Quello di Françafrique, ovvero l’Africa della Francia, è ultimo esempio di spazio egemonico extracontinentale ancora de facto in vita di uno stato europeo. Come ha ben raccontato Lorenzo Vita in Imperi (in)finiti la Francia, al pari di Turchia, Russia e Regno Unito, è una potenza post-imperiale che vive in termini missionari la sua visione del mondo.
La proiezione egemonica in Africa le consente di dare un senso più alto alla sua grande strategia di politica estera. E la Françafrique è il più completo esempio di prolungata proiezione imperiale in assenza di dominio diretto che la storia europea e africana recente abbia contribuito a sviluppare.
Del resto, l’egemonia è una questione di idee, identità e necessità. Esistono potenze che si accontentano di se stesse, alcune che abbisognano di un estero vicino, per ragioni securitarie – Mosca e il mondo russo – o economicistiche – Berlino e la Mitteleuropa –, e altre che desiderano interi emisferi – Washington e la dottrina Monroe – o continenti – Parigi e l’ossessione per l’Africa.
Egemonia può significare ambizione su microscopici esteri vicini o su macroscopici spazi. Molto dipende dal mix di moventi materiali e ideologici che fornisce benzina ai sogni dell’egemone. Sogni che hanno spesso il colonialismo informale, i colpi di stato e le guerre sporche come mezzi, e la grandezza come fine. Come la storia della Françafrique ben insegna.
La Francia ha un solo destino: essere impero, o anelare a diventarlo. Se la Francia cessasse di (aspirare a) essere un impero, smetterebbe semplicemente di esistere. Non sarebbe più Francia. Perché lei, la regina d’Europa dalle mille spoglie, o è cercatrice di grandeur o non è.
Prima della Françafrique ci furono due imperi. Per la precisione, non quelli dei due Napoleoni, il Corso e Napoleon le Petit, bensì gli imperi coloniali costruiti da Parigi nel mondo. Il primo dei quali fu smantellato con la Guerra dei Sette Anni (1756-1763) prima e la caduta di Napoleone I poi, mentre il secondo costruito dal 1830 in avanti ebbe proprio nell’Africa il suo epicentro.
La Francia occupò l’Algeria nel 1830, per annetterla al territorio metropolitano e nel corso degli anni estese anche la sua influenza in Tunisia nel 1881 stabilendovi un protettorato. All’inizio del governo del futuro imperatore Napoleone III fu stabilito un presidio commerciale e coloniale in Senegal e fu occupata anche l’isola del Madagascar. Divennero in seguito colonie transalpine i territori oggi appartenenti agli attuali Mauritania, Guinea, Mali, Costa d’Avorio, Benin, Niger, Ciad, Repubblica Centrafricana, Gabon, Camerun; fu stabilito un presidio nel Corno d’Africa, a Gibuti. Pietro Savorgnan di Brazzà, esploratore italiano, in nome di Parigi prese invece possesso del Congo.
L’impero francese in Africa fu il retroterra su cui la Francia costruì un capitalismo coloniale estrattivista mai paragonabile a quello britannico ma tale da fare, nuovamente, della potenza di Parigi un attore globale. Fu inoltre il primo terreno della Liberazione del generale Charles de Gaulle, che dall’Africa iniziò a costruire una base territoriale alla Francia Libera. Un legame osmotico, quello franco-africano, a cui dopo la scoperta di risorse strategiche e il declino dell’Europa Parigi non ha voluto rinunciare. Per non perdere la sua missione fondativa: essere impero, a qualunque costo.
La storia della Françafrique, o Franciafrica, comincia con la fine della Seconda guerra mondiale, secondo episodio della grande guerra civile europea e capolinea del sistema europeo degli Stati e dei loro imperi coloniali. All’epoca, nel 1945, quasi un terzo della popolazione globale viveva sotto il giogo delle potenze coloniali del Vecchio Continente e la sola Francia legiferava sulle vite di oltre 100 milioni di africani sparsi su un territorio di 11 milioni di chilometri quadrati.
Il tricolore francese sventolava da Algeri ad Antananarivo. Ma il vento tagliente della decolonizzazione, alimentato da genuine ricerche di indipendenza e dai tornei di ombre delle nuove potenze globali, avrebbe rivoluzionato la geografia politica dell’Africa nell’arco di un ventennio. A partire dal fatidico 1946.
Scrivere della Françafrique, che è un termine giornalistico, equivale a raccontare dell’Unione francese – prima erede dell’Impero, esistita dal 1946 al 1958 – e della Comunità francese – creazione gollista fondata nel 1958 e terminata da Jacques Chirac nel 1995 – e di tutto ciò che è accaduto nel corso della loro cinquantennale saga: cambi di regime, false flag, guerre civili teleguidate, neocolonialismo – i franchi francesi –, omicidi politici, operazioni di polizia e terrorismo.
Con il supporto di un genio della strategia rispondente al nome di Jacques Foccart, altresì noto come Monsieur Afrique, Charles de Gaulle e successori hanno utilizzato ogni mezzo a disposizione della Francia nel perseguimento dell’obiettivo ultimo della preservazione di una posizione di primazia sulle vecchie e nuove potenze interessate al continente. Il prodotto di mezzo secolo postcoloniale è stata la costruzione di un sistema egemonico a ragnatela, strutturato su logiche di dominio e sfruttamento coloniali, i cui fili toccano quasi l’intero continente e non risparmiano neanche quegli spazi privi di legami passati con la Francia, come Congo e Libia.
