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L’Isi, la vera “atomica” del Pakistan

La presa di Kabul da parte dei talebani di Hibatullah Akhundzada verrà ricordata dalla posterità come uno degli eventi più iconici di questa parte di 21esimo secolo. Perché quel giorno, 15.8.2021, la dura lex historiae ha conchiuso un capitolo-chiave del libro interminabile del Grande Gioco, quello relativo alla ventennale occupazione occidentale, preparando il calamo e l’inchiostro necessari alla scrittura di uno nuovo.

Sarà la storia a determinare l’epilogo di questo capitolo di cui la scrittura è appena iniziata, tuttavia non mancano gli elementi utili all’elaborazione di scenari e previsioni. Elementi che indicano che qui troveranno la morte o il canuto unipolarismo o l’incipiente multipolarismo. E che ci invitano a diffidare delle letture catastrofistiche di questi giorni, che vorrebbero Kabul 2021 come Saigon 1975, come la Caporetto dell’Impero americano. Letture che ignorano la storia degli ultimi quaranta anni: dopo Saigon 1975 ci furono Kabul 1989 e Mosca 1991.

Perché nel risiko afghano, babelico e nebuloso per natura, v’è solo una certezza – da sempre –: nessuno è al sicuro. Non lo sono stati gli occidentali – il cui legato ha mostrato la stabilità di un castello di carte –, non lo sono gli iraniani – tra i primi atti simbolici dei talebani figura la demolizione della statua di Abdul Ali Mazari (preludiante a strette sugli hazara e a problemi per Teheran?) –, non lo sono i cinesi – crescentemente vittime di attentati nel Belucistan pakistano – e non lo sono né i russi né gli indiani.

Qualcuno, però, è più che sicuro: è tranquillo, allegro, in estasi. Quel qualcuno è il Pakistan, la potenza incompresa che dal lontano 2001 attendeva pazientemente l’arrivo del Ferragosto più bollente della nostra epoca. Quella potenza incompresa i cui sogni egemonici, sin dal 1948, sono affidati alla potente e tenebrosa ISI.

L’Isi (acronimo di Inter-Services Intelligence) è la principale agenzia di intelligence del Pakistan, del quale difende la sicurezza nazionale e tutela gli interessi nel mondo raccogliendo, processando ed analizzando informazioni provenienti da tutto il pianeta, schermando i progetti critici delle forze armate e monitorando tutto ciò che avviene nel vicino estero.

Il personale dell’Isi è di estrazione sia militare sia civile, sebbene la prima componente sia maggioritaria sin dai tempi della fondazione – avvenuta nel 1948 – e abbia storicamente goduto del monopolio esclusivo dei ruoli-chiave e della stessa direzione. Una sovrarappresentazione le cui origini affondano nel trauma della prima guerra del Kashmir – un disastro per Islamabad – e nel desiderio della classe dirigente di evitare che potesse ripetersi in futuro.

Nel dopoguerra, in breve, la neonata Isi avrebbe ottenuto carta bianca su tutto, dalla riforma del sistema di raccolta di intelligence alla sorveglianza dell’estero vicino. E il motivo per cui la politica confidava nell’aiuto salvifico di questa agenzia, giovane quanto il Pakistan, era il seguente: gli operativi dell’Isi avevano in precedenza servito i britannici, apprendendo da loro l’arte dello spionaggio.

Con lo scorrere del tempo, in ragione della persistente debolezza delle istituzioni – il “sistema pakistano” viene periodicamente stabilizzato dall’intervento correttivo delle forze armate –, l’Isi è divenuto un veridico stato nello stato, un organismo in grado di condizionare in maniera determinante sia la politica domestica sia la politica estera e responsabile di una gamma di attività sempre più estesa: dal controllo dell’opposizione alla repressione del dissenso, e dalla protezione delle infrastrutture strategiche e critiche – come il porto di Gwadar – alla guerra coperta contro l’India nel Kashmir (e nel resto del mondo).

Il salto di qualità dell’Isi avviene con l’avanzare della guerra fredda, più nello specifico nel contesto dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. Guidato dal carismatico generale Akhtar, e mosso dall’obiettivo di profittare del conflitto per satellizzare la nazione dei pashtun, l’Isi avrebbe accettato ogni forma di supporto proveniente dalla controparte statunitense, ovvero la Central Intelligence Agency (CIA), nell’ambito della neonata operazione Ciclone: denaro, armamenti, informazioni esclusive, amicizie e, non meno importante, addestramento.

