La guerra nel Nagorno-Karabakh tra Armenia ed Azerbaijan si è riaccesa dopo un escalation di tensioni negli ultimi mesi del 2020 e per alcune settimane l’attenzione dei maggiori attori internazionali si è spostata nel teatro caucasico, in un’area cruciale per gli approvvigionamenti di petrolio e gas naturale dal Mar Caspio, per gli interessi di grandi attori come Russia, Turchia e Iran e, in prospettiva, per i grandi progetti infrastrutturali di matrice cinese.
La regione riconosciuta internazionalmente come parte dell’Azerbaijan, ma su cui le autorità di Baku non hanno esercitato realmente alcuna sovranità reale dal 1988, prima dell’indipendenza dopo la caduta dell’Unione sovietica, e abitata a larga maggioranza da popolazioni di etnia armena è tornata al centro della più duratura delle piccole guerre locali accese dal collasso della superpotenza comunista. Causa della riapertura di linee di faglia storiche mai saldate, di questioni politiche e identitarie che richiamano una storia complessa in terre che sono state crocevia di popoli. Abbiamo, non a caso, citato Russia, Turchia e Iran: tre nazioni i cui predecessori imperiali si sono a lungo contesi il Nagorno-Karabakh. Una regione che la stessa etimologia insegna essere terra oggetto di interessi divergenti.
Nagorno-Karabakh è un termine coniato durante la dominazione russa della regione, iniziata nel XIX secolo. Nagorno è un prefisso derivante dal termine nagorni, che significa “elevato” o montagnoso, mentre Karabakh è la traslitterazione russa della parola di origine turca Karabagh, letteralmente significante “giardino nero”.
Dare un nome a un territorio e imporlo significa poterlo effettivamente controllare: ed è per questo che durante l’epoca russa e sovietica il termine Nagorno-Karabakh è prevalso sul nome armeno della regione, Artsakh. Questo era il nome con cui le impervie montagne della regione erano denominate nel contesto di un’omonima provincia dell’antico regno armeno di cui il Nagorno-Karabakh ha rappresentato il cuore pulsante. Dietro ogni etimologia c’è una storia lunga fatta di precisi rapporti di forza.
Parlare di Artsakh è, per gli armeni, un importante fattore identitario, finalizzato a rivendicare la continuità storica dell’attuale repubblica con l’antico predecessore che si confrontò con le grandi potenze dell’area mediterranea e dell’Asia minore, l’Impero romano e quello persiano, tra il II secolo avanti Cristo e il IV secolo dopo Cristo.
Tigrane il Grande, re d’Armenia dal 95 al 55 a.C., che si confrontò con le armate romane di Pompeo prima di divenire alleato della Res Publica, fondò una città intitolata a se stesso, Tigranakert, a una cinquantina di chilometri dall’attuale capitale dell’auto-proclamata Repubblica dell’Artsakh, Stepanakert.
Quando nel 387, dopo la spartizione dell’Armenia tra Roma e la Persia, la dinastia sasanide assoggettò l’Artkash l’Armenia era diventato il primo Stato ufficialmente cristiano al mondo e in una popolazione già ai tempi divisa tra gli armeni e altre tribù caucasiche, la cultura nazionale si sedimentò. Proprio dall’Artkash, al monastero di Amaras, si ritiene che si sia irradiata con forza tale cultura sulla scia della predicazione religiosa e umanista di una delle figure più significative della storia nazionale, Mesrop Mashtots, venerato come santo dalla Chiesa armena. Mashtots, vissuto a cavallo tra IV e V secolo, predicò il Vangelo nelle impervie terre caucasiche ed è ritenuto l’inventore del moderno alfabeto armeno.
La conquista persiana certificò la natura di terra di confine dell’attuale Nagorno-Karabakh: dapprima l’annessione alla Persia favorì un rimescolamento etncio che fu poi ulteriormente complicato dall’arrivo di popolazioni di stirpe turca e mongolica nei secoli successivi; nel VII secolo, dopo la caduta dell’impero persiano per mano araba, la dominazione lontana e flebili dei califfi garantì alle regioni degli odierni Armenia e Azerbaijan di vivere in uno stato di sostanza autonomia a patto di accettare formali vassallaggi.
