Cupo, indecifrabile e tormentato. A lungo, agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, Slobodan Milošević , l’ex presidente della Serbia e della Jugoslavia, è apparso così. Come una persona complessa, impenetrabile e con un ingombrante vissuto personale. Javier Solana, ex Segretario generale delle Nazioni Unite, lo definì “un uomo in trincea, rinchiuso in un bunker al di fuori della realtà”, “una persona dall’animo bunkerizzato” e, ancora, “un individuo difficile da trattare”. Accusato di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, è deceduto mentre si trovava in carcere, all’Aja, in attesa di essere giudicato dal Tribunale penale internazionale.
Percepito come un leader contraddittorio e capace di gesti efferati, Milošević fu ritenuto l’ideatore e in parte diretto responsabile dei peggiori episodi di pulizia etnica nei confronti dei musulmani di Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Kosovo durante i conflitti balcanici degli anni Novanta. Considerato da alcuni nazionalisti serbi come un difensore della loro identità (perché tra i principali esponenti di quel sentimento politico che si stava diffondendo alla fine degli anni Ottanta), per altri fu, invece, un dittatore, un manipolatore e la persona che determinò la fine della Jugoslavia (già profondamente mutata dalla morte di Tito). Qualcuno lo paragonò ad Adolf Hitler e nonostante venisse contestato per il suo autoritarismo, riuscì a mantenere il suo potere per molto tempo.
L’ex presidente nacque il 20 agosto del 1941 a Požarevac, in Serbia, da una famiglia di origini Vasojevići,il gruppo etnico serbo più grande del Montenegro. Secondogenito di Svetozar Milošević, un catechista, e Stanislava Koljenšić, un’insegnante e membro attivissimo del Partito comunista, la sua vita fu segnata dal suicidio di entrambi i genitori e di uno zio (il padre si sparò nel 1962, mentre la madre si tolse la vita dieci anni dopo). In base a quanto ricostruito da un approfondimento di Limes, pubblicato il 10 gennaio del 2000, i due lutti influenzarono profondamente le sua futura vita pubblica. Secondo alcuni specialisti citati nell’articolo, infatti, all’origine dei suoi conflitti (interiori e politici), ovviamente insieme a fattori sociali ed economici, si sarebbero intrecciate anche le sue vicende familiari. Elemento che, in parte, spiegherebbe la sua passione “distruttiva e autodistruttiva” (perse tre guerre), chiarita dal doppio trauma. Due anni dopo il decesso del padre, si laureò in Legge all’università di Belgrado (era il 1964). Sposò Mirjana Marković, che non fu soltanto una compagna di vita, ma uno dei suoi consiglieri più decisivi.
L’ex presidente serbo militò prima nella Lega dei Comunisti di Jugoslavia (diventandone anche un dirigente) e poi del Partito Socialista di Serbia, di cui fu tra i fondatori. Iniziò a farsi strada politicamente alla fine degli anni Ottanta, quando con il suo lavorò si dimostrò un abile funzionario e un promettente amministratore della Repubblica Federale socialista di Jugoslavia. Nel 1984 arrivò la nomina a segretario della Federazione di Belgrado della Lega dei comunisti e, in seguito, ricoprì ruoli di rilievo all’interno del partito, anche grazie all’amicizia con Ivan Stambolić (ritenuto il suo “padrino” politico). Nel luglio del 1990 venne eletto presidente del partito che unificava la Lega dei comunisti e la Lega socialista del Popolo lavoratore di Serbia.
