In tutte le immagini pubbliche che lo ritraggono, ciò che lo contraddistingue è il sorriso. Sul capo ha sempre la kefiah a quadretti bianchi e neri, emblema della cultura (e della lotta) palestinese. Ma nella vita, Yasser Arafat è stato molto più di un leader (a tratti anche controverso): è stato premio Nobel per la Pace nel 1994 e dal 1996 fino alla sua morte ha ricoperto la carica di presidente dell’Autorità nazionale palestinese. È stato alla guida di al Fath (nota anche come Al Fatah), confluita poi nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Probabilmente il più importante leader che il Paese abbia avuto in tutta la sua storia recente, Arafat ha rappresentato, nel tempo, per arabi e palestinesi, un simbolo incessante (e a volte fastidioso) di lotta che, nonostante gli aspetti più dibattuti, ha attraversato il tempo e persino i confini geografici del Medio Oriente.
Personalità complessa, uomo d’azione ma anche diplomatico piuttosto prudente, negli ultimi anni della sua vita, fu accusato di non volere davvero la pace, di aver sostenuto alcuni atti di terrorismo contro civili israeliani e di non aver fatto nulla per contrastarli perché non più riconosciuto come unico interlocutore affidabile. Allo stesso tempo, in modo speculare, il mondo arabo non smise di riconoscerlo come una figura carismatica, fondamentale nelle dinamiche dei processi di pace tra palestinesi e israeliani. Se n’è andato in circostanze mai del tutto chiarite nel 2004, quando qualcuno parlò di avvelenamento e altri di peggioramento di una malattia che resta sconosciuta. Oggi, di lui, rimangono ritratti fotografici sparsi in vecchi ristoranti, bar e punti di ritrovo nei luoghi più periferici della Palestina. E poi resta anche la sua storia, mai del tutto dimenticata.
Sul luogo delle sue origini circolano, da sempre, diversi dubbi. Il certificato di nascita, depositato all’università del Cairo, in Egitto, attesta che Arafat nacque nella capitale egiziana il 24 agosto del 1929. Altre fonti, invece, indicano Gerusalemme come sua città natale. Primo di sette fratelli e figlio di un mercante, trascorse la maggior parte della sua giovinezza in Egitto. Tuttavia, tra i cinque e i nove anni, dopo la morte della madre, Arafat si trasferì in Palestina da un parente. Tornato in Egitto per completare gli studi, si laureò in ingegneria civile all’università del Cairo. E al termine del suo percorso formativo, aderì alla Fratellanza musulmana e all’Unione degli studenti palestinesi, della quale divenne poi presidente dal 1952 al 1956. Durante i suoi anni in Egitto, strinse un legame particolare con uno zio, Hajji Amin al-Husayni, che era stato mufti di Gerusalemme (il titolo si riferisce a un alto ufficiale della legge religiosa islamica sunnita di un Paese musulmano). Nel 1956, durante la crisi di Suez, Arafat prestò servizio nell’esercito egiziano. E forse, proprio quella decisione, influenzò le scelte di vita future.
Per comprendere dall’inizio il percorso di Arafat in Palestina è necessario, però, analizzare la situazione nel Paese negli anni Cinquanta. Dopo la guerra del 1956, Israele riuscì a godere di un periodo di relativa tranquillità e iniziò così il confronto con l’olocausto. Il 23 maggio del 1960, il primo presidente israeliano, Ben Gurion, alla Knesset, diede la notizia della cattura in Argentina di Adolf Heichmann, il principale responsabile della deportazione degli ebrei europei verso i campi di sterminio nazisti.
L’11 aprile del 1961 iniziò a Gerusalemme il processo all’ex gerarca, durante il quale intervennero oltre 100 sopravvissuti alla shoah, che raccontarono le atrocità subite. In quelle circostanze, per la prima volta, l’opinione pubblica ebbe la percezione reale di quello che accadde agli ebrei in Europa durante la Seconda guerra mondiale. Eichmann fu dichiarato colpevole e giustiziato il 1° aprile del 1962. Al contrario, però, la Palestina non sembrava godere della stessa tranquillità politica e sociale. Contemporaneamente, infatti, nell’intricata quanto disperata situazione palestinese iniziava a prendere forma l’idea che una rinascita della propria causa nazionale non si sarebbe realizzata attendendo l’aiuto di altri Stati arabi, che sembravano più preoccupati dei propri interessi che non della sorte dei palestinesi. Così, sul finire degli anni Cinquanta alcuni giovani iniziarono a studiare altre possibilità per garantire una sopravvivenza alla Palestina.
