L’assassinio di Aldo Moro e le sue conseguenze

Il 9 maggio 1978 il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro veniva assassinato dalle Brigate Rosse.

 

Moro, dopo cinquantacinque giorni di prigionia, fu assassinato nel garage della casa di Anna Laura Braghetti al numero 8 di via Montalcini, diventata la “prigione del popolo” delle Br. Le quali decisero di ammazzarlo nel bagagliaio della Renault R4 rubata il primo marzo del 1978 a Filippo Bartoli in cui poi il cadavere dello statista pugliese fu fatto ritrovare in Via Caetani a Roma. A metà strada tra Piazza del Gesù, sede della Democrazia Cristiana, e Via delle Botteghe Oscure, sede del Partito Comunista. I partiti che Moro aveva puntato a far dialogare strategicamente per costruire il nuovo consenso del “compromesso storico” che nei tre anni precedenti aveva portato il Pci alla linea della “non sfiducia” verso gli esecutivi guidati dalla Dc. Una linea tesa a stemperare le tensioni politiche che negli “Anni di Piombo” si erano scaricate sul sistema-Paese sotto forma di tentativi eversivi, terrorismo e instabilità

Il delitto, come detto, avvenne a cinquantacinque giorni dal tragico 16 marzo 1978, giorno in cui l’auto su cui viaggiava l’ex presidente del Consiglio fu intercettata in Via Fani a Roma da una colonna del gruppo terrorista di estrema sinistra. I brigatisti quel giorno sequestrarono Moro, che si recava a Montecitorio per approvare la fiducia al nuovo governo presieduto da Giulio Andreotti, uccidendo i due carabinieri a bordo dell’auto di Moro (Oreste Leonardi e Domenico Ricci) e i tre poliziotti che viaggiavano sull’auto di scorta (Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi).

Da quel tragico giorno seguirono due mesi che tennero l’Italia col fiato sospeso, durante i quali Moro fu sottoposto a un vero e proprio processo politico da parte delle Br e si aprì una serie di contenziosi tra il potere istituzionale, i sequestratori e i partiti per capire i margini di trattativa concessi e la reazione che era necessario mettere in campo.

Nella politica italiana un solo uomo ai vertici di partiti maggiori, il leader socialista e futuro premier Bettino Craxi, ruppe il fronte della fermezza. Alla posizione di Craxi, che riteneva possibile trattare con le Br per salvare Moro, si aggiunsero i radicali, la sinistra non comunista, i cattolici progressisti come Raniero La Valle, uomini di cultura come Leonardo Sciascia. La Democrazia Cristiana e il Pci, tuttavia, ritennero impossibile negoziare con le Br come attore istituzionale legittimato, sia per il fatto che il delitto di sangue di Via Fani rendeva impossibile una trattativa e una possibile strada che passasse per la grazia ai sequestratori sia per il fatto che nei due mesi del sequestro i brigatisti continuarono a spargere sangue nel Paese, uccidendo gli agenti di custodia Lorenzo Cotugno (a Torino, l’11 aprile) e Francesco De Cataldo (a Milano, il 20 aprile).

Lo statista pugliese morì dopo un lungo braccio di ferro che terremotò il neonato governo Andreotti IV e, in particolare, il Viminale. Il Ministro dell’Interno Francesco Cossiga era amico e stretto alleato di Moro e non poté fare a meno di dimettersi dall’incarico quando la notizia dell’assassinio del presidente del suo partito divenne di pubblico dominio. L’omicidio di Moro ha segnato la fase più buia degli Anni di Piombo e inaugurato la “notte della Repubblica”, la fase di convulsione del sistema. Le sue conseguenze politiche furono ad ampio raggio.

Gli opposti estremismi avevano già fatto scorrere sangue nel Paese. Da Piazza Fontana, nel 1969, all’attentato alla Stazione di Bologna sarebbero state circa 400 le vittime dell’offensiva stragista che gruppi di ispirazione neofascista come Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo e formazioni di estrema sinistra quali le Brigate Rosse avevano lanciato contro lo Stato.

