Chi è Emmerson Mnangagwa

Per gran parte della sua vita ha ricoperto incarichi politici. Quasi ininterrottamente. E di qualsiasi tipo. Poi ha scalato il vertice. E l’ha raggiunto, a 75 anni. Perché Emmerson Mnangagwa, dal 22 novembre 2017, è diventato il presidente di quel Paese che sì, era stato anche suo, ma che di fatto apparteneva a Robert Mugabe.

Lo Zimbabwe, infatti, in 365 giorni, ha cambiato volto. Scambiando quello dell’ex presidente, oggi 94enne, con quello di Mnangagwa. Che, nel paese africano, non è appunto un uomo qualsiasi.

Lo chiamano tutti “il Coccodrillo“, in Africa. Forse per la spietatezza delle sue scelte o forse per l’astuzia strategica. Per anni è stato il braccio destro (e alcuni dicono il braccio armato) di Mugabe e uomo potente del partito ZANU-PF. Ma i luoghi che contano, Mnangagwa aveva già iniziato a frequentarli nel 1980, quando Mugabe era Primo Ministro dell’ex Rodhesia.  Dal 1980 al 1988, arrivò la prima nomina a ministro della Sicurezza dello Stato. E da quel momento, non rimase a lungo senza altri incarichi. Per i 12 anni successivi, infatti, divenne ministro della Giustizia (ruolo che ricoprì anche di recente, dal 2013 al 2017) e dal 2000 al 2005 fu speaker del parlamento. Per quattro anni, dal 2005 al 2009, venne scelto il suo nome per il dicastero dell’Edilizia rurale. Salvo poi approdare a quello della Difesa, dal 2009 al 2013. Dal 2014 fino alla caduta di Mugabe fu il suo vice e negli ultimi tre anni, prima della cacciata del dittatore, accumulò diverse cariche. Un incessante concatenarsi di incarichi. E un potere tentacolare che ha raggiunto, letteralmente, ogni spazio.

Mnangagwa, negli anni, riuscì a coltivare anche un certo peso all’interno del suo partito politico, diventandone uno dei suoi leader più potenti e influenti. Tra le altre cose, infatti, fu, per quattro anni, dal 2000 al 2004, il segretario amministrativo. Il che lo rese molto popolare. Un’influenza, la sua, che lo aveva collocato quasi di diritto alla successione di Mugabe. Elemento che, però, lo portò in forte contrasto con l’ex fist Lady, Grace Mugabe.

Un anno fa, l’ex dittatore lo licenziò dai suoi incarichi. Per “carenza di rispetto, slealtà, inganno e inaffidabilità”. Il gesto lo costrinse alle dimissioni, che rassegnò il 6 novembre 2017, lasciando il Paese. Una volta uscito, spinse per ottenere la cacciata di Mugabe, in seguito al colpo di stato dell’esercito contro di lui, il 15 novembre. Dopo quattro giorni il suo nome sostituì quello dell’ormai ex Presidente, obbligato a lasciare dopo l’espulsione dal partito, e divenne il leader della formazione politica. In Zimbabwe ci è tornato il 22 novembre 2017 e da allora è rimasto al suo posto.

Eppure, sono in molti a credere che, al centro delle operazioni per il cambio al vertice, ci fosse l’esercito. E non la popolazione, soltanto invitata a partecipare. Ma per i militari non si sarebbe trattato nemmeno di un reale colpo di stato. Ma non ci sarebbe stata nemmeno una transizione così pacifica come in molti, a partire dall’Unione Africana, avrebbero sostenuto all’indomani del cambio al vertice.

Mnangagwa, poco dopo la sua nomina, avrebbe promesso un’amministrazione diversa, meno corrotta e più efficiente, meno autoritaria e più trasparente. Per un periodo, infatti, ha dimostrato di ammorbidirsi con l’opposizione e ha cercato di attirare capitali esteri per provare a salvare l’economia del Paese, in bancarotta. Ma è apparso quasi subito chiaro che, negli anni, l’impronta politica di Mugabe aveva forgiato e formato la personalità politica del nuovo leader. Le elezioni generali di quest’anno, infatti, con cui Mnangagwa è stato confermato con il 50,4% dei voti, avrebbero presentato pesanti irregolarità. Chi ha protestato è stato fermato dai militari. Oppure è stato ucciso (finora sono sei le vittime tra i manifestanti).

Intanto, nello Zimbabwe, i prezzi sono saliti e il denaro contante sta diventando scarso. Le file ai bancomat, per il carburante e per l’acquisto di generi alimentari di base sono lunghe. Diverse attività sono state chiuse e l’economia non sembra dare segni di ripresa. E se gli investitori non hanno interesse a portare i propri miliardi nel paese africano, in molti sembrano invece essere attratti dai suoi giacimenti di cromo, litio e diamanti. Il tesoro africano dal valore inestimabile.

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