-Gurion battezza come “dottrina della periferia” e che conduce, per esempio, Israele, a sostenere l’Iran post-rivoluzionario nella guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein.

Un esempio di questa strategia è il Progetto Fiore, un progetto condiviso da Israele e Iran pre-rivoluzionario con cui gli israeliani sostengono i centri di ricerca di Teheran per sviluppare un missile in grado di trasportare una testata nucleare.

La rivoluzione di Khomeini modifica radicalmente il corso della storia mediorientale. La repubblica islamica dell’Iran, come primo gesto, interrompe i legami diplomatici con Israele. L’Iran si pone dunque come potenza alternativa agli alleati dell’Occidente nella regione, non più come suo amico.

Khomeini all’inizio tuona contro il programma nucleare del suo Paese. Poi si ricredere, quando comprende la necessità di arricchire l’uranio e creare una bomba per elevare l’Iran a rango di potenza nucleare. La guerra contro l’Iraq muta la strategia di Khomeini. E così, con l’aiuto di ingegneri occidentali, del Pakistan, coreani e libici, riattiva i reattori di Bushehr.

Israele cambia idea sull’Iran non soltanto con l’ascesa di Khomeini, ma soprattutto quando comprende che quello Stato possa assurgere al rango di potenza nucleare. Per Israele, una minaccia molto grave. La strategia israeliana è cristallina: nessuno può avere l’atomica al di fuori di Israele stesso. Ed ha sempre agito di conseguenza senza alcuna legittimazione internazionale.

Questa strategia è tuttora visibile ed è passata alla storia come “dottrina Begin“, dal nome del suo ideatore, il premier Meanchem Begin. Questi teorizza la necessità che nessun Paese della regione possa avere un’arma in grado di competere con la potenza militare israeliana. E per evitare questo, Israele deve essere disposto a tutto, in particolare ad attaccare e distruggere ogni sito nucleare considerato in grado di creare un’arma.

Da questa idea, scaturiscono i bombardamenti in Iraq contro il reattore di Osiraq, nel 1981, quando il Mossad individua un impianto nucleare per scopi militari fatto costruire da Saddam. Ed è la stessa dottrina da cui trae origine il bombardamento dell’aviazione israeliana nel 2007 contro il reattore nucleare di Deir Ezzor, in Siria. Una sorta di polizia nucleare israeliana.

Nel 2002, l’anno della svolta. I Mojahedin del Popolo Iraniano (Mek), controverso gruppo di opposizione iraniano – considerato terroristico in Iran e inserito nella black-list degli Stati Uniti fino a pochi anni fa – annunciano che Teheran prosegue nel suo programma nucleare. Israele è pronto a colpire. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, negli anni successivi, cerca un accordo simile a quello che poi sarà il 5+1 del 2015.

L’elezione di Mahmoud Ahmadinejad e la graduale ascesa della destra israeliana di Benjamin Netanyahu sono il preludio all’intensificarsi dello scontro. Ahmadinejad inaugura un nuovo reattore e minaccia costantemente la cancellazione di Israele. Netanyahu, dal canto suo, continua a ritenere necessaria un’azione contro l’Iran prima che questi entri in possesso di un arsenale atomico. Il primo ministro dello Stato ebraico preme sulla comunità internazionale affinché agisca. E trova una sponda importante negli Stati Uniti di George W. Bush, che intensifica le azioni contro Teheran.

L’elezione di Hassan Rouhani e la presidenza di Barack Obama segnano un nuovo corso nei rapporti fra Iran, Israele e Stati Uniti. Obama, autorizzando l’attacco informatico di Stuxnet, continua nella politica di cyberwar contro l’infrastruttura iraniana. Ma l’elezione del moderato Rohuani cambia la percezione del problema.

Il leader iraniano apre le porte all’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Nasce quel rapporto di collaborazione che porta all’accordo sul nucleare iraniano del 2015 firmato dai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania.

Israele non lo accetta. Netanyahu tuona contro la firma dell’accordo e i rapporti fra Washington e Tel Aviv sprofondano. Il premier israeliano considera il programma nucleare iraniano una minaccia costante. E con la firma del Jcpoa teme che l’Iran torni a essere un interlocutore mediorientale dopo decenni di isolamento. La guerra in Siria, così come l’ascesa dei movimenti filo-.iraniani in tutto il Medio Oriente, confermano che Teheran è già di nuovo al centro dello scenario mediorientale.

Dall’elezione di Donald Trump, Netanyahu tira un sospiro di sollievo: alla Casa Bianca c’è un amico. I legami con Jared Kushner aiutano a costruire con Washington un asse di ferro. Il governo israeliano adesso ha di nuovo modo di premere sugli Stati Uniti per colpire l’Iran.

I continui attacchi in Siria contro l’infrastruttura militare iraniana sono solo il preludio di quanto sta per avvenire. A fine aprile, il premier israeliano, in una conferenza-show, annuncia che il Mossad ha prelevato migliaia di documenti e file in cui si accerta il proseguimento del programma nucleare iraniano. L’Aiea, l’Europa, la Russia e la Cina confermano la piena fiducia nell’Iran. Ma gli Stati Uniti di Donald Trump no. Trump straccia l’accordo e dice che aveva ragione lui: il resto è storia dei nostri giorni.

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