Nato, cos’è Trident Juncture e perché è così importante

Lo scenario è imponente. 50mila uomini, 10mila veicoli, 250 aerei e una sessantina di navi. La Nato ha scelto la Norvegia e il Nord Europa per flettere i propri muscoli in quella che è sembrata una chiara risposta alle ultime dimostrazioni della Russia. Dal 25 ottobre fino al 7 novembre i 29 Paesi dell’Alleanza atlantica più Svezia e Finlandia saranno impegnati nel Trident Juncture 2018, una vastissima esercitazione, la più imponente dai tempi della Guerra fredda.

In realtà le settimane a cavallo di ottobre e novembre sono solo la punta dell’iceberg. Tutto è iniziato già ad agosto con l’inizio del dispiegamento di truppe e il loro spostamento dall’Europa centrale verso la penisola scandinava. Poi verso la fine di ottobre sono iniziate le primissime operazioni, mentre il 31 è partita la fase principale delle operazioni. Poi dopo il 14 novembre ci saranno le valutazioni finali con il disimpegno da completare entro la fine dell’anno.

Ovviamente le intenzioni della Nato non sono solo quelle di inviare un messaggio a Mosca – che fra l’altro ha mostrato di non aver apprezzato la location norvegese con una contro esercitazione missilistica – ma di fare una serie di test e analisti per capire quali sono le condizioni dell’Alleanza nel caso di un conflitto aperto. Il Trident Juncture di quest’anno è forse il più importante degli ultimi anni. La necessità di Stati Uniti e alleati europei di raccogliere informazioni è così vitale che l’intero dispositivo è stato posto sotto un pesante monitoraggio.

membri nato

 

Lo scopo del Trident Juncture come abbiamo visto è soprattutto quello di raccogliere dati, nello specifico tre tipi di indicazioni. La prima e più semplice è quella per il Paese ospitante. La Norvegia ha lavorato molto per ospitare un simile evento perché aveva bisogno di un test credibile per la sua strategia della “difesa totale”, un concetto che prevede una strettissima collaborazione tra militari e civili nell’ottica di un lavoro comune in caso di guerra. La seconda riguarda invece l’interoperatività, la capacità di tutti gli Stati membri di lavorare insieme, condividendo uomini, mezzi e tecniche di combattimento. Ma la vera domanda cui la Nato cerca riposta è un’altra: “Siamo in grado di portare uomini e mezzi dove vogliamo nel tempo in cui vogliamo?”, come a dire: “In caso di conflitto siamo in grado di dispiegare in modo rapido ed efficace le nostre forze?”.

Come hanno scritto le forze armate norvegesi, l’operazione prevede l’arrivo di 180 voli militari e di 60 navi che accederanno al Paese in 27 diversi punti, tra porti, aeroporti e terminal ferroviari. Addirittura, scrivono ancora i norvegesi, se tutti i veicoli che prendono parte alle operazioni fossero allenati si raggiungerebbe una distanza di 92 chilometri.

Gli scenari dell’esercitazione sono tre: terra, cielo e mare. Il primo contesto è forse il più complesso. Prevede di dividere i partecipanti in due forze che “combatteranno” tra loro. La prima, stanziata a Nord, è guidata dal comando Nato e composta dalle forze norvegesi, Svedesi, Canadesi, e gruppi di Marine americani. La seconda, quella stanziata a Sud, viene guidata da un comando congiunto tra Germania e Olanda appoggiata da brigate dell’Italia e del Regno Unito. Tutte le altre forze sono state poi assegnate via via dov’era necessario, come la Guardia nazionale norvegese assegnata al lavoro con la Nato Response Force, l’unità di azione rapida dell’Alleanza che a sua volta dispone della Vjtf, la brigata di 5mila uomini che può essere dispiegata in soli due giorni. Queste due forze si sfideranno in due fasi. La prima, tra il 31 ottobre e il 3 novembre, prevede la simulazione di un attacco da Nord verso Sud che prevede anche l’uso di mezzi anfibi dell’esercito americano. La seconda, che durerà tra il 4 e 7 novembre, prevede un contrattacco delle forze del Sud per riconquistare quanto preso da quelle del Nord.

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Le operazioni aeree, che si estenderanno sul’area dei “combattimenti”, prevedono il decollo di diversi aerei sia da basi norvegesi che da quella svedesi e finlandesi. Il tutto in un ottica di integrazione con quanto succede sul terreno.

