Chi era Rafiq Hariri, “mister Lebanon”

L’imponente esplosione vicino al porto di Beirut che, il 4 agosto 2020, ha travolto la quotidianità del Libano, provocando centinaia di morti e migliaia di feriti, ha posto numerosi interrogativi alla base della sua origine. Tra le ipotesi prese in considerazione a poche ore dalla deflagrazione, che ha raso al suolo diversi edifici dell’area, anche una coincidenza temporale. L’incidente, infatti, si è consumato a qualche giorno dalla lettura della sentenza del processo per la morte di Rafiq Hariri, l’ex primo ministro libanese, ucciso in un attentato nel febbraio del 2005 e per cui, a lungo, i principali sospetti vennero dirottati su Hezbollah. Da sempre percepito dai libanesi come un difensore dei cristiani (nonostante di fede islamica sunnita), non nascose mai di essere contrario alla formazione sciita e all’occupazione siriana dello Stato, nonostante non si espresse mai pubblicamente contro di loro.

Il verdetto, pronunciato dal Tribunale speciale per il Libano, con sede all’Aja (il primo istituito dalle Nazioni unite per identificare i singoli responsabili di un attacco terroristico), come riportato da Ansa, infatti, era previsto per il 7 agosto 2020. In origine, il termine del procedimento era previsto a metà maggio ma, per le disposizioni sanitarie legate all’epidemia causata dal nuovo coronavirus, l’udienza era stata rimandata. Considerato un influente “padre” del Libano contemporaneo, la storia personale (e politica) di Hariri si è intrecciata spesso con quella del suo Paese. Dalla scelta degli studi, alla sua fortuna come imprenditore, fino alla morte violenta, causata da un’autobomba nel centro della capitale libanese. Nelle ultime ore, però, l’esplosione di più di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, apparentemente stoccate in un magazzino vicino al porto perché sequestrate anni prima, ha riaperto il mistero dietro alla morte dell’ex presidente Hariri.

Nato a Sidone il 1° novembre del 1944 da una famiglia non particolarmente abbiente di confessione sunnita, Hariri iniziò i suoi studi nella città portuale in cui era nato e cresciuto. Dopo aver studiato Scienze dell’amministrazione all’Università araba di Beirut, nel 1965 scelse di trasferirsi in Arabia Saudita, dove iniziò la sua attività in una società di costruzioni. Decisione che gli cambiò la vita, perché quel mondo divenne, nell’arco della sua esistenza, un tassello fondamentale della sua formazione professionale, visto che nel 1969 fondò la sua prima compagnia personale (che chiamò Ciconest). In poco tempo, il nome di Hariri iniziò a farsi strada nell’edilizia locale e dopo aver trascorso altro tempo in Arabia Saudita, dove nel 1978 ottenne la cittadinanza, divenne emissario della famiglia reale Saud in Libano.

L’affermazione come imprenditore arrivò nel 1979, quando fondò la Oger International, società con sede a Parigi che aveva interessi nel settore petrolifero, edilizio, bancario, industriale e anche delle telecomunicazioni. Negli anni Ottanta, sempre in quanto funzionario dei reali sauditi, insieme al diplomatico americano di origini libanesi, Philip Habib, si interessò della politica interna libanese, partecipando attivamente agli accordi di Ta’if del 1989, un primo (decisivo) contributo che portò all’interruzione della guerra civile che dilaniava il Paese da anni. Percepito come un vincente dal punto di vista economico e pubblico, come riportato da Il Post, negli anni Novanta la rivista Forbes lo inserì nella lista dei cento uomini più ricchi del mondo. Ricoprì la carica di primo ministro dal 1992 al 1998 e poi dal 2000 alla fine del 2004. Nel 1993, a Beirut, fondò la stazione televisiva Future Tv e comprò quote di diversi quotidiani nazionali, inaugurando un giornale (Al Mustaqbal) e un nuovo partito politico sunnita (Tayyar al Mustaqbal, che tradotto significa “Movimento futuro”). Hariri, in poco tempo, riuscì a introdursi nelle più diverse realtà pubbliche, diventando anche il principale azionista della compagnia Solidere, che ottenne l’appalto per rimettere in piedi ciò che restava della capitale distrutta da anni di conflitto. Nel 2002, grazie ai suoi capitali, divenne il quarto uomo più ricco del mondo.