Tra gli anni Ottanta e Novanta e alla luce di tutti i cambiamenti che la storia recente si era portata dietro nell’area balcanica, si registrò la rinascita del nazionalismo serbo, di cui anche Milosević si rese protagonista. Si trattava di un sentimento identitario, fatto di rivendicazioni e rifiuto del passato. Secondo gli storici, l’apice di questo fenomeno venne raggiunto il 24 settembre del 1986, quando un quotidiano di Belgrado pubblicò alcuni passaggi di un documento, redatto da un gruppo di intellettuali serbi, in cui si faceva riferimento al concetto di nazione, insistendo su una sorta di vittimismo collettivo che vedeva i serbi come discriminati dalla costituzione jugoslava. L’allora presidente Stambolić ritenne il testo troppo radicale e decise di disconoscerlo. La stessa cosa, almeno all’inizio, la fece anche Milosević che, però, nel 1987 venne inviato da Stambolić nella provincia autonoma serba del Kosovo, dove i conflitti tra serbi e albanesi determinavano il loro quotidiano. Incontrando di sua spontanea volontà i leader dei gruppi nazionalisti, Milosević sancì una pesante rottura con le politiche che, fino a quel momento, avevano costituito i rapporti della popolazione. Il 24 aprile 1987, a Pristina, pronunciò una sorta di suo manifesto, davanti a una nutrita folla di serbi del Kosovo. Riferendosi al trattamento discriminatorio che la polizia kosovara (in maggioranza composta da albanesi) avrebbe adottato nei loro confronti, Milosević disse: “Nessuno ha il diritto di picchiarvi. E nessuno lo farà mai più”. Nei mesi successivi accusò implicitamente la (sua) classe politica di non essersi spesa a sufficienza a difesa dei serbi del Kosovo e, con abilità straordinaria, porto Stambolić alle dimissioni.
Nel 1988 le tensioni tra la Serbia e le altre repubbliche balcaniche si fecero più sempre più accese. Sostenitore di un modello centralista, che vedeva la Serbia al vertice del potere, Milosević iniziò la sua battaglia politica personale appoggiato da gran parte dell’opinione pubblica (compresa la chiesa ortodossa e l’armata popolare jugoslava), che vedeva in lui un capo pieno di personalità, pronto a difendere quel sentimento nazionale che, a lungo, era rimasto celato. Il 28 giugno del 1989 pronunciò il “discorso di Kosovo Polje“, in occasione del 600° anniversario della sconfitta serba contro gli ottomani musulmani. L’orazione celebrativa incendiò la piazza, che quel giorno accoglieva migliaia di serbi, ed enfatizzò le intenzioni dei nazionalisti più radicali: Milosević fu, infatti, più bravo degli altri a cogliere il sentimento della “vittoria mutilata” dei serbi, diventandone praticamente il simbolo. Venne successivamente considerato “l’esecutore” del progetto della Grande Serbia, programma che vedeva Belgrado imporsi su tutto il resto.
Divenne presidente dell’organo collegiale di Presidenza della Serbia dal maggio del 1989 e subito dopo, nel 1990, a pochi mesi dal crollo del muro di Berlino e dalla fine dell’Unione Sovietica, divenne presidente unico (riconfermato nel 1992), in un momento particolarmente delicato per i Balcani, divisi tra aspirazioni indipendentiste e forme di odio inter-etnico, fomentate dai diversi gruppi. Nel giugno del 1991, la Slovenia, dopo un brevissimo conflitto (il primo in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale), si proclamò autonoma e così fece anche la Croazia. L’allora presidente croato, Franjo Tudman, introdusse alcune modifiche costituzionali che portarono ad atti percepiti come discriminatori nei confronti della minoranza serba e Milosević (il cui intento era quello di annettere tutti i territori dove la minoranza serba viveva) rispose alle azioni e alla cosiddetta “minaccia croata” con l’esercito federale jugoslavo e le milizie paramilitari. L’8 novembre del 1991, i soldati inviati dal leader distrussero completamente la città di Vukovar (luogo simbolo della convivenza pacifica tra serbi e croati). Dopo il referendum in Bosnia Erzegovina sull’indipendenza, nel marzo del 1992, particolarmente osteggiato dai serbo-bosniaci, scoppiò anche il conflitto in quell’area. Il leader serbo, ovviamente, appoggiò e sostenne (anche militarmente) Radovan Kardžić (successivamente accusato e condannato all’ergastolo per crimini di guerra). La pulizia etnica che ne conseguì portò all’eccidio di Srebrenica, nel luglio del 1995, dove migliaia di bosniaci di fede musulmana furono uccisi dalle milizie del generale Ratko Mladić. Il conflitto si concluse nel 1995, con gli accordi di Dayton, che sia Milosević, sia Tudman, firmarono. Al termine della guerra, migliaia di profughi serbi, provenienti dalla varie aree (Bosnia, Croazia e Kosovo), lasciarono le diverse regioni per raggiungere la Serbia.
