Josip Broz, detto Tito, è stato uno dei leader più controversi tra quelli che hanno segnato la storia del Novecento. Nato nel 1892 da madre slovena e padre croato, Tito si distinse come voce più autorevole della resistenza jugoslava all’occupazione italo-tedesca della Jugsolavia tra il 1941 e il 1945, fu indubbiamente un leader politico sagace e seppe tenere unito il mosaico etnico-politico del Paese fino alla morte avvenuta nel 1980, dopo cui iniziò la disgregazione del Paese. Fu leader ben accolto nei salotti internazionali dopo la rottura con Stalin nel 1948, ricevette molte decorazioni tra cui la Legione d’Onore francese e divenne un uomo simbolo dei Paesi non allineati tra i due blocchi della Guerra Fredda.
Ciò che spesso non si ricorda, però, è il fatto che al pari di altre leader di potenze comuniste come Lenin e Stalin in Unione Sovietica e Mao Zedong in Cina Tito costruì la sua ascesa su una serie di operazioni di repressione degli oppositori, su politiche di pulizia etnica e su massacri sistemici. Grazie a un crescente impegno civico, politico e storico in Italia è emersa con forza la memoria della tragedia delle foibe contro gli esuli del territorio giuliano-dalmata reclamato da Belgrado. Ma purtroppo – smentendo una fuorviante retorica riduzionista sulla tragedia istriano-dalmata – gli eccidi delle foibe non rappresentano che una piccola parte dei massacri legati al consolidamento del potere titino. Degno compare per la forza delle sue repressioni dei più duri regimi del comunismo reale.
Tra il 1944 e il 1945 la graduale riconquista delle forze di resistenza jugoslave riportò il territorio del Paese sotto il controllo degli uomini di Tito scacciandone i tedeschi.
Il clima politico nel Paese era avvelenato dagli odii interetnici e sociali scatenati dalla frammentazione del Paese: in Croazia, il regime degli Ustascia aveva assassinato circa 650mila serbi tra il 1941 e il 1945 e nella resistenza si era aperta la guerra civile tra i titini e i partigiani cetnici filo-monarchici.
In maniera analoga a quanto fatto da Lenin in Russia venticinque anni prima, Tito usò il terrore per consolidare il potere nelle zone liberate. Rudolph Joseph Rummell, politologo statunitense (1932-2014) che ha insegnato all’Università delle Hawaii ha fatto un ampio studio del “democidio” jugoslavo imputabile a Tito sottolineando che il numero totale delle vittime del regime comunista jugoslavo tra la fase del suo consolidamento e i decenni successivi è da cinquanta a cento volte superiori ai morti accertati nelle foibe, attestandosi attorno ai 585mila.
Nella sola Slovenia, nelle terre contigue a quelle sede della tragedia delle foibe, i titini eliminarono 12mila oppositori politici solo nel 1945; dopo la presa di Belgrado, i primi mesi dello stesso anno furono teatro di oltre 50mila uccisioni. Il mese di maggio del 1945, in questo contesto, avrebbe segnato un vero e proprio bagno di sangue.
Il bersaglio furono i prigionieri di guerra del defunto Stato Indipendente di Croazia e tutte quelle forze che potevano in qualunque modo essere associate all’Asse. Lo Stato governato da Ante Pavelic si era sì reso responsabile di orribili crimini e repressioni, ma buona parte del suo esercito era costituito da imbelli coscritti male armati ed era ormai sbandato. Inoltre, nel 1943 Zagabria aveva aderito alla Convenzione di Ginevra e dunque, quando nel maggio 1945 i suoi uomini si arresero o alle forze britanniche in Carinzia o a quelle titine avrebbero dovuto ricevere ogni trattamento conforme alle leggi internazionali.
In una vera e propria forma di vendetta Tito, che aveva preso posizione a favore della maggioranza relativa serba, colpì con durezza i croati etnici, con cui pure condivideva in parte le origini. Quando i britannici decisero di rimpatriare in Jugoslavia i croati che si erano arresi oltre confine nella città di Bleiburg, in Carinzia, le truppe titine scatenarono il massacro: marce della morte, esecuzioni sommarie, vere e proprie cacce all’uomo causarono 70-80mila morti. A Tezno, vicino Maribor (Slovenia) furono uccisi 15mila prigionieri in un’unica operazione degna delle repressioni naziste in Polonia e Ucraina, in un episodio che causò più morti del massacro di Katyn; Kočevski Rog e Huda Jama furono teatro di ulteriori stragi. Nel 2009 ad Huda Jama — la “grotta cattiva” — i ricercatori Jose Dezman e Marko Strovs incaricati dal governo sloveno di capire la portata dei massacri dell’epoca scoprirono in una miniera abbandonata più di cinquemila corpi.
Rummel ha stimato che tra 50 e 150mila furono i morti, infine, tra i deportati nei campi di lavoro forzato in Jugoslavia tra il 1945 e gli Anni Sessanta. Sebbene sia più difficile, visti i lunghi periodi di detenzione, identificare i morti nei campi per le cause collaterali alla detenzione nella massa più ampia dei decessi, sicuramente anche Tito operò la costruzione di una galassia concentrazionaria rimasta attiva anche dopo il declino dell’Arcipelago Gulag sovietico.
Tra 5mila tedeschi e prigionieri di guerra della Wehrmacht, 2mila albanesi etnici e 2mila kosovari uccisi, inoltre, la repressione toccò anche diverse declinazioni etniche.
Sommando a queste cifre le problematiche legate ai massacri portati avanti per vendette etniche, politiche e personali dai cittadini jugoslavi, le repressioni non organizzate e le azioni non conteggiate nei documenti storici Rummel ha, come detto, stimato in almeno 585mila le vittime del democidio jugoslavo. Una quota sostanziale degli 1,5 milioni di cittadini uccisi dalle varie parti in causa tra l’inizio della guerra e il consolidamento del regime. A testimonianza della matrice sanguinaria della dittatura che ha promosso il massacro delle foibe.