L’Isi, non la Cia, sarebbe stato il vero catalizzatore della vittoria dei mujaheddin nel teatro afghano. Perché se è vero che la Cia si sarebbe occupata di denaro, armi e logistica, lo è altrettanto che fu l’Isi a calamitare nelle propaggini afghane del Paropamiso un esercito di circa 250mila combattenti di Allah.

Esercito, quello dei mujaheddin, che l’Isi avrebbe fideizzato nelle madrase deobandite sparse in Pakistan e che avrebbe aiutato concretamente, ovvero conducendo per esso sabotaggi e operazioni di disturbo contro l’esercito sovietico, raccogliendo intelligence e allestendo dei rifugi inaccessibili e invisibili per i guerriglieri tra le cime impervie del montagnoso confine afghano-pakistano.

Terminata una guerra, quella contro i sovietici, nei primi Novanta ne avrebbe avuto inizio un’altra: quella civile. E il ruolo dell’Isi, anche in questo caso, sarebbe stato fondamentale. Perché, forte di una conoscenza senza eguali in materia di Afghanistan e fazioni in lotta, l’agenzia di intelligence aveva profetizzato la vittoria dei talebani del mullah Omar ed agito di conseguenza, ovvero armandoli, addestrandoli – le stime parlano di circa 100mila “diplomati” nella scuola Isi – ed aiutandoli a mezzo di sabotaggi, omicidi mirati, soldati e armi.

Il sostegno dell’Isi ai talebani, comunque, costituisce soltanto una parte della storia di questa organizzazione. Perché vassallizzazione della nazione dei pashtun a parte, perlomeno durante l’epoca del primo Emirato del mullah Omar, l’Isi sarebbe riuscito a portare a compimento altre missioni ad alto rischio, come la messa in sicurezza del programma nucleare nazionale da possibili sabotaggi esterni – vedasi India, Unione Sovietica e Israele – e l’armamento dei mujaheddin bosgnacchi ai tempi delle guerre iugoslave.

Ed è nel contesto dello stabilimento di alleanze con l’internazionale dell’islam radicale, dapprima in chiave antisovietica e dipoi antiserba, che, forse, vanno ricercate le origini della successiva metamorfosi dell’Isi da un’agenzia di intelligence al servizio di Islamabad ad una nebulosa realtà in simbiosi con il terrorismo islamista e, pare, coinvolta direttamente nella progettazione e nell’espletamento di attentati.

Quando un attentato particolarmente sanguinoso colpisce il suolo indiano, non importa che arrechi la firma dei naxaliti oppure degli islamisti, perché opinione pubblica, forze armate e politica punteranno sempre il dito contro un bersaglio: il Pakistan, o meglio l’Isi.

Non è dato sapere quante delle accuse mosse da Nuova Delhi verso l’Isi siano vere, anche perché è più comodo utilizzare un capro espiatorio che addossarsi la responsabilità di un fallimento, ma il dovere della cronaca ne rende obbligatorio un riepilogo. Un riepilogo che vedrebbe l’Isi coinvolto, secondo l’India, nella ribellione naxalita – esplosa nel 1967 ed ancora oggi in corso –, nel separatismo khalistano, nell’insurgenza kashmira e nel terrorismo islamista.

A dare manforte a Nuova Delhi, che per lungo tempo è stata tacciata di cospirazionismo, negli anni recenti si è aggiunto l’Occidente, che nell’Afghanistan ha trovato un pantano omicida e che ha accusato ripetutamente l’Isi di aver mantenuto in vita i talebani e stretto un’alleanza profana con l’internazionale jihadista capitanata da Al Qaeda.

Speculazioni, nient’altro che speculazioni, almeno fino alla notte del 2 maggio 2011, quando una squadra del SEAL Team Six fu inviata ad Abbottabad dall’amministrazione Obama allo scopo di eliminare Osama bin Laden, lo sceicco del terrore che quivi aveva preso dimora da qualche tempo, forse da anni.

Una presenza scomoda, quella di bin Laden, che all’epoca fu fonte di scandalo e che nel tempo si sarebbe rivelata decisiva nell’accelerare l’allontanamento di Islamabad dall’orbita di Washington. Una presenza che, secondo la versione ufficiale, sarebbe sfuggita agli occhi che tutto vedono dell’Isi, l’agenzia di intelligence più potente dell’Asia centro-meridionale. Una svista che, però, mai ha convinto gli Stati Uniti, che da allora hanno lasciato che il Pakistan venisse satellizzato dalla Cina e hanno ordinato una progressiva riduzione dell’interscambio tra Cia e Isi.

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