Politici, sindacalisti, giornalisti, attivisti, poliziotti, carabinieri, comuni cittadini: l’elenco delle vittime della stagione del terrorismo nazionale, che lo Stato affrontò schierando leggi d’emergenza e gruppi come il Nucleo speciale di polizia giudiziaria creato dal generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, è lungo e agghiacciante.

Il terrorismo terremotò la Repubblica. Ne sottolineò la natura di Stato in bilico tra potenti pressioni internazionali; nel quadro della strategia della tensione (concentrata nel periodo 1965-1974) segnalò le oscure connivenze che saldavano apparati deviati dello Stato, gruppi terroristi di estrema destra, potentati economici ostili alla possibile convergenza tra Dc e forze di sinistra e frange degli apparati atlantici, mentre sul versante opposto mai chiariti fino in fondo sono stati i legami tra le Br e i gruppi legati ai servizi segreti esteuropei e mediorientali. L’Italia fu campo di battaglia in una fase in cui pochi statisti immaginavano per il Paese un ruolo non minoritario.

Dopo Enrico Mattei, in tal senso, Aldo Moro fu il maggior interprete di una strategia che ponesse l’Italia come attore autonomo tra Europa, campo occidentale e Mediterraneo. Atlantista di ferro e alleato degli Usa, Moro era però interprete di una linea di orgogliosa autonomia in settori come i rapporti diplomatici con i Paesi mediorientali e l’opposizione ai regimi dittatoriali ancora presenti in Europa. La trattativa sul compromesso storico che lo avvicinò a Enrico Berlinguer e al Pci, in tal senso, nacque dopo alcune riflessioni allarmate del segretario comunista seguite ai fatti cileni del 1973 e al golpe di Augusto Pinochet contro Salvator Allende.

La consapevolezza era che entrambe le branche del terrorismo, quella nera e quella rossa, fossero strumenti di destabilizzazione dello Stato e mine che facessero il gioco dei nemici dell’autonomia del Paese. Sia che si intendessero i Paesi del Patto di Varsavia sia che si facesse riferimento ai fronti più reazionari degli apparati Usa.

Moro, nella sua ultima esperienza da premier dal 1974 al luglio 1976, aveva cercato di fornire rassicurazioni a Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania Ovest sulla fedeltà dell’Italia allo schieramento di Roma nell’Alleanza Atlantica anche in seguito a un eventuale ingresso del Pci al governo e mirava a conquistare la poltrona di Presidente della Repubblica per poter condizionare, dal Quirinale, un’ulteriore strategia distensiva dopo che i mesi di tensione e violenza del 1977 avevano segnalato i nervi scoperti nella società italiana.

Moro cadde e assieme a lui venne meno l’ultima possibilità di evolvere il sistema della Prima Repubblica salvandone i fondamentali (cultura politica, prospettive strategiche, industria pubblica) e correggendone i difetti (assenza di alternanza, irrigidimento). La successiva rottura tra Dc e Pci, l’arroccamento comunsita sulla questione morale, e un decennio dopo la fine della Guerra Fredda avrebbero spaesato definitivamente un sistema politico figlio dell’equilibrio bipolare. Il tutto nonostante l’estremo, e col senno di poi incompleto, tentativo di Bettino Craxi (al governo dal 1983 al 1987) di rilanciare la visione strategica italiana sulla scia di Moro e dei suoi predecessori.

Con Moro venne meno anche il cuore pulsante della classe dirigente repubblicana. Il culmine dell’offensiva terrorista si risolse in un insuccesso tattico e strategico, il sogno delirante delle Br di chiamare all’insurrezione armata il popolo italiano era fuori dal tempo e dalla storia, ma coincise con la decapitazione della classe dirigente nazionale, con l’eliminazione dell’ultimo erede di una tradizione di governance che aveva elevato l’Italia da Paese distrutto dalla guerra a grande potenza economica europea e globale, a protagonista nel Mediterraneo. Per questo col delitto Moro si inaugurò la notte della Repubblica. Dopo il 9 maggio 1978 il Paese non poté che accorgersi, gradualmente, che si stava per aprire la fase del declino. La fine della Guerra Fredda e della Prima Repubblica avrebbero confermato queste tendenze.

 

 

 

 

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