Fino agli anni Settanta, il Libano era considerato lo Stato più abbiente, contemporaneo e laico del Medio Oriente. Le diverse influenze culturali, facevano di Beirut un crocevia di costumi e tradizioni tutte diverse. Percepito come un Paese “modello” non solo dai locali ma anche dall’opinione pubblica internazionale, in particolare per la convivenza pacifica di diverse confessioni religiose, gli attriti si fecero più pesanti (anche) a causa del progredire del conflitto arabo-israeliano, che nei fatti lo coinvolse (e lo travolse), e i problemi con la Siria. Così attori diversi con interessi diversi iniziarono a finanziare gruppi e milizie violente che, scontrandosi l’una con l’altra, diedero avvio alla guerra civile che insanguinò e impoverì lo Stato per diversi anni. La Siria utilizzò il Libano come zona franca per combattere la sua guerra personale contro Israele e nel 1982, con l’obiettivo di estromettere i membri dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che si erano rifugiati a Beirut, i militari israeliani permisero il massacro (da parte delle milizie cristiane) dei campi profughi di Sabra e Shatila, dove persero la vita centinaia di civili (in particolare donne e bambini). Poi la formazione di Hezbollah, appoggiato da Siria e Iran, destabilizzò ancora gli equilibri e l’ascesa politica di Hariri costituì un momento determinante per il Paese, visto che il ricco imprenditore poteva rappresentare il volto moderato di cui lo Stato aveva disperatamente necessità.

Considerato una figura positiva anche (e soprattutto) dagli analisti internazionali, Hariri fu il primo leader senza legami con i militari o con i gruppi armati che avevano combattuto, gli uni contro gli atri, durante la guerra civile. Piacque a molti capi di Stato di tutto il mondo, che approvarono i suoi metodi di governo (in tutto fu a capo di cinque esecutivi) e la sua estraneità al passato bellicoso del Paese. Il primo ministro, durante i suoi mandati, chiese (e ottenne) gli aiuti della Banca mondiale, che glieli concesse, e dell’Unione europea per la ricostruzione post-bellica. Sia nel 1998, sia nel 2004 (ultimo anno da premier), Hariri rimise il suo incarico per le tensioni e malcontento sociale crescente: il Libano, infatti, durante il rifacimento delle aree distrutte dalla guerra si indebitò e la sua popolarità scese improvvisamente. Qualche accusa di corruzione, la “colpa” di aver ignorato i più poveri (in tema di welfare), le pressioni da parte della Siria e l’estensione del mandato da presidente del generale (filo-siriano) Emile Lahoud lo costrinsero a lasciare definitivamente il potere e nel 2004 dichiarò di non volersi più ricandidare.

Hariri morì in un attentato il 14 febbraio 2015, poco prima delle 13, quando un furgone Mitsubishi esplose in un quartiere della capitale, mentre passava il suo convoglio. Perse la vita insieme ad altre 21 persone, tra cui alcune guardie del corpo e l’ex ministro dell’Economia, Bassel Fleihan, mentre la sua macchina attraversava l’area antistante l’Hotel St. George, in pieno centro. In base alle prime ricostruzioni dopo l’attacco, il responsabile venne individuato grazie ad alcune tracce di Dna ritrovate nella zona e probabilmente si trattò di un kamikaze. Il suo decesso, che non sconvolse soltanto il Libano ma l’opinione pubblica di tutto il mondo, riacutizzò i problemi che il Paese, da tempo, aveva con la Siria, il cui governo venne individuato come mandante di quell’azione. Chi scese in piazza per accusare Damasco, infatti, lo fece sulla base dei palesi attriti tra l’ex presidente defunto con la capitale siriana poco tempo prima.

