È stato il primo presidente a nascere sul territorio israeliano, a Gerusalemme, nel 1922. Ed è stato anche il primo, insieme a Shimon Peres, a cercare una soluzione pacifica all’eterna questione arabo-israeliana. Fatto che gli valse il premio Nobel per la Pace nel 1994 e gli costò la vita un anno dopo, in un attentato. Yitzhak Rabin, oltre a essere stato uno dei più noti primi ministri di Israele, nella vita ha mostrato diversi lati di se stesso (spesso anche molto contraddittori). La sua esistenza è stata scandita da tante vittorie elettorali, un buon consenso tra la gente, uno scandalo familiare che lo portò alle dimissioni, l’eterna rivalità interna con il collega di partito Peres, un passato militare speso a combattere gli arabi e, infine, un inatteso cambio di rotta.
La morte di Rabin, avvenuta per mano dell’estremista politico-religioso israeliano Yigal Amir, ha contribuito a consacrare la sua figura di uomo del dialogo e di pace (nonostante l’ingombrante passato militare). Nella memoria collettiva è rimasta impressa una fotografia, che lo ritrae mentre stringe la mano a Yasser Arafat, vicino a Bill Clinton, in occasione della ratifica degli accordi di Oslo. “Ho sempre creduto che la maggioranza degli israeliani vuole la pace ed è pronta a rischiare per essa”, sono state le sue ultime parole in vita. Poi, tre colpi di pistola, esplosi da uno studente di 23 anne, hanno messo la parola fine alla sua esistenza. Amir, il suo assassino, in seguito, dichiarò di aver agito da solo e su ordine di Dio e alla polizia che lo interrogò confessò di non avere rimpianti.
Rabin nacque a Gerusalemme il 1°marzo del 1922 da Nehemiah Rabin e Rosa Cohen, negli anni del Mandato britannico. La sua fu una formazione agricolo-militare, tipica delle comunità ebraiche di quel periodo. Sognava di diventare un ingegnere idraulico, ma crescendo la carriera militare iniziò ad avere un peso diverso e divenne più importante. Fu, infatti, tra i fondatori del Palmach, le squadre d’assalto che contribuirono in maniera decisiva alla costituzione dell’esercito del futuro Stato d’Israele. Fu comandante della brigata “Harel”, che conquistò Gerusalemme durante la prima guerra arabo-israeliana del 1948. Nello stesso anno sposò Leah Schlossberg, dalla quale ebbe i suoi due figli. Deciso a realizzarsi all’interno della realtà militare israeliana, Rabin riuscì a intrecciare perfettamente la sua vita personale alla carriera politica. Che, poco alla volta, scalando il partito laburista, lo portò a occupare i vertici nazionali (e internazionali).
Rimasto nell’esercito dopo la costituzione dello Stato di Israele, Rabin divenne Capo di Stato maggiore dell’esercito nel periodo della Guerra dei Sei Giorni, cioè nel giugno del 1967. Alcuni storici sostengono che si debba a lui e a Moshe Dayan la concezione di attacco che portò alla distruzione a terra dell’intera forza aerea egiziana e siriana e quindi al primo grande risultato bellico dello Stato ebraico. Un anno dopo, nel 1968, Rabin decise di lasciare l’esercito e venne nominato ambasciatore di Israele negli Stati Uniti, dove si impegnò a rafforzare i rapporti con l’America. Sul territorio americano, Rabin dimostrò una grande ammirazione per Henry Kissinger, che in quegli anni ricopriva la carica di consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di Stato (durante le presidenze di Richard Nixon e di Gerald Ford). Scaduti i termini della missione, Rabin tornò in Israele, facendo il suo primo ingresso alla Knesset alle elezioni del 1973, come membro del partito laburista israeliano. Tuttavia, la vera svolta arrivò nel 1974, quando venne nominato ministro del Lavoro.
Nello stesso anno, a seguito delle dimissioni di Golda Meir, prima (e unica) donna a guidare l’esecutivo israeliano dal momento della nascita dello Stato, Rabin sconfisse alle elezioni per la leadership del partito il compagno Shimon Peres, con il quale iniziò una competizione politica che segnò per sempre il loro rapporto e che durò per due decenni. Venne eletto primo ministro nel giugno del 1974 e mantenne l’incarico fino al 1977. Storicamente, a Rabin è stato attribuito il successo della missione di salvataggio Entebbe, che lui in effetti autorizzò e che aumentò la sua popolarità.