Lo scenario marittimo, come quello terrestre, prevede due forze che si fronteggiano tra di loro. Il gruppo del Nord comprende Canada, Danimarca, Norvegia, Polonia e Regno Unito, mentre quello del Sud è gestita dai comandi Nato con mezzi di Belgio, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Lettonia, Lituania, Olanda, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Turchia e Regno Unito.

versione aerea

Lo scopo del Trident Juncture come abbiamo visto è soprattutto quello di raccogliere dati, nello specifico tre tipi di indicazioni. La prima e più semplice è quella per il Paese ospitante. La Norvegia ha lavorato molto per ospitare un simile evento perché aveva bisogno di un test credibile per la sua strategia della “difesa totale”, un concetto che prevede una strettissima collaborazione tra militari e civili nell’ottica di un lavoro comune in caso di guerra. La seconda riguarda invece l’interoperatività, la capacità di tutti gli Stati membri di lavorare insieme, condividendo uomini, mezzi e tecniche di combattimento. Ma la vera domanda cui la Nato cerca riposta è un’altra: “Siamo in grado di portare uomini e mezzi dove vogliamo nel tempo in cui vogliamo?”, come a dire: “In caso di conflitto siamo in grado di dispiegare in modo rapido ed efficace le nostre forze?”.

A ridosso dell’imponente prova di forza il Wall Street Journal ha scritto con una punta di malizia che la Nato sta rispolverando una vecchia abilità della Guerra Fredda: spostare le truppe. Fin dal suo insediamento alla Casa Bianca il presidente Donald Trump ha chiesto a tutti i Paesi alleati di tornare a spendere per la propria Difesa, superando la famosa soglia del 2% del Pil. In realtà, fa notare il quotidiano americano, gli europei dovrebbero capire come spostare gli armamenti che già possiedono.

Diversi ufficiali hanno ammesso che negli ultimi trent’anni le infrastrutture europee e l’industria bellica hanno intrapreso due percorsi quasi opposti. Strade, ponti gallerie e ferrovie non sono più dimensionate per trasportare mezzi militari. Centinaia di viadotti e strade oggi non sono più in grado di trasportare carri armati da centinaia di tonnellate.

esercitazione nato 2

I giorni norvegesi servono quindi per cercare di riportare quelle due strade a viaggiare parallele. I paesi Nato devono approntare una campagna di ammodernamento che prenda in considerazione sia la creazione di mezzi militari, come ad esempio ponti modulari, che la creazione di infrastrutture civili adatte allo scopo. Paradossalmente l’investimento più oculato potrebbe arrivare da un ammodernamento della logistica piuttosto che dall’acquisto di nuovi armamenti ed equipaggiamenti.

C’è però anche un altro dato interessante. Dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Urss, la Nato ha continuato ad allargarsi. L’anno da osservare è soprattutto il 1999 quando tre ex Paesi del Patto di Varsavia entrarono nell’Alleanza: Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria. I vertici dell’organizzazione si preoccuparono di accogliere i nuovi venuti ma non analizzarono mai lo stato delle loro infrastrutture, nonostante il loro ingresso portasse il confine occidentale molto più vicino alla Russia.

Una soluzione potrebbe arrivare dall’attività dell’Unione europea. Da un lato con un’insieme di norme che unifichi e renda omogenee alcune disposizioni, come le leggi sul traffico. Dall’altro spingendo i vari stati membri a investire più fondi in infrastrutture che rispettino i parametri Nato. Non solo. Nel budget per il prossimo futuro sono stati stanziati circa 6,5 miliardi di euro per assicurare un trasporto strategico che rispetti i bisogni della mobilità militare.

Un altra soluzione, che è stata implementata proprio durante il Trident Juncture norvegese è la diversificazione. Nel maggio scorso gli Usa hanno inviato in Europa soldati e mezzi della Iron Horse Armored Brigade con lo scopo di ruotare le forze dell’Operation Atlantic Resolve (il dispositivo creato per aumentare la presenza americana dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia). Lo spostamento dei tank americani attraverso l’Europa è iniziato dal porto belga di Anversa e si è dispiegato attraverso il continente in modo diversificato, usando chiatte, veicoli da trasporto e treni. In questo modo la missione si è svolta con una maggiore rapidità.

Il prossimo passo del Vecchio continente sarà quello di rendere maggiormente strutturata questa diversificazione. Un piano che preveda nuove strade con nuovi mezzi di trasporto, porti facili da usare per il carico e scarico delle merci e dispositivi ferroviari adeguati. Ma non sarà facile attuare tutto, soprattutto l’ultimo punto. Durante la Guerra Fredda le ferrovie europee disponevano di migliaia di vagoni capaci di trasportare carri armati e mezzi blindati, pronti all’uso in caso di guerra contro il blocco sovietico, ma dopo l’89 la privatizzazione e il controllo dei costi ha portato a uno smantellamento del sistema. L’unico modo per cambiare le cose sarebbe quello di convincere gli Stati Uniti che questa spesa potrebbe rientrare in quelle per la Difesa. Un punto che con ogni probabilità finirà sul tavolo dello Studio ovale e nelle varie cancellerie europee dopo il 7 novembre.

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