È stato una delle figure più controverse della storia contemporanea di Israele. Promettente militare, politico astuto e uomo pubblico spregiudicato ma sempre prudente, Ariel Sharon, più di ogni altro, è stato in grado di modificare il suo percorso sociale, sorprendendo avversari e alleati. Lo chiamavano Arik e il sipario, su di lui, è calato improvvisamente, quando una grave emorragia cerebrale e il conseguente stato di coma travolsero la sua carriera di undicesimo primo ministro di Israele. Considerato un falco per le sue posizioni più radicali all’interno della destra, nell’ultima parte della sua vita spostò il suo percorso più al centro, su posizioni più moderate anche nei confronti dei palestinesi. I suoi nemici giurati.
Le sue vicende personali si sono intrecciate a quelle israeliane fin dall’adolescenza, quando decise di unirsi alle formazioni paramilitari sioniste in Palestina. Poco dopo la fondazione dello Stato d’Israele entrò a far parte dell’esercito e partecipò a tutte le guerre arabo-israeliane, con ruoli molto diversi. Giovane abile e sicuramente ambizioso, riuscì a scalare velocemente i ranghi militari, svolgendo subito incarichi di grande importanza, che paradossalmente lo avvicinarono alla politica.
È stato una personalità imponente nella storia recente del Medio Oriente, sotto diversi punti di vista. In Israele (e non solo) tutti ricordano i suoi gesti più eclatanti, come per esempio la passeggiata alla spianata delle moschee di Gerusalemme, che scatenò la seconda (sanguinosa) intifada. Eppure, la “sbavatura” politica più grande fu il suo coinvolgimento e la sua responsabilità (indiretta) nel massacro di Sabra e Shatila, dove persero la vita decine di palestinesi (tra cui molti civili).
Si è spento lentamente, circondato da una famiglia che ha voluto tenerlo il più possibile al centro del dibattito pubblico. Il distaccamento da posizioni più intransigenti, la fondazione di un nuovo partito, Kadima, e, infine, la malattia hanno contribuito a cambiare l’aura dell’uomo di ferro che, per anni, ha circondato la sua persona.
Ariel Sharon nacque il 26 febbraio 1928 con il nome di Ariel Scheinermann, nella cooperativa agricola di Kfar Malal, nel Mandato britannico della Palestina, da due immigrati ebrei di origine lituana, Shmuel e Dvora Scheinermann. I genitori, che al momento del matrimonio erano studenti universitari di agronomia e di medicina, scelsero la Palestina per sfuggire alle conseguenze della rivoluzione russa e dei successivi pogrom che coinvolsero l’Europa dell’est. La famiglia Scheinerman arrivò in Medio Oriente durante la seconda aliyah, nei primi 15 anni del Novecento, momento storico ideale per molti migranti ebrei, visto che si era da poco consolidata la tradizione dei kibbutz, cioè comunità agricole costituite sul sostegno reciproco. Anche la famiglia di Sharon si stabilì in una comunità socialista secolare e si fece conoscere per le sue posizioni contrarie al prevalente senso comune del villaggio. Ariel venne al mondo da secondogenito, a quattro anni dall’arrivo della coppia nella Terra promessa. La storia familiare degli Schheinermann cambiò al cambio del loro cognome, che divenne Sharon, parola ebraica che indica il termine “foresta” e che identifica anche la pianura costiera dove si trova Kfar Malal. Cresciuto imparando lingue diverse, compreso l’yiddish (parlato dal padre) e il russo (parlato dalla madre), all’età di dieci anni Ariel entrò nel movimento giovanile sionista Hassedeh. La sua storia militare iniziò nel 1942, quando si unì al battaglione giovanile Gadna e in seguito all’Haganah, l’organizzazione paramilitare clandestina che aveva come obiettivo la difesa delle colonie nel Mandato britannico dove nacque Sharon (e che contribuì, in seguito, a formare le Forze di difesa israeliane).