Ma nell’aprile del 1977, un’inchiesta giornalistica rivelò l’esistenza di un conto corrente che la moglie del primo ministro aveva aperto e mantenuto illegalmente in una banca americana (risalente ai tempi in cui Rabin era ambasciatore negli Stati Uniti), violando alcune norme valutarie. Nonostante non fosse direttamente coinvolto, Rabin scelse la strada delle dimissioni, rimanendo al fianco della coniuge Leah. Lasciò la guida del partito laburista a Peres che, però, venne sconfitto dalla destra alle elezioni contro il leader Menachem Begin. Rabin rimase comunque alla Knesset per i successivi otto anni, senza però ricoprire altre cariche pubbliche. Le cose cambiarono nel 1984, quando venne nominato ministro della Difesa in un governo di unità nazionale.
A capo della Difesa israeliana, alla fine degli anni Ottanta, Rabin diresse la repressione della prima intifada nei territori occupati. Come riportato da Il Post, la sua condotta nei confronti dei palestinesi si dimostrò brutale, tanto che divenne celebre il suo ordine di “spaccare le ossa ai manifestanti” e di chiudere le scuole per oltre un anno. L’esercito israeliano reagì quindi con la forza e per fermare le proteste utilizzò lacrimogeni e proiettili. Dimostratosi inflessibile e duro in occasione degli scontri con i palestinesi, il partito laburista decise di puntare di nuovo su di lui e così, nel luglio del 1992, Rabin tornò alla guida dell’esecutivo. Questa volta, però, con intenzioni diverse. E se Rabin era l’uomo di punta del partito progressista israeliano, la sua fama di uomo inflessibile nei confronti dei palestinesi aveva contribuito a diffondere la sua popolarità.
La scelta del partito di rimettere al vertice Rabin si rivelò azzeccata e probabilmente la più idonea in quel momento. Percepito come un uomo vincente e affidabile, il leader laburista durante la prima intifada aveva dimostrato di poter mantenere una certa sicurezza, assicurandosi il consenso anche dell’elettorato più intransigente. Tornò, quindi, alla guida dell’esecutivo nel luglio del 1992, mantenendo anche il controllo del dicastero della Difesa. Chiamò Shimon Peres al ministero degli Esteri e con lui contribuì allo sviluppo dei negoziati di pace avviati nel 1991 tra Israele, Siria, Libano, Giordania e Palestina.

Nell’agosto del 1993, venne resa pubblica la notizia che israeliani e palestinesi avevano lavorato a dei negoziati di pace per circa otto mesi. Il fatto suscitò una certa sorpresa nell’opinione pubblica dello Stato ebraico e anche una forte opposizione da parte della destra religiosa che, contraria a quelle prime prove di dialogo, organizzò manifestazioni contro il governo e la sua politica, ora decisamente orientata verso un percorso di pace.
E nonostante qualche protesta, alle 11.43 del 13 settembre del 1993, ciò che per la storia arabo-israeliana sembrava impossibile si realizzava: Rabin, Peres e Yasser Arafat, allora leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, firmarono gli accordi di Oslo, un tassello determinante per la storia del Medio Oriente contemporaneo. La ratifica prevedeva il riconoscimento da parte di Israele dell’Olp come rappresentante del popolo palestinese e, viceversa, l’Olp riconosceva allo Stato ebraico il diritto a esistere. Il trattato prevedeva l’autogoverno per i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza entro cinque anni. L’anno successivo, Rabin, insieme a Peres e ad Arafat, venne insignito del premio Nobel per la Pace. L’immagine dei leader che si stringono la mano (la prima volta in pubblico) è probabilmente una delle fotografie più importanti della storia contemporanea: quella, infatti, fu la prima importante circostanza in cui i due Paesi, da sempre in lotta, si riconoscevano come legittimi interlocutori. Tuttavia, quasi tutte le questioni più complesse, come lo status di Gerusalemme e il destino degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania, non furono discusse in quei negoziati e vennero rimandate a riunioni successive (per non essere mai risolte del tutto). Nel 1995, Rabin e Arafat firmarono un’altra serie di trattati, gli Oslo II, che garantivano all’Olp il governo di diversi luoghi a Gaza e nella Cisgiordania, dopo che nel luglio del 1994 lo Stato ebraico aveva iniziato a ritirare l’esercito da alcuni dei territori già occupati. E non furono pochi i dubbi che quegli accordi avrebbero portato effettivamente a dei risultati. Da entrambe le parti.
