Nell’Europa degli Anni Ottanta e nell’Italia della Prima Repubblica la figura di Bettino Craxi è tra quelle che hanno attratto giudizi più complessi, in larga misura divisivi e mai definitivi per quanto riguarda l’effettivo giudizio storico sull’uomo e del politico. Vi è però un campo su cui tutte le analisi sullo statista milanese concordano: la natura originale e approfondita della politica estera dell’era in cui Craxi era a capo del governo italiano è giudicata essere alla base di una delle fasi di maggiore dinamismo della diplomazia della Prima Repubblica.
Craxi raccolse in eredità nel suo quadriennio di governo un posizionamento internazionale che vedeva l’Italia attiva protagonista nel Mediterraneo e in Medio Oriente ma in ogni caso attenta a riaffermare il suo posizionamento nel campo occidentale che il leader del Partito Socialista Italiano riteneva un presupposto irrinunciabile.
Nel 1981 Craxi fu decisivo per dare impeto politico in seno al governo del Pentapartito alla scelta del primo Presidente del Consiglio non democristiano del dopoguerra, il repubblicano Giovanni Spadolini, di indicare Comiso, in Sicilia, come base per il dispiegamento di 112 missili BGM-109 “Tomahawk” nel quadro del rilancio della contrapposizione strategica tra Usa e Unione Sovietica dopo l’ascesa alla Casa Bianca di Ronald Reagan. L’assenso di Craxi e del PSI era tuttavia subordinato a una più ampia visione della politica internazionale, in quanto ad essa veniva antemposta la volontà dichiarata di impegnarsi al raggiungimento della cosiddetta “opzione zero”, poi formalizzata nel 1987 dagli Accordi di Ginevra.
Secondo quanto affermato dall’ex segretario di Stato di Carter, senza i posizionamento dei missili in Europa “la Guerra Fredda non sarebbe stata vinta”, avendo il Vecchio Continente evitato la finlandizzazione e la sostanziale neutralizzazione cui l’Urss puntava schierando i missili a medio raggio; “senza la decisione di installarli in Italia, quei missili in Europa non ci sarebbero stati; senza il PSI di Craxi la decisione dell’Italia non sarebbe stata presa. Il Partito Socialista italiano è stato dunque un protagonista piccolo, ma assolutamente determinante, in un momento decisivo”.
Questa fu l’Italia in cui Craxi seppe agire da presidente del Consiglio negli anni successivi: un’Italia dotata di visione di ampio respiro, attenta a fungere da ponte negoziale tra Occidente e Oriente senza perdere contezza dei limiti operativi e dei margini di manovra a disposizione.
Il presidente del Consiglio non mancava di promuovere un’attenta difesa degli interessi nazionali. Craxi, formato nel mito garibaldino del Risorgimento, sentiva con grande enfasi l’idea dell’identità e della sovranità nazionale, da lui coniugati con un’impostazione socialista di profondo afflato riformista.
Alla Fiera del Levante, poco dopo l’ascesa al governo nel 1983, Craxi indicò il Mediterraneo come principale spazio d’azione per la politica di Roma. Sottolineando di ritenere chiaro il fatto che “l’Italia, immersa nel Mediterraneo, sente profondamente l’impulso naturale che la spinge a collegarsi con i popoli e i Paesi della regione mediterranea” Craxi promosse quella che sarebbe stata la sua agenda negli anni a venire: integrazione economica, commercio, diplomazia, contrasto al terrorismo, mediazione con il mondo arabo. “Siamo vitalmente interessati alla pace nel Mediterraneo”, aggiunse, e “nessuno potrà considerarci interlocutori estranei, o giudicarci animati da propositi invadenti se ci toccherà di far valere sempre la nostra parola su tutte le questioni rilevanti aperte nella regione”.
Questa era la concezione che il governo avrebbe avuto, negli anni a venire, del Mediterraneo: uno spazio aperto, un terreno di incontro diplomatico, un’area geopolitica in cui raffreddare i confliggenti interessi della Guerra Fredda e delle diverse agende internazionali in nome di un interesse comune di matrice economica, politica, culturale, quasi che il saggio dedicato alla storia mediterranea da Fernand Braudel avesse funto da ispirazione “morale” per l’azione di Roma.
Tale spinta risoluta prendeva slancio sia dalla spinta del precedente interesse per la regione avviato da figure come Enrico Mattei e Aldo Moro sia dal ruolo “ecumenico” giocato in seno al governo dal ministro degli Esteri, Giulio Andreotti.
Andreotti, nei sei anni da ministro degli Esteri avviati con i due governi Craxi (1983-1989) fu al centro dell’agenda politica globale. Si interfacciò con gli Usa e l’Unione Sovietica promuovendo una Ostpolitik che aprì ad importanti appalti nel blocco orientale per l’Italia, alla distensione, alla cooperazione industriale e commerciale; fece sponda con Giovanni Paolo II e il cardinale Agostino Casaroli per rafforzare l’effetto-moltiplicatore dei legami italo-vaticani; avviò, in sponda con Palazzo Chigi, un crescente interessamento per l’Africa.