Così, nel 1959, per iniziativa di Arafat, Khalil Wazir e Salah Khalaf (entrambi uccisi tra il 1988 e il 1991 da israeliani e da un estremista palestinese) nacque al Fatah che, per la prima volta, riuscì a mettere al primo posto la causa nazionale della Palestina, con l’obiettivo di creare uno Stato indipendente. Il gruppo si diversificava da altre organizzazioni e aveva come obiettivo quello di proteggere l’identità palestinese, anche con la lotta. Nel 1964, questa volta per iniziativa di altri Stati arabi, fu fondata l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, che avrebbe dovuto coordinare e dirigere tutte le altre organizzazioni e che, almeno all’inizio, venne affidata a un gruppo di anziani notabili palestinesi. Insieme a George Habbash, un arabo cristiano del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, Arafat criticò la visione di chi guidava l’Olp. La sua strategia, infatti, consisteva nel cercare di accrescere la tensione con Israele, in modo da provocare una guerra generale. Al contrario, il presidente egiziano Gamal Abd al-Nasser, che controllava di fatto l’Olp, voleva evitare un altro conflitto.
La situazione cambiò quando, nel 1964, un colpo di Stato in Siria portò al potere Hafez al Assad, del partito Baath, grande sostenitore di Arafat. E così, al termine di quell’anno, si concretizzò un improvviso confronto militare tra Siria e Israele, motivato dalla decisione siriana di deviare un paio di affluenti del fiume Giordano in modo da procurarsi nuove fonti idriche. Non si arrivò a una guerra più ampia, ma la tensione rimase alta perché nel 1965 si moltiplicarono gli atti di guerriglia compiuti dei militanti palestinesi. Durante tutto il 1966 e i primi mesi del 1967 si susseguirono combattimenti e rappresaglie continue nelle zone di confine.
Alla fine, il conflitto tra Israele (da una parte) ed Egitto, Siria e Giordania (dall’altra), si compì e si trasformò in una rapida vittoria israeliana. Al termine della guerra, Israele conquistò la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza all’Egitto, la Cisgiordania e Gerusalemme Est alla Giordania e le alture del Golan alla Siria. La vittoria israeliana cambiò completamente la situazione, in senso opposto a quello sperato da Arafat mesi prima. Fu in quel momento che la causa palestinese risultò ancora più debole: Israele, infatti, passò all’immediata trasformazione urbanistica di Gerusalemme Est, annettendo completamente la città santa. L’esito della Guerra dei sei giorni provocò un’altra ondata di profughi palestinesi (circa 400mila), che si aggiungevano a quelli dei conflitti precedenti. Nello stesso momento, l’Olp si trovava ad affrontare una grave crisi interna (anche a causa di Nasser). I giovani guerriglieri palestinesi, denominati feddayn, continuarono la loro lotta, ottenendo un successo rimasto storico, quello di Karameh, in Giordania, dove nel 1968 riuscirono a respingere una pattuglia israeliana che aveva sconfinato.
Il congresso dell’organizzazione si tenne al Cairo il 3 febbraio del 1969 e in quella circostanza Arafat divenne l’effettivo leader dell’Olp, perché eletto presidente dell’organizzazione (fino ad allora guidata da Ahmad Shuqayri, di cui Arafat fu portavoce), avviando una vero e proprio nuovo inizio per la causa della Palestina. Arafat si diede due obiettivi: far riconoscere l’Olp come l’unico rappresentante del popolo palestinese (elemento che si concretizzò nell’arco di cinque anni, con l’ammissione della stessa Olp come movimento osservatore alle Nazioni unite) e imporre la questione all’attenzione dei vari governi e dell’intera opinione pubblica mondiale (ricorrendo, qualche volta, anche all’uso di atti considerati violenti). Ma una prima crisi si consumò con la Giordania: nella sua capitale Amman, infatti, l’Olp trasferì la sua sede, abbandonando l’Egitto. Con questo gesto, l’organizzazione intendeva rendersi più vicina geograficamente alla Palestina e ai suoi profughi, che si erano rifugiati nel Paese vicino. All’inizio, re Hussein appoggiò la decisione, pensando di poter sfruttare la causa palestinese per qualificarsi come nuovo leader arabo (al posto di Nasser).