Subito dopo le firme degli accordi, in Israele ci fu un voto di fiducia al governo, che terminò con uno scarto di una manciata di voti. Lo Stato ebraico rallentò la sua politica degli insediamenti in Cisgiordania ma, di fatto, non le fermò. Che, in effetti, non si fermarono, visto che la popolazione dei coloni in quelle aree aumentò di circa 10mila persone l’anno. Inoltre, è bene considerare un antefatto nei delicati equilibri tra governo centrale e coloni: nel febbraio del 1994, un medico israeliano della colonia di Kiriat Arba, entrò nella tomba del patriarca a Hebron e lì uccise 19 palestinesi. Gli arabi insorsero e la repressione dell’esercito sionista contro chi protestava per quel massacro fu durissima. Rabin, in quella circostanza, negò l’espulsione da Hebron di 500 coloni e, nonostante la firma degli accordi di Oslo, non appoggiò mai apertamente la formula dei due Stati per due popoli.
La vita di Rabin si interruppe improvvisamente alle 21.30 del 4 novembre del 1995, a Tel Aviv, al termine di un comizio in piazza in cui aveva parlato ancora al progetto di pace con i palestinesi. Ygal Amir, un colono ebreo estremista poco più che ventenne, nascosto tra la folla, in piazza dei Re di Israele, lo uccise con una Beretta 84F semi-automatica, proprio al termine di quella manifestazione, dal grande significato pacifista (e politico). Così, mentre il primo ministro cercava di raggiungere l’automobile, che lo aspettava con la portiera aperta, due proiettili lo raggiunsero alla schiena, mentre il terzo colpì la sua guarda del corpo, che rimase soltanto ferita. Era un sabato sera. Amir, secondo quanto riportato da un articolo dell’epoca di Repubblica faceva parte del movimento dei coloni Zo Arzenu (che in ebraico significa “Questa è la nostra terra”), che da mesi, con il sostegno del partito Likud, conduceva una campagna violenta contro il governo guidato da Rabin. Il responsabile, prima dell’attacco, era già stato arrestato due volte e sempre per lo stesso motivo (dichiarò apertamente la volontà di uccidere il leader laburista). Il fratello dell’autore e Dror Adani vennero identificati come suoi complici e Amir fu condannato all’ergastolo. Non si pentì mai del suo gesto e, anzi, lo rivendicò in diverse circostanze. In seguito, la commissione Shamgar, incaricata di inquadrare la dinamica dell’attacco, indicò come responsabili le autorità israeliane di un vistoso fallimento nell’investigazione di quel tipo di crimine.
La morte violenta del primo ministro e capo della Difesa israeliano contribuì a trasformare la sua figura in un personaggio storico totalmente a servizio della pace e del dialogo con i palestinesi. La sua storia personale, però, non conferma del tutto questa tesi, essendo considerata la sua un’immagine pubblica a volte contraddittoria (soprattutto nei confronti della questione palestinese). Tuttavia, nessuno può negare che Rabin (e Peres) furono i primi a firmare un accordo che provava a mettere ordine in una faccenda politica, per definizione, senza pace. Le aperture di Rabin, considerate comunque molto caute dai palestinesi e dai più progressisti, avevano infatti attirato le critiche del partito di destra Likud, da sempre fermamente contrario a qualsiasi tipo di accordo con i palestinesi. Pubblicamente osteggiato dalla destra nazionalista e più conservatrice, Rabin veniva accusato dai coloni di voler abbandonare quelle terre. Ai suoi funerali, a Gerusalemme, comunque, parteciparono circa un milione di persone, compresi i capi di Stato di tutto il mondo e diversi leader arabi (molti dei quali non avevano mai messo piede in Israele fino a quel momento).