L’asse Craxi-Andreotti produsse, in quest’ottica, importanti risultati che seppero valorizzare il posizionamento di Roma nell’agenda internazionale.
Il rinnovo del Concordato con la Santa Sede (1984) realizzato dal governo Craxi fu anche l’attestazione di un importante risultato di politica estera; la pacificazione del Mozambico colpito dalla guerra civile e l’espansione della diplomazia italiana verso Libia, Egitto, Etiopia, Tunisia segnalarono l’espansione della strategia africana; in campo mediorientale Craxi legittimò pienamente l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina come interlocutore per ridurre il potere negoziale delle organizzazioni più radicali e ostili a ogni dialogo; il rapporto con gli Usa, nonostante screzi come il famoso episodio di Sigonella, fu di dialogo e mutua fiducia. Ma mai piena subordinazione: ancor più emblematico del caso di Sigonella fu, in un certo senso, il suo discorso di fronte al Congresso Usa del 1985, nel corso del quale dichiarò senza mezzi termini la sua avversione al regime cileno di Augusto Pinochet sostenuto dagli Usa: “Sopra ogni altra sovrasta la richiesta di libertà del popolo cileno e questa richiesta ha bisogno dell’incondizionato appoggio di tutti noi”.
Craxi aveva visitato il Cile poco dopo il golpe dell’11 settembre 1973 che portò alla deposizione di Salvator Allende e aveva da allora in avanti preso decisamente a cuore la vicenda del Paese oppresso dalla dittatura militare di Pinochet. Il sostegno alla resistenza cilena non fu mai messo in discussione dal Psi di Craxi, che politicamente seppe dare voce a diverse richieste d’aiuto contro regimi oppressivi o dittatoriali.
In nome di un concetto di libertà chiaro e trasversale, Craxi e il suo Psi furono schierati a favore di diversi movimenti di resistenza che si opponevano sia a regimi comunisti che a giunte militari o di estrema destra, e analoga posizione ebbero i suoi governi.
Nel corso degli anni ebbero aiuti consistenti Solidarnosc, il sindacato polacco cattolico e anticomunista, cruciale nell’Ostpolitik andreottiana, gli esuli cecoslovacchi, il radicale argentino Alfonsin, incontrato da Craxi dopo la sua ascesa alla presidenza nel 1983 il brasiliano Lula, il peruviano Garcia, l’uruguaiano Sanguinetti, Perez in Venezuela e i movimenti di resistenza di Eritrea, Somalia, Palestina.
Craxi intuì in anticipo le problematiche legate al mantenimento di sacche di miseria e oppressione in Paesi abitati da popolazioni giovani o desiderose di un’ascesa sociale, politica, collettiva. E seppe intuire, nelle fasi finali della Guerra Fredda e negli anni che precedettero la sua uscita dalla vita pubblica italiana con Mani Pulite, le altrettanto problematiche conseguenze delle pulsioni disgregatrici della globalizzazione e dell’ascesa delle disuguaglianze su scala mondiale.
Nei suoi impegni dopo l’uscita da Palazzo Chigi, da leader del Psi e da inviato Onu, Craxi mise al centro dell’agenda la cooperazione allo sviluppo e l’alleanza tra i popoli più sviluppati e l’ex “Terzo Mondo”. A suo avviso i Paesi europei avrebbero avuto tutto l’interesse nel farsi promotori di un grande piano Marshall per la costruzione di una vasta regione euro-mediterranea e, al tempo stesso, a difendere l’ipotesi di un condono del debito dei Paesi meno sviluppati.
Nel settembre 1990, parlando di fronte alla Conferenza di Parigi sul debito del Terzo Mondo, Craxi indicò nella diffusione globale della povertà, nell’accensione di focolai di conflitto e nel degrado ambientale ed ecologico altrettanti fattori di disuguaglianza e anticipiò il tema del “giubileo del debito” che sarebbe entrato nell’agenda delle grandi organizzazioni internazionali, dalla Banca Mondiale al G7, nel decennio successivo, e avrebbe avuto un sostenitore strenuo nel Vaticano globale di Papa Giovanni Paolo II. Tale processo portò all’annullamento di miliardi di dollari di debiti dei Paesi africani e del resto del Terzo Mondo spesso gravanti sulle spalle di nazioni a causa delle politiche cleptocratiche o piratesche di regimi dittatoriali e classi dirigenti corrotte. Craxi individuò nella cooperazione e nell’inclusione l’antidoto migliore contro l’ascesa di sentimenti antioccidentali, la diffusione di estremismi politici e religiosi, l’esplosione di problemi come quello delle migrazioni. Dimostrando una volta di più una chiara e lucida comprensione delle dinamiche strategiche dopo gli anni di Palazzo Chigi.