La Françafrique è stata costruita in concomitanza con la decolonizzazione, sullo sfondo della Guerra fredda tra Occidente e Unione Sovietica e della guerra eterna tra Francia e Inghilterra. La sua materializzazione è stata possibile grazie al divide et impera, cioè strumentalizzando le rivalità interetniche e interreligiose che animano le multinazioni artificiali del continente; alla corruzione; a pratiche di colonialismo informale; e a una rilevante dose di potere morbido: la laica francofonia come collante di popoli in luogo del razzialistico (ed emancipatorio) panafricanismo.
Scrivere della origin story della Françafrique, ovvero della sua costituzione durante il processo di decolonizzazione, equivale a raccontare, in particolare, di episodi come:
- L’assassinio di Ruben Um Byobe, il fondatore dell’Unione dei popoli del Camerun, nel 1958;
- L’avvelenamento (letale) di Félix-Roland Moumié, successore di Um Byobe, nel 1960;
- L’eliminazione di Barthélemy Boganda, fondatore del Movimento per l’evoluzione sociale dell’Africa nera, a mezzo di sabotaggio aereo nel 1959;
- L’uccisione di Patrice Lumumba, ex primo ministro congolese, giustiziato durante la guerra del Katanga nel 1961;
- La morte di Sylvanus Olympio, presidente del Togo, perito durante il colpo di stato del 1963;
- Gli agguati mortali a Outel Bono, leader dell’opposizione alla dittatura ciadiana di François Tombalbaye, e Dulcie September, attivista antiapartheid, freddati a Parigi rispettivamente nel 1973 e nel 1988;
- La scomparsa di Thomas Sankara, carismatico presidente del Burkina Faso, martirizzato durante il golpe del 1987.
Scrivere della origin story della Françafrique equivale a raccontare di un’intera epoca, la Guerra fredda, trascorsa a contrastare la diffusione del panafricanismo e a guerreggiare con vecchi – Regno Unito – e nuovi nemici – Unione Sovietica – per l’egemonia del continente. Equivale a raccontare di omicidi politici, delle rocambolesche avventure di Bob Denard, di operazioni militari – come Barracuda – e di guerre civili – come il fratricidio nigeriano del 1967-70. Tutto nel nome di un imperativo: impedire l’alba dei popoli africani.
La Françafrique ha superato la prova della decolonizzazione, ingabbiando il fu spazio coloniale in quella che il giornalista investigativo François-Xavier Verschave ha definito “una nebulosa di attori economici, politici e militari, in Francia e in Africa, organizzata in reti e gruppi di pressione, e concentrata sullo sfruttamento […] di materie prime e aiuti pubblici allo sviluppo”.
La Françafrique si identifica con gli interessi commerciali e politici di Parigi: la corsa all’uranio del Niger da parte di Areva, multinazionale a controllo statale che alimenta nel Sahel l’energia atomica transalpina; i rifornimenti di armi al Ciad, “gendarme” nella regione; gli investimenti nelle infrastrutture, la logistica e i porti dell’impero economico di Vincent Bolloré, le missioni boots on the ground compiute dal Gibuti alla Costa d’Avorio e la strumentalizzazione degli aiuti allo sviluppo – 2,9 miliardi di euro nel 2020.
La sfera securitaria della Françafrique è particolarmente pronunciata: più di 70 operazioni militari (antipirateria, antiterrorismo, controinsurgenza, gestione di crisi, mantenimento della pace e via dicendo) in oltre 20 Paesi dal 1946 al 2022; un dispositivo militare semipermanente nel Sahel e dintorni di circa 6 mila soldati; 32 accordi di cooperazione in affari militari, difesa e sicurezza.
Ultimo, ma non meno importante, è il caso del Franco della Comunità Finanziaria Africana (Cfa), la moneta delle ex colonie la cui emissione è controllata da Parigi e lega il destino di 14 economie al Tesoro francese. Curiosamente, in origine, ovvero nel 1945, Cfa era l’acronimo di “Colonie Francesi d’Africa” e soltanto successivamente lo divenne di “Comunità Finanziaria Africana”. Contenuto diverso, medesima sostanza: Parigi ha costruito una nicchia di enorme privilegio in Africa che contribuisce a rendere la Francia una potenza più che europea, eurafricana.
Oggi, dopo aver resistito all’onda d’urto della decolonizzazione, l’Impero africano della Francia vacilla sotto i colpi di forze interne ed esterne. La Cina mette a repentaglio il primato economico della Francia con un’infiltrazione surrettizia e graduale. I ritorni di fiamma di malconcepiti tentativi di “furto geopolitico” non smettono di produrre dei buchi neri, dalla Libia al Congo, dai quali trarre profitto a detrimento altrui è impossibile. Le insurrezioni jihadiste nel Sahel e dintorni mostrano un sentimento francofobico montante. E le missioni militari francesi iniziano a subire la disaffezione popolare nei Paesi target, come il caso del Mali insegna.
Alle spalle del protagonismo cinese e turco, si pone la questione dell’ascesa militare della Russia in Paesi che la Francia vorrebbe sotto la propria influenza, dall’Algeria al Mali, e della presenza sempre più pervasiva dei mercenari Wagner nella Françafrique, che mostra come la svolta verso il mondo multipolare stia minando le basi della primazia transalpina. Senza però che per l’Africa giunga l’ora dell’indipendenza e del riscatto: si tratta di una competizione egemonica in cui pochi Paesi, forse solo quelli del Sahel, sapranno sottrarsi alla logica che li vede oggetto e non soggetto delle relazioni di potenza.