Ma per la Giordania, gli effetti di questa decisione furono più negativi che positivi , visto che Israele colpì i suoi villaggi come ritorsione per le incursioni dei feddayn e visto che i palestinesi si sentirono sempre di più come un’entità autonoma rispetto al potere del sovrano, costituendo una sorta di Stato nello Stato. Alla fine, nel 1970, la situazione tesa sfociò in uno scontro tra i guerriglieri palestinesi e i soldati dell’esercito giordano. Lo scontro si fece più duro nel giugno del 1970: diversi governi arabi cercarono di mediare una soluzione pacifica ma, nel settembre di quell’anno, le ripetute operazioni dei feddayn (tra cui il dirottamento di tre aerei, il sequestro di alcuni passeggeri e la distruzione di quei velivoli) scatenarono la reazione giordana che, attraverso un’operazione militare, cercò di riprendere il controllo sul suo territorio. Il 16 settembre del 1970, re Hussein dichiarò la legge marziale e nello stesso momento Arafat divenne comandate supremo dell’Armata per la liberazione della Palestina, una forza armata appunto regolare dell’Olp.
In quella guerra civile, l’Olp ebbe il sostegno della Siria, che inviò in Giordania circa 200 carri armati. Gli scontri si consumarono principalmente tra le forze giordane e l’Alp di Arafat. Il 24 settembre del 1970 l’esercito di Amman riuscì a prevalere e l’Alp fu costretta a chiedere una serie di cessate il fuoco. Durante le azioni militari, l’esercito giordano attaccò anche i campi profughi dei civili palestinesi (tutti rifugiati lì dopo la Guerra dei Sei giorni). Le vittime di quella battaglia furono migliaia ed è soprattutto per questo motivo che quel periodo venne definito “settembre nero”. Tra gli effetti di questa crisi, si registrò anche il decesso, per infarto, del presidente egiziano Nasser, il 28 settembre di quell’anno, dopo aver tentato in tutti i modi di guidare i combattenti verso una tregua, firmata il giorno prima. Ne seguì un altro esodo dell’Olp, che dalla Giordania si trasferì a Beirut, in Libano. E in quegli anni, l’organizzazione e la questione palestinese si trasformarono in un problema complesso per tutto il mondo arabo (in particolare, per i suoi regimi più conservatori e nazionalisti). Grazie alla debolezza del governo centrale libanese, l’Olp riuscì a operare in uno stato virtualmente indipendente. L’organizzazione di Arafat, da qui, sarebbe riuscita a lanciare attacchi di artiglieria contro Israele e avrebbe utilizzato il territorio come base per le infiltrazioni dei guerriglieri. Questo (ennesimo) conflitto ebbe come effetto immediato una recrudescenza del terrorismo, con la sua comparsa persino in Europa. Nel settembre del 1972, il gruppo terrorista palestinese “Settembre Nero“, accusato di aver goduto della copertura di al Fatah, sequestrò e uccise 11 atleti israeliani durante i Giochi olimpici di Monaco di Baviera. In quella circostanza, però, alla condanna internazionale si unì anche quella di Arafat, che si dissociò pubblicamente da quei fatti. Due anni dopo, il leader palestinese ordinò all’Olp di sospendere ogni azione militare al di fuori di Israele, Cisgiordania o della Striscia di Gaza. E, sempre nel 1974, Arafat divenne il primo rappresentante di un’organizzazione non governativa a parlare a una sessione generale dell’Onu.
Nello stesso periodo, in diverse occasioni, Arafat venne accusato di dissociarsi solo pubblicamente da quegli attentati. Al Fatah continuò a lanciare attacchi contro obiettivi israeliani e gli anni Settanta furono caratterizzati dalla comparsa di alcuni gruppi palestinesi estremisti, pronti a colpire sia Israele, sia altri luoghi fuori dai confini dello Stato. Gli israeliani dichiararono che, dietro a tutti questi tentativi, ci fosse proprio Arafat, il quale, però, smentì sempre ipotesi di questo tipo. Nel 1974 i capi di Stato arabi riconobbero l’Olp come unica rappresentante legittima di tutti i palestinesi e nel 1976 venne ammessa come membro all’interno della Lega araba.
Dopo il trasferimento dell’Olp in Libano, la situazione si fece più tesa, trasformandosi (ancora una volta) in una guerra civile tra la componente cristiano maronita e quella musulmana appoggiata dall’organizzazione guidata da Arafat. I cristiani maroniti accusarono Arafat e l’Olp di essere i responsabili della morte di decine di migliaia di membri del loro popolo e Israele, approfittando della crisi, si alleò con loro, mettendo in atto due azioni di invasione del Libano. La prima, l’operazione Litani, fu nel 1978 e la seconda, chiamata Pace in Galilea, nel 1982. In quest’ultimo conflitto, la prima guerra israelo-libanese, Israele occupò la maggior parte del sud del Libano, per ritirarsi poi, tre anni, dopo nella fascia di sicurezza. Fu in questa circostanza che alcune migliaia di civili palestinesi vennero massacrati nei campi profughi di Sabra e Shatila dai falangisti cristiano maroniti guidati da Eli Hobeik.