Tra il 1000 e il 1261 è persino esistito un Regno dell’Artsakh, guidato dalla casata di Khachen che faceva affondare le sue radici al principe alla guida di una rivolta anti-araba nell’821, Shal Smbatian. Tale regno dovette, nel XIII secolo, dichiararsi vassallo prima dei georgiani e poi dei mongoli. In quel periodo iniziarono le grandi invasioni dei popoli provenienti da oriente che sconvolsero gli equilibri della regione: nel Duecento Tatari e Mongoli non risparmiarono, nonostante la formale sottomissione, le loro razzie, mentre nel secolo successivo fecero l’ingresso nella storia del Caucaso i turchi, che con il popolo armeno avrebbero vissuto un rapporto estremamente complesso nei secoli a venire.
Due khanati turchi dominarono l’Artsakh nei secoli susseguenti all’invasione, coincidenti con le confederazioni di Kara Koyunlu e Ak Koyunlu. Meno noti dell’Impero ottomano che andava allora costituendosi, questi imperi dalla breve durata contribuirono a rafforzare la penetrazione sulle montagne del Caucaso dell’Islam e diedero alla regione il nome, nella versione “Karabagh”, con cui è oggi conosciuta.
Risulta notevole sottolineare come proprio dei principi turchi fosse il fatto di considerare come naturale la predominanza della cultura armena nelle terre da loro occupate, tanto che Jahan Shah, signore turcomanno del XV secolo, garantì a dei principi armeni la possibilità di amministrare in conto dei khanati la regione. Anche dopo il ritorno della provincia in mani persiane nel 1501, l’impero safavide amministrò le terre armene con funzionari locali, che guidarono la resistenza all’invasione ottomana tra il 1720 e il 1730.
“Durante il 1800, le guerre russo-persiane prima, e russo-ottomane dopo, hanno visto l’impero zarista affermare con vigore il predominio sull’intera regione”, ricorda Formiche. Le forme di autogoverno furono abolite tra il 1813, anno della cessione formale del Karabagh a San Pietroburgo, e il 1828, in cui il Trattato di Turkmenchay compose definitivamente la questione russo-persiana.
In quei decenni “molti armeni iniziarono a spostarsi dall’Anatolia orientale alla Transcaucasia, andando a stabilirsi nelle zone abitate dagli azeri, con la benedizione dell’impero russo desideroso di limitare il predominio azero e filo-ottomano sulla regione. Gli spostamenti degli armeni furono ancora più massicci negli anni immediatamente precedenti alla Prima guerra mondiale, alimentati dalle violenze perpetuate dal decadente impero ottomano, alla ricerca della purezza nazionale anelata dai Giovani turchi di Mustafa Kemal”. Il genocidio armeno della Grande guerra aprì ulteriori faglie tra armeni e popolazioni di etnia turca nell’area del Caucaso: tensioni che ancora oggi si fanno sentire come frutto di una controversa eredità storica.
La nascita dell’Unione sovietica portò il nuovo governo bolscevico ad occuparsi della questione delle nazionalità interne alla nuova nazione comunista. Durante il governo di Lenin, la questione delle linee di faglia etniche fu data in gestione a Stalin. Il futuro dittatore e vincitore della “Grande guerra patriottica”, per motivi essenzialmente politici, volendo potenziare la nativa Georgia creò la Repubblica federativa socialista sovietica della Transcaucasica nel cui contesto si unirono le repubbliche sovietiche di Armenia, Azerbaijan e Georgia. Il secondo, per motivazioni geopolitiche legate ai rapporti di buon vicinato con la Turchia, ricevette in questo contesto in “dono” l’oblast autonomo del Nagorno-Karabakh. Lo status quo precario venutosi a creare portò a una sovrapposizione di linee culturali, etniche e storiche insostenibile: sessant’anni dopo, la disgregazione dell’impero sovietico sdoganò tensioni plurisecolari.
Nel 1988 estese proteste di piazza e voti politici interni al Partito comunista locale segnarono la volontà del Nagorno-Karabakh di ricongiungersi alle autorità armene che preparavano lo sganciamento dall’Urss in rapido declino. Il governo di Mikhail Gorbacev si limitò a reprimere proteste e azioni politiche in uno scenario ritenuto periferico, ma la questione fu solo dilazionata: nel 1991, quando la Rss dell’Azerbaijan proclamò l’indipendenza, gli armeni del Nagorno-Karabakh si appellarono alla legislazione sovietica ritenuta ancora vigente per stabilire la propria indipendenza. Il 3 aprile 1990 Gorbacev aveva promulgato ufficialmente le “Norme riguardanti la secessione di una repubblica dall’Urss” a cui il soviet locale si appellò proclamando l’indipendenza il 2 settembre 1991 e sottoponendo la questione a un referendum il 10 dicembre successivo.
