È possibile coniugare Islam e democrazia? Apparentemente sì, almeno secondo il movimento tunisino Ennahda, che significa “rinascita” o “rinascimento” in arabo. Fondato nel 1981 da Rachid Ghannouchi (l’attuale presidente del Parlamento, sostenitore in gioventù della necessità di usare la violenza per disfarsi dei regimi arabi corrotti e sostenuti dall’Occidente), costretto alla clandestinità durante i governi Bourguiba e Ben Ali, Ennahda è oggi il partito meglio organizzato della scena politica del Paese africano. Con 54 deputati su 217 seggi, il movimento che si autodefinisce “democratico musulmano” è la prima forza politica dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo, ma non ha ancora i numeri per governare da solo. Ufficialmente Ennahda preconizza una “via tunisina all’islamismo“, riconoscendo la legittimità di un sistema pluripartitico e accettando il dialogo con l’Occidente. Il suo successo, tuttavia, ha suscitato il timore che l’anima laica e le conquiste civili della Tunisia, ad esempio sulla parità di genere, possano essere tacitamente messe da parte in favore di un’islamizzazione del Paese.
Dopo che Bli è stato costretto ad abbandonare il Paese in seguito alle manifestazioni popolari del 2011, Ennahda ha potuto rientrare in patria e partecipare alle prime elezioni post-rivoluzione. Grazie all’ondata di malcontento contro al regime, alla migliore organizzazione rispetto agli altri contendenti e all’affluenza alle urne di circa il 70 per cento, il 23 ottobre di quell’anno Ennahda ha ottenuto 90 seggi sui 217 della neonata Assemblea costituente, il cui mandato era quello di nominare un gabinetto provvisorio e redigere una nuova Costituzione. Erano quegli anni instabili della cosiddetta “troika”, quando il Paese guidato dal triumvirato Ennahda-Ettakol-Congresso della repubblica rischiò di sprofondare nel caos e nella guerra civile. In quel periodo vennero uccisi Chokri Belaid, leader del partito di sinistra al Watan, freddato il 6 febbraio 2013 davanti alla sua abitazione nel quartiere di El Menzah, a Tunisi, e Mohamed Brahmi, altro esponente della sinistra tunisina, assassinato nel 25 luglio del 2013. I mandanti degli omicidi restano ignoti, ma la magistratura sta indagando sul presunto coinvolgimento del servizio segreto “parallelo” di Ennahda.
Nel 2016 Ennahda ha annunciato che la sua attività si sarebbe concentrata esclusivamente sulla garanzia di una democrazia stabile piuttosto che sull’islamizzazione del Paese, sebbene la sua piattaforma politica continui a essere radicata sui valori musulmani. Il ragionamento è semplice: con la rivoluzione dei gelsomini nel 2011 e l’adozione nel 2014 della nuova Costituzione, in Tunisia non c’è più alcuna giustificazione per un movimento che si richiami ad un “Islam politico”. Da allora la formazione politica si autodefinisce come un movimento “democratico e civile”, i cui valori di riferimento attingono alla civiltà islamica ma anche a quella moderna. Pur abbandonando il concetto di Islam politico, il movimento ha tuttavia continuato a mantenere un atteggiamento conservatore sui diritti civili, opponendosi ad esempio alla parità tra uomo e donne nell’eredità. Nonostante Ghannouchi rivendichi una propria visione particolare dell’Islam, il legame del partito con la galassia dei Fratelli Musulmani resta saldo. La svolta moderata di Ennahda, in altre parole, non ha del tutto allontanato il movimento dall’orbita del pensiero e degli ideali fondamentalistici.
La fortuna di Ennahda è racchiusa in tre parole: pazienza, resilienza e organizzazione. Dopo essere stato bandito nel 1984 in seguito alla “rivolta del pane, il movimento è stato in grado di tessere una vasta rete di contatti, resistere per decenni nella clandestinità e aspettare il momento giusto per tornare in patria e capitalizzare al massimo il consenso (o meglio, il malcontento contro il regime e la corruzione). Non solo. Il gruppo ha dimostrato di avere notevoli capacità tattiche, riuscendo a logorare, dividere e infine sconfiggere sia alleati che nemici. Il fronte laico tunisino riunito attorno alla figura di Beji Caid Essebsi si è scisso fino a sparire quasi completamente dalla scena politica: questo è dovuto in parte all’incapacità dei partiti di ispirazione modernista di trovare un nuovo leader, ma anche all’abilità politica di Ghannouchi. Nell’ottobre del 2019, quando si sono tenute le seconde elezioni parlamentari post-rivoluzione, l’elettorato tunisino ha subito una profonda frammentazione in seguito alla grave crisi economica (tuttora in corso) e alla crescente preoccupazione per la corruzione. Ennahda ha perso 17 seggi, ma è stato comunque il partito più votato dai tunisini e oggi si appresta a governare la democrazia più avanzata del mondo arabo.