Milosević venne eletto presidente della Repubblica federale Jugoslava (ovvero Serbia e Montenegro) nel 1996 e, dopo una serie di episodi politicamente ambigui andati avanti per molto tempo, la repressione in Kosovo (con un numero sempre più alto di morti tra gli albanesi) si fece più ancora pesante. Falliti i tentativi di mediazione per il raggiungimento di un accordo, a Rambouillet, dal marzo del 1999 la Nato bombardò la Jugoslavia, con l’operazione Allied Forced, fino al ritiro (due mesi e mezzo dopo) dei soldati serbi dalla regione. Il Kosovo passò sotto il controllo delle Nazioni Unite e quello, di fatto, fu il terzo conflitto perso da Milosević in pochi anni che, però, conservò ancora il potere. Fino a quando, ormai isolato, sia all’interno dei confini nazionali, sia all’estero, nell’ottobre del 2000 riconobbe la sconfitta politica alle urne.
Il 1° aprile del 2001, Milosević venne arrestato, dopo due giorni d’assedio alla sua abitazione. Fu estradato all’Aja il 28 giugno successivo e consegnato al Tribunale penale internazionale per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio nei conflitti della Ex Jugoslavia. Lì per rispondere ai capi d’accusa sui massacri e le torture in Croazia, il tentato genocidio in Bosnia e le violenze in Kosovo, non riconobbe mai la validità di quella corte e si appellò al diritto internazionale, ma venne ugualmente processato. Chiese che venissero ascoltati più di mille testimoni e contestò fino all’ultimo ogni accusa: per difendersi disse di aver protetto l’Europa dagli integralisti e dai terroristi islamici. Nel marzo del 2006 fu trovato senza vita nella sua cella, all’Aja, ma poco prima del suo decesso, avanzò l’ipotesi di essere stato avvelenato. Nel gennaio dello stesso anno, infatti, i medici individuarono nel suo sangue tracce di Rifampicin, un farmaco utilizzato per il trattamento di tubercolosi e lebbra, che potrebbe aver inibito l’effetto delle medicine che l’ex presidente utilizzava per i suoi problemi di salute (pressione alta e cardiopatia). Il Tribunale penale internazionale dispose un’indagine sulle cause della morte, ma l’autopsia escluse l’utilizzo di quel farmaco nei suoi ultimi giorni di vita.
Soprannominata “la Lady Machbeth dei Balcani”, Marković fu per Milosević molto più di una consorte. Fidatissima confidente e suo braccio destro, la presenza della donna influenzò profondamente le sue scelte. Ex insegnante di sociologia, per il politologo Jasmin Mujanović, citato in un articolo di Euronews, fu anche un componente decisivo del regime e, come molti altri responsabili di violenze e massacri, riuscì a sfuggire alle sentenze giudiziarie (lasciò la Serbia nel 2003). Il rapporto tra lei e il marito fu sempre molto stretto tanto che, durante la detenzione, l’ex presidente aveva contatti con la donna ogni giorno, fino alla sua morte. La loro prima (e unica) separazione fisica fu nel 2001, quando Milosević venne fermato per l’arresto. Da sempre comunista, nel 1995 divenne entrò in politica come deputata al parlamento di Pozarevac e vent’anni dopo pubblicò un testo a difesa del marito, che le descrisse come “una figura politicamente dominante”. Morì il 14 agosto 2019 a causa di una lunga malattia, mentre era esiliata in Russia.