Entrato a far parte della vita militare da adolescente, dopo la costituzione dello Stato ebraico combatté praticamente tutte le guerre arabo-israeliane. Il primo incarico come capo plotone arrivò presto, durante la guerra del 1948, conflitto in cui rimase gravemente ferito. A 21 anni divenne capitano e due anni dopo divenne ufficiale dei servizi segreti. Si iscrisse all’università, che non lo convinse all’inizio quanto la carriera militare. Negli anni Cinquanta guidò come maggiore l’Unità 101, una forza speciale dell’esercito creata con il fine di reagire con rappresaglie agli attacchi terroristici compiuti sul suolo israeliano. Il 14 ottobre del 1953, in quella che è stata poi definita la strage del villaggio di Qibya, in Cisgiordania, Sharon fece saltare in aria 45 abitazioni, una scuola e una moschea, uccidendo i 69 arabi palestinesi che si trovavano all’interno, due terzi dei quali erano donne e bambini, fatto che gli costò una condanna delle Nazioni unite per le violenze commesse (in data 24 novembre, infatti, l’Onu, espressamente in risposta a quell’azione, adottò la Risoluzione 101). L’azione era una delle innumerevoli rappresaglie militari tra le forze israeliane e quelle dei Paesi confinanti, come la Giordania. L’Unità subito dopo venne sciolta e Sharon rispose di quei fatti. In pochi mesi, il gruppo si ricompose come Brigata Paracadutisti 202. A 28 anni e già generale, guidò l’esercito durante la guerra del 1956, ma in un’azione, durante la battaglia di Mitla, 40 dei suoi soldati persero la vita. In quella circostanza, la responsabilità gli fu interamente attribuita e Sharon fu costretto a rimanere fuori dall’esercito per sei anni . Così tornò a studiare, laureandosi in legge. Una volta rientrato, nel 1962, venne nominato comandante della Scuola di fanteria e responsabile dell’addestramento. Durante la Guerra dei sei giorni, nel 1967, che sancì la posizione di forza d’Israele sul panorama mediorientale, divenne comandante di una divisione corazzata, che conquistò Gerusalemme Est, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. La sua carriera militare, da subito, apparve brillante e ciò che distinse particolarmente la figura di Sharon rispetto agli altri militari fu la durezza che manifestava nei confronti dei palestinesi. Destinato a scalare i vertici militari, nel 1972 il ministro della Difesa israeliano, laburista, Moshe Dayan, fermò la sua ascesa, bloccando la sua nomina a capo di Stato maggiore. Fu in quel momento che decise di lasciare l’esercito e di entrare in politica nel partito di destra Likud, in aperta opposizione a Dayan. Ma lo scoppio della guerra dello Yom Kippur, il breve conflitto tra Israele, Egitto e Siria, dell’ottobre del 1973, lo fece rientrare in servizio, questa volta al comando di una divisione corazzata della riserva. Il generale Elazar, che Dayan aveva preferito a lui, si fece cogliere impreparato dagli eserciti di Siria ed Egitto. Sharon, dimostrando coraggio, ambizione e talento, gestì i duri combattimenti nel Sinai, entrando però in netto contrasto con gli altri generali israeliani, in particolare con Shmuel Gonen e Haim Bar-Lev, entrambi generali suoi superiori, i quali lo accusarono ripetutamente di disobbedienza e ne richiesero (inutilmente) la destituzione. Ma nonostante tutto, Sharon contribuì ai successi finali di Israele sul fronte meridionale, aggirando la terza armata egiziana sbarcata sul suolo dello Stato ebraico con un “contro-sbarco” sulla costa africana e iniziando una sorta di marcia sul Cairo, fermata poco prima dalla tregua. Anche in quel caso, lasciò la divisa protestando contro l’esecutivo che, a suo parere, si era piegato a un negoziato piuttosto che continuare la battaglia sul campo (che secondo lui poteva essere vinta).
