Guida al voto in Turchia

La battaglia più importante per Recep Tayyip Erdogan si avvicina e le elezioni presidenziali turche, le seconde in cui la popolazione eleggerà un presidente ampie prerogative esecutive garantite dalla riforma costituzionale del 2017, che si terranno il 14 maggio saranno un crocevia decisivo per il suo mandato.

Dopo cinque anni di mandato seguiti alla vittoria del giugno 2018 al primo turno, segnati dalla perturbazione della pandemia, dalla tempesta geopolitica nel quadrante euroasiatico, dalla guerra in Ucraina e da un’inflazione e un’incertezza economica divenute assai vischiose Erdogan alla guida del Partito della Giustizia e dello Sviluppo si giocano il “sorpasso” su Mustafa Kemal Ataturk nel centenario della Repubblica Turca. A fronteggiarlo un’opposizione mai così compatta e riunita attorno ai kemalisti del Chp e all’Alleanza della Nazione, che candidano l’economista Kemal Kiliçdaroğlu.

L’importante Paese euroasiatico arriva all’appuntamento del voto fiaccato dalla recessione economica e dalla crisi valutaria, contraddistinta da una grave svalutazione della lira turca, e sulle barricate sotto il profilo geopolitico, avendo negli ultimi mesi rilanciato il suo attivismo a cavallo tra Nato, Russia, Cina.

Erdogan è alla guida un  Paese fratturato a metà tra le roccaforti favorevoli alla sua formazione politica, l’Akp, radicate nell’Anatolia profonda ove forte è l’afflato conservatore e il legame al tradizionalismo, e le aree rivierasche ed urbane in cui ha maggior fortuna il nazionalismo civico di derivazione kemalista. A quest’ultima ideologia facevano riferimento nel 2018 i due più seri sfidanti del presidenteMuharrem İnce del partito Chp e l’outsider Meral Akşener, “lady di ferro” della formazione Iyi (“Bene”).

Oggi i due partiti sono coalizzati nell’Alleanza della Nazione. I progressisti del Chp sono la seconda forza in Parlamento controllando 134 seggi, la destra di Iyi controlla 36 seggi e attorno a loro si schierano quattro partiti minori del centrosinistra e delo centrodestra. Non però l’Hdp, il partito curdo. Che però il 22 marzo scorso assieme alla sua formazione di sinistra radicale, l’Alleanza del Lavoro e della Libertà, ha annunciato di non voler schierare un candidato alle presidenziali. Annunciando una desistenza di fatto nei confronti dell’opposizione unita e a suo favore.

Ince ci riprova con la sua nuova formazione, Madrepatria, che critica la presunta assenza di risposte ai limiti delle politiche di Erdogan nel suo ex partito. C’è poi l’Alleanza Ancestrale di estrema destra. Il cui candidato, Sinan Ogan, fu membro del Partito del Movimento Nazionalista, i “Lupi Grigi”, fino al 2015, prima di essere espulso per le sue posizioni troppo radicali. Assieme raggranellerebbero tra il 6 e l’8% dei voti. Abbastanza per precludere a uno dei concorrenti di punta la vittoria al primo turno, in potenza. Questo apre a diverse analisi di scenario.

Nel 2018 le opposizioni divise si trovavano di fronte a una vera e propria linea del Piave (o una Çanakkale, per usare una metafora attinente alla storia turca): l’obiettivo era portare Erdogan al ballottaggio per poter unire in seguito le forze sul comune terreno programmatico fondato su nazionalismo civico e laicità.

Erdogan sbaragliò questo schieramento vincendo col 52% al primo turno. Oggi più di cinque anni fa il frastagliato campo che unisce secolaristi, curdi e nazionalisti laici ha trovato in Erdogan un motivo d’unione maggiore delle differenze interne.

Oggi Kiliçdaroğlu non si nasconde e punta alla vittoria al primo turno. I sondaggi sono estremamente sul filo del rasoio. La previsione è il classico pronostico da 1-X-2. Ci sono sondaggi che danno l’opposizione a guida Chp largamente in vantaggio e vincitrice di una decina di punti (tra 51-42 a 52-41) al primo turno. Altri danno Erdogan vincitore al 50,6% al primo scrutinio. La maggioranza delle rilevazioni, però, prevede che sarà ballottaggio e assegna a Kiliçdaroglu un lieve vantaggio, capace di amplificarsi al ballottaggio previsto per il 28 maggio fino a oltre 14 punti di scarto.

Il terremoto di inizio anno che ha raso al suolo Gaziantep e diverse aree al confine con la Siria è, in quest’ottica, la partita d’immagine alla cui risposta Erdogan tiene di più per potersi presentare come salvatore della nazione dal disastro del sisma di fronte al recupero dell’opposizione che controlla, soprattutto, le grandi città.

“Quando un forte terremoto scosse la regione di İzmit vicino a Istanbul nel 1999, l’allora primo ministro Bülent Ecevit – paralizzato dall’entità del disastro – fu ampiamente condannato per non essersi mobilitato abbastanza rapidamente”, ha scritto Politico.eu.

Il terremoto ha aggiunto un nodo chiave per Erdogan perché è avvenuto nel cuore politico e identitario del Paese, nel Sud terra di confine con la Siria su cui a lungo sono andate le attenzioni di Ankara, perché ha portato l’attenzione di osservatori e alleati internazionali su Ankara. Il “sogno turco” di Erdogan deve inoltre fare i conti con la sinergia tra tale crisi e un’economia fiaccata da un’inflazione annua giunta all’85% e accelerata dalle politiche finanziarie non ortodosse perseguite da Erdogan sui tassi, tagliati in forma eccessivamente inopinata prima del vento restrittivo iniziato su scala mondiale tra 2021 e 2022.

In un’economia fiaccata il sisma ha aggiunto pensieri a pensieri. “La ricostruzione dovrebbe costare da 10 a 50 miliardi di dollari, anche se la Confederazione turca delle imprese e delle imprese ha avvicinato il totale a 85 miliardi di dollari”, nota il New York Times, che aggiunge il fatto che “oltre 8.000 edifici sono stati rasi al suolo e le infrastrutture della catena di approvvigionamento, comprese le strade e il porto marittimo di Iskenderun, sono state danneggiate”.

Come spesso successo, Erdogan prova a rispondere con l’attenzione sulla politica estera e il nazionalismo. Viene cavalcata la matrice decisiva del ruolo turco nell’allargamento della Nato, si usa la sfida dei roghi del Corano in Svezia come giustificazione per fermare l’adesione di Stoccolma all’Alleanza Atlantica e tenere vivo un argomento retorico, si parla di rilancio degli accordi sul grano ucraino che scadono poco dopo le presidenziali, il 18 maggio, per potenziare l’immagine di Erdogan e Ankara nel mondo. La sfida è a tutto campo. E per Erdogan la partita è davvero al cardiopalma. In oltre vent’anni di potere, il presidente ed ex premier rare volte ha affrontato un redde rationem tanto importante. Il cui superamento lo proietterebbe, una volta per tutte, nella storia turca. Oltre Ataturk e oltre sé stesso e il limite del Centenario della Repubblica.

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