Il 17 gennaio la Camera ha dato il via libera al nuovo piano del governo Gentiloni per le missioni internazionali dell’Italia. Nel complesso verranno impegnati 6.698 militari per una spesa complessiva di 1,5 miliardi di euro. Questo di spiegamento di forze colloca l’Italia ai primi posti nell’Unione europea per soldati schierati fuori dai confini. Ma il nostro Paese è in buona compagnia. Altri tre Paesi hanno dispiegato migliaia di uomini in mezzo mondo, soprattutto in anni recenti. È il caso della Francia, della Germania ma anche del Regno Unito.
L’approccio con cui i vari Paesi dell’Unione organizzano le loro operazioni fuori dai confini nazionali è variegato. Da un lato c’è quello che potremmo definire post-coloniale che caratterizza l’azione di Francia e Regno Unito; dall’altro quello che potremmo chiamare integrato nelle istituzioni internazionali, tipico della Germania. Per intenderci quello dell’Italia si colloca a metà strada. Spesso i soldati dello Stivale partecipano sotto la bandiera dell’Onu, come in Libano, in altri casi come membro dell’Ue (vedi le operazioni nel Mediterraneo) e in altri ancora come membro della Nato, come dimostrano i pattugliamenti in Islanda e Paesi Baltici. Ma si muove anche come attore indipendente, basti pensare alle missioni in terra libica o il recente impegno in Niger.
In questo senso la posizione della Francia è molto più sbilanciata verso una posizione di leadership globale. A ben vedere il dispositivo messo in piedi da Parigi ricorda molto di più il periodo coloniale che quello di un mondo segnato dalle organizzazioni internazionali. Anzi Parigi nell’ultimo periodo, complice anche l’approccio del presidente Emmanuel Macron, ha alzato l’asticella andando quasi a sfidare gli Stati Uniti come attore globale. Senza mai dimenticare il suo tradizionale approccio all’Africa.
Secondo i dati del ministero della Difesa francese, Parigi ha dispiegato circa 30mila militari. Un numero impressionante, che però è bene spiegare. Di questi 13 mila sono schierati sul suolo francese nella cosiddetta operazione “Sentinelle”. Un dispositivo di sicurezza inaugurato nel 2015 dall’allora presidente francese François Hollande all’indomani dell’attentato contro la redazione di Charlie Hebdo rinforzato poi in novembre dopo la strage al Bataclan e l’attentato dallo stadio Saint-Denis. Ma nel conto ci sono altri 17 mila uomini. Di questi 7mila sono ufficialmente classificati come “forze di sovranità” e dispiegati in tutti i territorio d’oltremare, come Antille, Guyana, Reunion, Nuova Caledonia e Polinesia francese.
Un’altra categoria è quella delle “forze di presenza”, 3.750 uomini che non partecipano a vere e proprie missioni ma che sono stabili in basi francesi. Ad eccezione di 650 uomini dislocati negli Emirati arabi uniti, tutti gli altri sono posizionati in Africa, dal Senegal alla Costa d’Avorio passando per il Gabon e la base strategica del Gibuti. Le forze rimanenti sono impegnate nelle vere missioni sul terreno. La più importante in questo senso è l’operazione Barkhane. Un grosso dispositivo che occupa 4.000 uomini tra Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad. Operazione ha unificato altre due precedenti, la Serval in Mali e la Epervier in Ciad. In particolare la prima rappresentava l’intervento della Francia nell’ex colonia per arginare la guerra separatista dell’Alzawad e l’aumento della presenza jihadista nell’aria del Sahel. La Barkhane rappresenta ora il tentativo di Parigi di porre un freno all’espansione della galassia terroristiche in modo più o meno diretto si ispira all’Isis.
Sempre nell’ottica di potenza globale la Francia è stato il primo Paese nel 2014 a rispondere all’appello americano per una coalizione internazionale contro lo Stato islamico. Al momento la Francia impiega 1.200 soldati tra Siria e Iraq. Per quanto riguarda invece il coinvolgimento in operazioni sotto le organizzazioni internazionali la Francia non ha mosso più di 650 uomini, tra l’operazione Eunavfor nel Mediterraneo, quella Atlante nel Corno d’Africa anti-pirateria e i pattugliamenti Nato nel Nord dell’Atlantico. Discorso del tutto diverso invece per la Germania.
Negli ultimi anni Berlino ha aumentato il suo coinvolgimento negli scenari internazionali. Come si legge sul sito del ministero della Difesa tedesco le Bundeswehr, le forze armate della repubblica federale, hanno aumentato la loro azione già a partire dalla Bosnia post-conflitto per poi estendersi in Kosovo fino al più ampio coinvolgimento nella missione Isaf in Afghanistan tra il 2002 e 2014. E infatti questi ultimi due paesi sono tra quelli che assorbono il maggior impegno teutonico.

Secondo i dati del ministero, aggiornati al 15 gennaio, attualmente ci sono 3.900 militari impegnati e di questi 1.071 sono di stanza in Afghanistan per la missione Resolute Support. Con il recente ridimensionamento del contingente italiano quello tedesco resta il più rappresentativo della coalizione dopo quello americano. L’altro grande impegno assunto da Berlino riguarda la missione Onu nota come MINUSMA attiva in Mali e Senegal e che impiega 968 soldati tedeschi. Poi, come detto, c’è il Kosovo con 443 unità. Seguono le operazioni nel Mediterraneo e la partecipazione alla grande Coalizione internazionale contro l’Isis in Siria e Iraq.
Un altro grande attore europeo è la Gran Bretagna. Qui la situazione è leggermente diversa. Sullo scenario internazionale Londra ha sempre agito in maniera indipendente. Molti analisti nel commentare la Brexit hanno insistito sul mai sopito senso di indipendenza che condizionava i britannici. E in questo senso si sono sempre mossi. Basti pensare al coinvolgimento nella Seconda guerra del Golfo. Attualmente stando al sito ufficiale dell’esercito, le forze armate britanniche sono impegnate in diversi scenari. Dai presidi di Germania, Canada, Kenya, Gibilterra, Falkland alle operazioni di lungo corso come l’Afghanistan, che ancora ospita 500 uomini e l’Iraq (1.400 unità). Ma rispetto a Italia, Francia o Germania, ha preferito evitare quali del tutto l’Africa, se non per piccole missioni di addestramento in Nigeria o per la presenza a Nairobi.
Ma l’esercito di sua maestà ha un problema. Negli ultimi due anni le forze armate stanno facendo fatica a trovare nuove reclute. Nel 2016 circa 15 mila unità hanno lasciato i ranghi mentre solo 13 mila si sono arruolati. In particolare il parlamento puntava a 9.500 nuovi soldati mentre si sono presentati solo 6.900 nuovi cadetti. Non bastasse questo le forze di britanniche sarebbero in difficoltà anche per i continui tagli al budget. Come nel caso della Royal Air Force che negli ultimi anni ha visto un calo sensibile dei velivoli a disposizione. Nel 2006 nella Raf erano in servizio circa 220 aerei da combattimento (Lightning, Tornado e Typhoon) ma negli anni la cifra è scesa, 160 nel 2009 e 137 nel 2017. E alla marina non va meglio. Emblematico in questo senso il destino della HMS Queen Elizabeth. La nuova portaerei è stata varata nel corso del 2017 ma a dicembre, quasi come una beffa, è stata costretta a tornare in manutenzione perché imbarcava acqua, il sintomo di una situazione tutt’altro che serena.