Nel 1973 Sharon venne eletto per la prima volta alla Knesset, il parlamento israeliano, come deputato del partito di destra Likud. Diede le dimissioni un anno dopo e fra il 1975 e il 1977 divenne consigliere per la sicurezza del premier Yitzhak Rabin, il quale, nonostante fosse esponente del partito laburista era suo amico. Tuttavia, il suo primo incarico di governo come ministro dell0Agricoltura arrivò alla fine degli anni Settanta, quando il Likud vinse per la prima volta le elezioni. In quel momento, da neoministro svolse un ruolo di primo piano nel programma di costruzione di insediamenti ebraici a Gaza. E nel 1982, dopo essere stato nominato ministro della Difesa, ordinò l’invasione del Libano, atto che si portò dietro diverse conseguenze (anche nella sua carriera politica).
In occasione di quel conflitto, con “l’aiuto” delle milizie cristiane libanesi, persero la vita centinaia di palestinesi rifugiati nei campi profughi del Libano. Come accadde il 17 settembre del 1982 nei due villaggi di Sabra e Shatila, alla periferia di Beirut, in un’area controllata direttamente dai militari israeliani, dove l’esercito dello Stato ebraico autorizzò le milizie falangiste cristiane a entrare e a compiere, nei fatti, un vero e proprio massacro della popolazione palestinese. La Commissione d’inchiesta israeliana Kahan, pochi mesi dopo l’eccidio, riconobbe le forze sioniste indirettamente responsabili del massacro, ma chiarì che nessuno israeliano in quanto tale doveva ritenersi direttamente colpevole di quegli eventi. Infine, venne stabilito che Sharon era “personalmente responsabile” per non aver fatto nulla per evitare quella strage (dove morirono civili, tra cui anche numerosi bambini). Dopo alcune iniziali resistenze, Sharon venne rimosso dal suo incarico alla Difesa, ma rimase nel governo guidato da Menachem Begin, come ministro senza portafoglio nel biennio 1983-1984.

Nelle sue raccomandazioni e osservazioni conclusive, il comitato decretò che il massacro, nei fatti, era stato effettuato da un’unità di falangisti, che agì da sola anche se l’avanzata era nota a Israele (e approvata da Sharon). Come ministro della Difesa, egli non risultò soltanto il responsabile di quel massacro, ma fu anche la persona che, concretamente, aveva diretto l’invasione del Libano meridionale da parte dell’esercito israeliano. Scelta che aveva un solo scopo: fermare gli attacchi dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina provenienti dallo Stato confinante.
Lasciatosi alle spalle la vicenda di Sabra e Shatila e le sue dimissioni, che non sancirono la fine della sua carriera politica, Sharon negli anni successivi gestì il dicastero del Commercio e dell’Industria, tra il 1984 e il 1990 e quello dell’Edilizia, tra il 1990 e il 1992. In quella posizione, il leader decise la più grande fase di espansione degli insediamenti ebraici a Gaza e in Cisgiordania dal 1967 (insediamenti che esattamente dieci anni dopo decise di far sgomberare). Tra il 1996 e il 1998 divenne di nuovo ministro delle Infrastrutture e tra il 1998 e il 1999, con Benjamin Netanyahu primo ministro, ministro degli Esteri.
Il 28 settembre del 2000, a capo dell’opposizione nel Parlamento israeliano, Sharon compì un gesto clamoroso, che rimase (letteralmente) nella storia: accompagnato da una scorta armata, composta da circa un migliaio di uomini, il leader della destra israeliana si recò alla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, entrando in un’area controllata dai palestinesi. Il gesto, visto come una vera provocazione in un momento incredibilmente teso nei rapporti tra arabi e israeliani, fu la causa dello scoppio della seconda intifada. La Spianata, infatti, nella quale si erge la cupola della Roccia (luogo sacro per i musulmani), è tradizionalmente controllata dai palestinesi. Il suo ingresso in quel perimetro fu interpretato come l’ennesima dimostrazione che, anche quella parte di città, araba e musulmana, doveva sottostare alla sovranità israeliana. Il gesto di Sharon centrò l’obiettivo di frustrare i rapporti con gli arabi che, nello stesso giorno, scesero in piazza e lanciarono pietre contro le autorità israeliane.

