L’Unione europea ha lanciato nel 2015 la missione navale European union naval force mediterranean (Eunavfor Med) – Sophia con il duplice obiettivo di vigilare sull’embargo delle Nazioni Unite sulle armi in Libia e contribuire alla lotta al traffico di petrolio e di esseri umani nel Mediterraneo centrale.
Dall’aprile 2019 gli Stati membri hanno deciso di sospendere le attività di pattugliamento dell’operazione militare in conseguenza della cosiddetta “politica dei porti chiusi” dell’allora ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini. La missione navale europea si trova quindi nella paradossale situazione di operare senza navi. Attualmente, infatti, Eunavfor Med è presente nel Mediterraneo con sei aerei e un drone (fornito dall’Italia). In teoria le navi ci sono, ma sono ormeggiate nei porti in attesa di ordini.
Dopo la Conferenza di Berlino sulla crisi libica organizzata sotto gli auspici dell’Onu il 19 gennaio 2020, si è molto discusso di un possibile ritorno di Sophia in mare e, addirittura, di una sua possibile espansione. La missione può contare su forte mandato del Consiglio di Sicurezza puntellato da quattro risoluzioni – 2146 (2014), 2292 (2016), 2357 (2017) e 2362 (2017) – ma necessita di un ulteriore passaggio al Palazzo di vetro e dell’invito ufficiale delle autorità libiche per essere realisticamente in grado di impedire l’ingresso di nuove armi in Libia.
La mappa delle potenze straniere in Libia (Infografica di Alberto Bellotto)
Gli obiettivi della missione sono molteplici e alcuni – aggiunti nel tempo – sono davvero ambiziosi:
- addestramento della Guardia costiera e della Marina libiche
- attuazione dell’embargo sulle armi delle Nazioni Unite in alto mare al largo della costa della Libia
- istituzione di un meccanismo di monitoraggio dell’efficienza a lungo termine dell’addestramento dei libici
- nuove attività di sorveglianza e raccolta informazioni sul traffico illegale di petrolio esportato dalla Libia
- migliorare le possibilità per lo scambio di informazioni sulla tratta di esseri umani con le agenzie di contrasto degli Stati membri, Frontex ed Europol.
I guardacoste e i marinai libici si addestrano in Italia, in particolare alla Maddalena e a Taranto. Nel corso del suo mandato, Sophia ha addestrato oltre 500 libici che oggi effettuano circa il 50% delle operazioni di Search and Rescue (Sar) nel Mediterraneo centrale. Il compito principale della missione oggi è quello di dare l’allarme ai competenti Maritime Rescue Nation Centre (italiano, libico, tunisino e maltese) segnalando eventuali gommoni in difficoltà. Quanto all’embargo sulle armi – ripetutamente violato dagli stessi Paesi che si sono impegnati a Berlino a non sobillare il conflitto, come denunciato dall’inviato Onu Ghassan Salamé – la missione ha decisamente fallito l’obiettivo,
L’operazione è suddivisa in quattro fasi:
- Fase Uno (22 giugno – 7 ottobre 2015) volta a dispiegare le forze e raccogliere informazioni sul modus operandi dei trafficanti e contrabbandieri di esseri umani;
- Fase Due (7 ottobre 2015 – in corso), durante la quale gli assetti della Task Force potranno procedere, nel rispetto del diritto internazionale, a fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico o la tratta di esseri umani. Tale fase è stata a sua volta suddivisa in una fase in alto mare, attualmente in corso, ed una in acque territoriali libiche, che potrà iniziare a seguito di una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e dell’invito del relativo Stato costiero.
- Fase Tre, volta a neutralizzare le imbarcazioni e le strutture logistiche usate dai contrabbandieri e trafficanti sia in mare che a terra e quindi contribuire agli sforzi internazionali per scoraggiare gli stessi contrabbandieri nell’impegnarsi in ulteriori attività criminali. Anche questa fase necessita di risoluzione dell’Onu e del consenso e cooperazione da parte del corrispondente Stato costiero.
- Fase Quattro, che prevede il re-deployment.
Va detto che un eventuale ritorno delle navi di Sophia finirebbe per penalizzare solo una delle parti della proxy war libica (il Governo di accordo nazionale del premier Fayez al Sarraj sostenuto dalla Turchia), dal momento che altri attori (come l’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar appoggiato da Emirati Arabi Uniti ed Egitto) continuerebbero a ricevere rifornimenti via area e dal deserto. Il ripristino degli assetti navali di Eunavfor Med andrebbe in rotta di collisione con la Turchia del “sultano” Recep Tayyip Erdogan, peraltro già presente nel quadrante con due fregate, la Gaziantep e la Qidiz. Al livello europeo si sta quindi attualmente ragionando una missione di più ampia portata, ma dai contorni ancora molto vaghi.

L’idea è quella di sfruttare i mandati del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite già esistenti per tornare in mare a stretto giro e cominciare una sorveglianza satellitare e con i droni a tappeto, anche dei confini di terra e dello spazio aereo della Libia. Tra le proposte in campo vi è anche la possibilità di includere tra gli obiettivi dell’operazione anche il monitoraggio di un’eventuale cessate il fuoco tra le parti libiche.
Secondo quanto dichiarato ad Agenzia Nova dall’ambasciatore Giampiero Massolo, ex responsabile del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis) e attuale presidente dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e di Fincantieri, tale monitoraggio “non necessita di personale sul terreno, si può fare tranquillamente con dei droni, dall’aria”. Il problema è che una simile decisione necessita di forte volontà politica e di unità d’intenti al livello europeo. Non è chiaro, ad esempio, quale sarebbe l’atteggiamento della Francia – che non ha mai nascosto il proprio sostegno al generale Haftar ed è stata anche colta con le mani nella marmellata – di fronte a una proposta di questo tipo. Inoltre, il governo italiano teme che il ritorno delle navi in mare possa essere interpreto come un “pull factor” per i migranti e per questo motivo sta lavorando da una parte agli accordi ridistribuzione (per ora solo su base volontaria), e dall’altra a un “rebranding” della missione che dovrebbe rimanere a guida italiana.