Uno degli ultimi atti formali del governo Gentiloni ha riguardato le missioni internazionali che l’Italia sta conducendo in giro per il mondo. A tenere banco è stata soprattutto la questione Niger. Il governo ha spiegato che l’operazione è di vitale importanza e rappresenta la seconda fase di un progetto più ampio pensato soprattutto dal ministro dell’Interno Marco Minniti, ovvero contrastare l’immigrazione nei punti di partenza. In realtà il Paese africano è più un luogo di snodo che di origine ma rappresenta il collettore di flussi ingenti che finiscono col riversarsi in Libia.
La delibera del Consiglio dei ministri però racconta anche molti altri dettagli che l’Esecutivo non ha pubblicizzato. Sia sulle missioni meno note, che sugli impegni rinnovati o esauriti nel 2017. In particolare nel testo trasmesso alle commissioni parlamentari di Camera e Senato si legge che il governo ha deliberato «la prosecuzione delle missioni in corso», quindi quelle già finanziate nel decreto di un anno fa, ma anche «la partecipazione a ulteriori missioni» dove ricade quella in Niger, ma non solo. Ne è un esempio la conferma delle operazioni di pattugliamento aereo volute dalla Nato in Islanda e lo schieramento di 120 militari in Estonia. In totale verranno impiegati 6.698 militari.
Tenendo uno sguardo più ampio, la strategia dell’Italia per il nuovo anno è quella di un aumento della presenza in Africa. Come confermato dal ministro della Difesa Roberta Pinotti in un’intervista a Repubblica l’obiettivo per il 2018 è di rafforzare l’impegno nel continente. Il 15 gennaio il ministro, parlando alle commissioni riunite Difesa ed Esteri di Senato e Camera ha presentato il progetto del governo spiegando che si è deciso di «rimodulare l’impegno nelle aree di crisi geograficamente più vicine e che hanno impatti più immediati rispetto ai nostri interessi strategici» e in questo senso il Sahel, ha aggiunto, rappresenta «una regione di preminente valore strategico per l’Italia».E infatti a ben vedere nel futuro dell’Italia non c’è solo il Niger. Ma ben altri sette Paesi, alcuni dei quali sono partner di lunga data come Libia, Egitto, Gibuti e Somalia, mentre altri sono vere e proprie new entry: Sahara occidentale, Tunisia, Repubblica centrafricana e Niger appunto.
Nel 2018 il nostro Paese continuerà l’impegno in Libia e nel Mediterraneo centrale. Il governo ha infatti deciso di andare avanti con la missione Ippocarate, che prevede un dispiegamento di circa 400 uomini e il mantenimento di un ospedale da campo a Misurata. L’operazione, frutto di un accordo bilaterale con il governo di Tripoli, prevede anche una collaborazione con la guardia costiera libica (entità sulla quale non mancano le polemiche dato che in qualche occasione si è trattato di gruppi non dipendenti direttamente dal governo nato dall’accordo nazionale libico). Sostanzialmente rispetto al 2017 le forze in campo aumenteranno di 100 unità mentre i compiti andranno ben oltre il supporto sanitario. Riguarderanno anche «formazione e addestramento», «supporto per il ripristino delle infrastrutture» e «ricognizioni in territorio libico».
Accanto alle operazioni di terra proseguiranno anche le due missioni in mare. Il dispositivo “Mare sicuro”, che impiega oltre 600 uomini e la missione europea Eunavformed, nota anche come operazione Sophia che ne impiega altri 570.
Oltre alla Libia, ci sono altri tre scenari di cui si è parlato poco e che rappresentano una novità. Due coinvolgono pochissimo personale, mentre uno risulta già essere più delicato. Stiamo parlando della Tunisia. In questo caso l’Italia prenderà parte a una missione Nato. In particolare Tunisi ha chiesto all’Alleanza atlantica un supporto per costruire un comando di livello brigata (noto come Joint Headquarters) con il duplice obiettivo: attività di addestramento e consulenza, e creazione di un’infrastruttura di supporto per le operazioni. In totale 60 uomini prenderanno parte alle operazioni, in particolare nel ruolo di addestratori e di ricognizione, comando e controllo.
Gli altri due paesi nei quali verrà impegnata l’Italia sono la Repubblica centroafricana e il Sahara occidentale. Nel primo casa si tratta dell’invio di tre uomini per la missione europea EUTM – RCA con funzioni di addestramento per gli ufficiali del governo locale; nel secondo caso si tratta invece di una missione dell’Onu. Due uomini verranno inviati a Laayoune e prenderanno parte al contingente della Nazioni unite che dal 1991 si occupa di verificare il cessate il fuoco tra Marocco e Sahara occidentale in vista di un possibile referendum per l’indipendenza da Casablanca. Accanto a queste operazioni continueranno anche gli impegni in Egitto (80 uomini), Somalia (118 uomini) e la presenza fissa nella base italiana in Gibuti (90 uomini).