Ne seguirono rappresaglie da entrambe le parti e un acuirsi delle ostilità, che culminarono con l’uccisione di quattro arabi palestinesi e il ferimento di altre persone. Sharon ottenne ciò che aveva voluto e alle successive elezioni politiche, che si svolsero nel febbraio del 2001, vinse con un ampio margine e con una promessa: garantire sicurezza e “vera pace”.
La sua “camminata” alla Spianata delle Moschee, costata tanta violenza e un inasprirsi dei rapporti tra arabi e israeliani, era servita a Sharon per coltivare il suo bacino elettorale, lavorando all’immagine di un nemico da combattere, cioè gli arabi. Il suo sforzo e la sua posizione, particolarmente dura nei confronti dei palestinesi, ancora una volta, giocarono a suo favore. Quel gesto, infatti, contribuì ad raggiungere i consensi necessari per raggiungere la maggioranza. Subito dopo la sua elezione, Sharon prese la decisione di confinare il leader palestinese, Yasser Arafat, a Ramallah. La sua ascesa politica rischiò di essere compromessa nel 2002, quando si ipotizzò la possibilità di dover subire un processo all’Aja, al Tribunale per i crimini di guerra, per i fatti libanesi del 1982, nei campi di Sabra e Shatila. Tuttavia la controversia legale decadde, a causa della morte del principale accusatore di Sharon, ovvero Elie Hobeika che, responsabile diretto di quei massacri, aveva annunciato di voler chiarire definitivamente cosa accadde in quella circostanza. Un’autobomba però lo uccise pochi giorni prima del processo, facendo cadere tutte le accuse contro l’allora primo ministro.

Scampato il “pericolo giudiziario”, Sharon venne rieletto nel 2003, avviando la costruzione di una barriera difensiva al confine con la Cisgiordania per ridurre gli attentati suicidi. Dopo essersi costruito una certa reputazione come difensore dei coloni, Sharon, nel febbraio del 2004, annunciò la sua intenzione di lasciare la Striscia di Gaza: il suo piano prevedeva non soltanto il ritiro dei soldati dello Stato ebraico dall’area, ma anche il trasferimento in Cisgiordania dei circa 8mila coloni che occupavano il 30% del territorio.
Il piano, che in molti faticarono a comprendere, venne attuato nell’agosto del 2005, incontrando una certa resistenza da parte degli abitanti israeliani. Ma quel ritiro, attuato senza alcun tipo di accordo con i palestinesi, consentì a Israele di isolare Gaza dal resto dei territori occupati e di “sigillarla”, controllandone così i confini, terrestri e marittimi. In quella circostanza accadde, tuttavia, un episodio curioso: tra agosto e settembre, i coloni che non avevano accettato il piano di Sharon nella ventina di insediamenti della Striscia (e in quattro insediamenti nel nord della Cisgiordania compresi nel piano) vennero sgomberati con la forza dall’esercito israeliano. Poco tempo dopo, il leader della destra israeliana annunciò l’abbandono del partito Likud, con cui aveva condiviso tutto. Le sue ultime mosse a Gaza gli avevano attirato le critiche da parte dei membri del suo ex partito e un certo supporto nell’elettorato più centrista (e progressista). Nessuno riuscì a decifrare, per davvero, la mossa politica del disimpegno unilaterale a Gaza, atto che venne combattuto dalla destra più intransigente. Chi lo criticò disse che l’azione fu dettata dalla scelta di abbandonare una zona sovrappopolata ed economicamente meno importante, per poter concentrare meglio gli sforzi sull’occupazione della Cisgiordania.