Nel gennaio 1992 la conquista de facto dell’indipendenza da parte della Repubblica dell’Artsakh provocò la reazione dell’Azerbaijan, che aprì le ostilità contro Stepanakert e il nuovo governo armeno di Erevan.
Dopo una guerra a tutto campo tra il 1992 e il 1994, conclusasi con il cessate-il-fuoco e con uno status quo che vede ancora oggi l’Armenia controllare di fatto i distretti dell’Artsakh internazionalmente ritenuti territorio azero, il conflitto è proseguito a bassa intensità. Nel 2016 Marco di Liddo, del Centro Studi Internazionali (CeSI), analista ed esperto dell’area dell’ex-URSS, ha detto ad Inside Over che “la guerra del Nagorno-Karabakh è il più classico dei conflitti congelati, forse il ‘padre’ di questo genere di attriti politico-militari nello spazio post-sovietico e il confronto tra Erevan e Baku avviene in un contesto nel quale non esiste un preciso piano di pace ma soltanto un cessate il fuoco sine die. La corsa al riarmo, che ha coinvolto entrambi i contendenti negli ultimi anni, soprattutto l’Azerbaigian, aiutato dall’exploit petrolifero e da un significativo aumento della spesa militare, ha contribuito all’acuirsi della tensione”.
Schermaglie sanguinose al confine si sono verificate nel 2008, nel 2010, nel 2012, nel 2014 e nel 2016. L’attuale tensione al confine è ulteriormente esacerbata dalla particolare problematicità del teatro mediorientale e mediterraneo, che negli ultimi anni ha conosciuto una fluida evoluzione sul fronte siriano ed è stato perturbato dal crescente attivismo della Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Terre come il Nagorno-Karabakh rischiano di essere a lungo oggetto di battaglie e di fiammate improvvise fino a che i centri decisionali delle questioni geopolitiche saranno esterni alle capitali coinvolte.
L’escalation del conflitto ha riportato alla mente antiche e mai sopite rivalità, il sangue è tornato a scorrere laddove civiltà diverse si sono confrontate, in diversi casi scontrate, ma hanno, soprattutto, convissuto portando a un incontro di culture annullato nella retorica bellicista del presente.
Nel 2020 l’Azerbaijan è passato all’offensiva negli ultimi giorni di settembre su iniziativa del comandante in capo e presidente Ilham Allyiev per riconquistare i distetti ritenuti ex lege soggetti alla giurisdizione di Baku. Contro l’Azerbaijan l’Armenia e la repubblica dell’Artsakh hanno schierato unità regolari e miliziani, proponendo una mobilitazione popolare per difendere le terre che ritenevano di loro legittima sovranità, mentre a fianco delle truppe azere si sono schierate unità legate ai miliziani filoturchi operanti nel teatro siriano.
Il conflitto è durato circa quarantacinque giorni, fino al 10 novembre successivo, ed è stato contraddistinto da una sostanziale vittoria azera al momento del “cessate il fuoco” mediato dal ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. Forte della superiorità numerica, degli armamenti avanzati forniti da Turchia e Israele, dell’effetto-sorpresa e dell’azione di tecniche innovative come i “droni killer” usati contro postazioni fisse, carri armati e truppe nemiche le truppe di Baku hanno occupato sette distretti del Nagorno-Karabakh.
In particolare, sotto controllo di Baku sono caduti la porzione nord orientale dell’Artsakh (villaggi di Talish e Mataghis) facente parte della regione di Martakert, buona parte della regione di Hadrut e, come pezzo pregiato, circa metà della regione di Shushi compreso il suo capoluogo. Il conflitto ha segnato anche l’esodo dei cristiani armeni dai territori occupati da Baku; inoltre, bombardamenti hanno colpito il capoluogo dell’Artsakh Stepanakert e, nel fuoco incrociato, sono stati danneggiati sia il monumento nazionale dei cristiani armeni, la Cattedrale del Cristo Salvatore di Ġazančec’oc’ bombardata dalle forze azere, che la moschea di Gäncä bombardata il 9 ottobre dalle forze armene. La fine del confitto si è accompagnata a tentativi di riconciliazione sistemica tra Baku e Erevan che cercano un modus vivendi per evitare che, in futuro, il Caucaso meridionale torni nuovamente a farsi incandescente. Può una tregua reggere sul lungo periodo? Ogni previsione è azzardata quando si parla del Nagorno-Karabakh. Terra destinata dalla storia ad essere contesa e epicentro di guerre di confine.