In quella circostanza, come ricordato da Il Post, migliaia di persone manifestarono contro l’esecutivo in carica, ritenuto colpevole di essere colluso con Damasco, e chiesero il ritiro delle truppe siriane che occupavano il Libano da quasi trent’anni. Un rapporto delle Nazioni Unite dichiarò coinvolti nel caso alcuni funzionari del servizio segreto libanese e un gruppo di ufficiali siriani. Successivamente, un voto all’unanimità Onu chiese alla Siria di collaborare per il pieno chiarimento della vicenda. E alla domanda sul perché Damasco potesse essere così coinvolta nella politica libanese, la risposta è da individuare nel ruolo di Hezbollah, il movimento estremista sostenuto dalla Siria e ritenuto tra i primi responsabili dell’attentato.Tuttavia, secondo quanto riportato dalla Bbc, il secondogenito di Hariri, Sa’id Hariri, il suo erede (essendo stato anche più volte premier), dichiarò al quotidiano saudita al Sharq al Awsat di non ritenere i siriani i colpevoli dell’omicidio dell’ex leader. Dopo la sua morte, le proteste di piazza, che non avevano particolari colori politici o intenti religiosi, vennero soprannominate “la rivoluzione dei cedri” oppure “l’intifada per l’indipendenza” e ottennero le dimissioni del governo filo-siriano. Successivamente, il 30 aprile del 2005, dopo decenni di occupazione, la Siria lasciò il Paese. Il 30 maggio 2007, una risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu impose l’istituzione del Tribunale speciale per chiarire l’esatta dinamica di quell’attacco, individuando responsabili, complici, e analizzando tutte le piste possibili.

Nel 2011, sempre come ricostruito da Il Post, il Tribunale speciale che indagava sulla morte del leader formulò quattro richieste di arresto per quattro libanesi, tutti membri di Hezbollah. Il movimento ha sempre respinto le accuse, incolpando i servizi segreti israeliani dell’attacco, ma secondo quanto testimoniato da un articolo del New York Times del 10 febbraio 2015, l’ex primo ministro venne ucciso su pressioni siriane. Inoltre, anche in base a quanto ricostruito da Limes, in un articolo del 16 febbraio 2015, il leader, conosciuto anche come “Mister Lebanon”, costituiva un bersaglio facile, in quanto ritenuto uno dei principali referenti nella regione di Stati Uniti, Francia e Arabia Saudita (dall’inizio del 2004 contro Siria e Iran). Tra il 2011 e il 2013, infatti, sono stati chiamati a comparire in tribunale, con l’accusa di aver partecipato all’esecuzione materiale dell’attentato, non più quattro ma cinque membri di Hezbollah: Salim Ayyash, Mustafa Badreddin, Hussein Oneissi, Assad Sabra e Hasan Merhi. Ritenuti esecutori ma non mandanti. Tutti e cinque sono tuttora accusati di “complotto a fini terroristici e omicidio preterintenzionale”, ma anche di altri capi di imputazione connessi. All’epoca, il movimento sciita aveva inviato al Tribunale il materiale che aveva già reso pubblico, ovvero un montaggio di tre spezzoni video trasmessi dalla tv al Manar, che attribuiva ogni responsabilità al lancio di un missile. Ma la dinamica dell’attacco non risultò compatibile con la teoria di Hezbollah.

 

IlGiornale.it e InsideOver sono al fianco della popolazione libanese. In questi giorni è partita una raccolta fondi per aiutare chi ha perso tutto nel disastro di Beirut. Chi è interessato a sostenere l’iniziativa può inviare una donazione tramite le coordinate che segnaliamo di seguito:

LB17007500000001140A72559800

Causale: L’Italia per il Libano
Nome del titolare: Charles Georges Mrad
Nome della banca: Bank of Beirut
Indirizzo: Bob – Palais de Justice Branch
SWIFT: BABELBBE

Oppure, con la stessa causale:

VA35001000000048616001
Nome del titolare: Chiesa S. Maria in Campo Marzio
Conto: 48616001
BIC: IOPRVAVX o IOPRVAVXXXX

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.