L’operazione più insidiosa rimane senza dubbio quella del Niger. Come detto il Paese è un crocevia per il traffico di esseri umani, ma non solo. Lo Stato africano è anche la sede della più importante base americana di droni da combattimento, costruita nella città di Agadez. Non solo. A ottobre la morte di quattro soldati delle forze speciali americane ha acceso un faro sulle attività statunitensi nell’area mostrando come l’insidia jihadista sia trasversale nei paesi del G5 Sahel (Niger, Mali, Mauritiania, Ciad e Burkina Faso). In questo senso la missione voluta da Palazzo Chigi risponde a una richiesta diretta del governo di Niamey. In particolare, si legge nel testo del governo, «supportare, nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e statunitense per la stabilizzazione dell’aerea e il rafforzamento della capacità di controllo del territorio delle autorità nigerine e dei Paesi del G5 Sahel, lo sviluppo della Forze di sicurezza locali per l’incremento delle capacità di contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza». Sulla carta si tratterebbe quindi di missioni legate all’addestramento. Ma in realtà il documento dice anche qualcos’altro. Fra i compiti ci sarebbe infatti anche il concorso ad «attività di sorveglianza delle frontiere e del territorio», un compito simile a quello svolto dagli americani e che il 4 ottobre 2016 ha portato alla morte dei soldati Usa. In realtà Pinotti ha ribadito che non sarà «una missione combat e non pensiamo di mettere i nostri militari a fare da sentinelle ai confini di quel Paese: è una missione di addestramento», ha spiegato aggiungendo che «è stato il Niger a chiedere aiuto, dicendo che ha un problema a controllare i confini: vogliono che li aiutiamo a essere capaci di controllarli».
Il contingente italiano non opererà però solo in Niger. Il porto di Cotonou in Benin verrà usato come principale scalo di imbarco/sbarco di uomini e mezzi, mentre la Nigeria renderà disponibili i canali di collegamento verso il cuore della missione. Per i primi sei mesi dell’anno le unità schierate dovrebbero essere 120 ma il loro numero crescerà fino a 470 con con una media annua di 256), con 130 mezzi terrestri e due aerei. Dentro a questi numeri alcuni ufficiali voleranno in Mauritania per operazioni di addestramento nel locale Defence College.
Come ha spiegato Pinotti Repubblica l’impiego delle forze in Niger deriva da un ridimensionamento del nostro contingente in Medio Oriente. Dovrebbero infatti essere ridotti a 200 gli uomini schierati intorno alla diga di Mosul, in Iraq, mentre uomini e mezzi dovrebbero essere rimpatriati da Erbil, così come dovrebbe essere assottigliato anche il gruppo di ricognizione in Kuwait. Il ministro ha spiegato che la riduzione arriva dopo la sconfitta dell’Isis nel Paese: «Daesh è stato sconfitto militarmente, anche se rimane alto il pericolo terrorismo. Pensiamo così di ridurre il nostro impegno nella coalizione anti-Isis arrivando ad un dimezzamento del contingente. In questo periodo abbiamo addestrato 30mila militari e 10mila forze di polizia irachene». Per risparmiare verrà anche ridotto il contingente attualmente impegnato in Afghanistan che passerà da 900 a 700 uomini. L’ultimo atto del governo Gentiloni contiene però una polpetta avvelenata per il prossimo esecutivo. Il decreto, che passerà al voglio della Camera l’11 gennaio, è tarato solo fino al 20 settembre 2018.
Il ministero dell’Economia, esaminata la richiesta del governo, ha stabilito che tutti gli impegni non andranno oltre la fine di settembre perché le risorse disponibili sull’apposito Fondo non sono sufficienti alla copertura dell’intero anno solare. Il Mef ha scritto anche che il nuovo quadro costerà 1.505 milioni di euro, in aumento rispetto ai 1.427 del 2017, proprio a causa delle nuove missioni che insieme agli impegni Nato faranno aumentare la base annua di 125 milioni di euro. Il ministero ha spiegato anche che il Fondo missioni aveva stanziato 995,7 milioni più i rimborsi Onu versati e non riassegnati pari a 17,7 milioni. Per questo, hanno notato i contabili del ministero, «occorrerà reperire antro il 30 dicembre, con un apposito provvedimento normativo, ulteriori 491 milioni di euro, salvo non si decida di ridurre gli oneri delle missioni». Ma quanto costano queste missioni. L’intero dispositivo libico raggiungerà quasi i 35 milioni di euro, quello nigerino 30 milioni, i 60 uomini in Tunisia costeranno 4,9 milioni, mentre Marocco e Repubblica centroafricana assorbiranno complessivamente 644 mila euro. Infine le operazioni Nato tra Islanda e Estonia costeranno in tutto 12 milioni.