Il 21 novembre 2005 Sharon, dopo diverse fratture politiche evidenti, confermò la sua uscita dal Likud, il partito nazionalista liberale che aveva contribuito a far crescere, e fondò un nuovo movimento, il Kadima, parola che ebraico significa “avanti”, formazione centrista e liberale, in cui confluì anche il premio Nobel per la Pace, Shimon Peres (ex laburista). L’ideologia alla base di Kadima, che riuscì ad attrarre diverse personalità dei Labour, era centrista, flessibile e moderata, proprio perché quel partito mirava a conquistare e mantenere il potere più allargato. Nell’intricata questione arabo-israeliana , Kadima portava avanti il principio del “riallineamento”, cioè del ritiro parziale da alcune aree della Cisgiordania occupata.
Poche settimane dopo la fondazione del suo nuovo partito, Sharon ebbe un improvviso problema di salute, che ne sancì l’uscita definitiva dalla vita politica attiva. Il 18 dicembre del 2005 venne ricoverato per un malore, ma la sua condizione precipitò il 4 gennaio 2006, quando, nella sua fattoria di Havat Shimim, nel nord del deserto del Negev, venne colpito da un grave ictus, che comportò il suo ricovero d’urgenza all’ospedale di Hadassa, a Gerusalemme. Per il giorno successivo, come riportato da Il Post, era da tempo in programma un intervento chirurgico per l’inserimento di un catetere nel cuore, conseguenza di un leggero infarto che Sharon ebbe il mese precedente. In ospedale, subito dopo l’emorragia cerebrale, invece, subì una lunga serie di operazioni, senza però riprendere mai conoscenza. Nel marzo del 2006, il suo partito vinse le elezioni parlamentari e l’11 aprile, visto il permanere del coma, Sharon fu ufficialmente destituito dalla carica di primo ministro. Questa decisione ebbe effetto dal 14 aprile e la carica venne assunta, “ad interim”, da Ehud Olmert. Dopo quasi quattro anni di coma, nel 2010, il leader israeliano, che aveva ricominciato a respirare autonomamente, lasciò l’ospedale e fu trasportato nella sua casa nella tenuta. Nel gennaio del 2013, l’équipe medica che lo aveva in cura comunicò che l’ex premier, ormai 85enne, mostrava significativi segnali di attività cerebrale e che si trovava in uno stato di coscienza minima, che gli permetteva di rispondere ad alcuni stimoli, come le immagini della propria abitazione o le voci dei suoi figli. Nel settembre del 2013, Sharon venne sottoposto a un delicato intervento chirurgico che però non diede gli esiti sperati e, da quel momento, le sue condizioni si aggravarono ulteriormente, con un blocco renale. Nel gennaio del 2014, i medici dell’ospedale di Tel Aviv, dove l’ex premier era ricoverato, annunciarono che la morte del leader era cosa imminente. Sharon, in effetti, si spense pochi giorni dopo, quando la radio israeliana ne annunciò il decesso. Venne sepolto accanto alla moglie, poco lontano dalla tenuta appartenente alla famiglia.
Leader camaleontico e figura militare di spessore, Sharon rappresenta ancora per gli israeliani una figura molto discussa ed è ricordato, soprattutto in Israele, come uno dei più grandi comandanti della storia del Paese. Nessuno riuscì mai a decifrare per davvero la sua ultima posizione politica, in particolare dopo lo sgombero dei coloni a Gaza. Da nemico intransigente dei palestinesi, al termine della sua carriera prese decisioni poco comprensibili al suo ex elettorato di destra, avvicinandosi invece a posizioni decisamente più moderate. Durante la sua carriera di primo ministro, le sue scelte causarono una frattura evidente con il partito Likud. A Oriana Fallaci, che lo intervistò e lo citò nel suo libro “Intervista con il potere”, sulla sua fede e il suo rapporto personale con l’ebraismo disse: “Non sono religioso. Non lo sono mai stato sebbene segua certe regole della religione ebraica, come non mangiare il maiale. Però sì, penso di poter dire che credo in Dio”.