Le azioni furono talmente brutali da determinare una reazione internazionale, con l’invio di una forza armata di interposizione. Ariel Sharon, che allora ricopriva la carica di ministro della Difesa israeliano, venne ritenuto l’indiretto responsabile dei massacri dal tribunale Supremo israeliano e fu costretto a dimettersi per assumere una carica minore.
Nel settembre dello stesso anno, il 1982, durante l’invasione israeliana, gli Stati Uniti ottennero una tregua in virtù della quale Arafat e l’Olp potevano lasciare il Libano per trasferirsi in Tunisia. In quegli anni, il leader palestinese ottenne appoggio e assistenza anche dal presidente iracheno, Saddam Hussein, che gli permise di riorganizzare il gruppo dirigente dell’organizzazione, che si era ridotto dopo il conflitto in Libano. Il 5 novembre del 1988, anche se di fatto in esilio, l’Olp proclamò la creazione dello Stato della Palestina, nei termini della risoluzione n°181 dell’Onu. Il 13 dicembre dello stesso anno, Arafat dichiarò di accettare la risoluzione n°242 promettendo il futuro riconoscimento dello Stato di Israele e, soprattutto, la rinuncia al terrorismo. Il 2 aprile del 1989, Arafat venne eletto dal comitato esecutivo del Consiglio nazionale palestinese (una specie di parlamento da cui dipendeva anche l’Olp) presidente dello Stato palestinese: nello stesso giorno, il governo americano propose la formazione di due separate entità statali. In base a questa mozione, Israele sarebbe dovuto rimanere entro i confini fissati precedentemente al 1967 e la Palestina, doveva essere composta da Cisgiordania e Striscia di Gaza.
Il processo che dalle azioni di guerriglia e terroristiche portò alla creazione di uno Stato, in grado di riconoscere Israele, fu lungo e sicuramente molto complesso. Nel 1993 vennero raggiunti gli accordi di Oslo, che prevedevano l’autogoverno per i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza entro cinque anni. Nel 1995, Arafat, insieme ai due presidenti israeliani Shimon Peres e a Yitzhak Rabin, venne insignito del più importante riconoscimento mondiale, ovvero il premio Nobel per la Pace.

Nel 1994 si trasferirono nell’Autorità nazionale Palestinese le prerogative dell’entità provvisoria prevista dagli accordi di Oslo. Il 20 gennaio del 1996, Arafat venne eletto presidente dell’Autorità provvisoria, con una maggioranza dell’87%, rispetto all’altro candidato, Samiba Khalil. Osservatori internazionali indipendenti confermarono il voto e il corretto svolgimento delle elezioni, ma alcuni notarono che il suffragio non poteva considerarsi avvenuto nella completa democraticità. A partire dal 1996, Arafat, come leader dell’Autorità palestinese, venne denominato con la parola araba rais, che significa sì presidente, ma anche semplicemente “capo”. Per Israele, che non riconosceva l’esistenza di uno Stato palestinese, la parola voleva dire solamente “portavoce”, mentre anche nei documenti palestinesi in inglese viene tradotto come “presidente”. Nello stesso anno, alcuni attacchi suicidi portati a termine da alcuni estremisti palestinesi complicarono ancora le relazioni tra l’Autorità nazionale di Arafat e Israele e il nuovo primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, bloccò la transizione alla formazione dello Stato palestinese prevista dagli accordi di Oslo.
Nel 1998, l’allora presidente americano Bill Clinton cercò di ricucire i rapporti tra Arafat e Netanyahu. Il 23 ottobre dello stesso, prese forma un memorandum che specificava i passi per il completamento del processo di pace tra i due Stati. Successivamente, Arafat proseguì i negoziati con il successore di Netanyahu, Ehud Barak (appartenente al Partito laburista), che offrì al leader palestinese uno Stato nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, con capitale Gerusalemme Est, il ritorno di un numero limitato di profughi e una sorta di indennizzo per chi non poteva rientrare. Tuttavia, con un’azione che spiazzò lo scenario internazionale, Arafat rifiutò la proposta di Barak, senza presentare delle controproposte. Nel dicembre del 2000, dopo una visita di Ariel Sharon alla spianata della Moschea al-Aqsa di Gerusalemme, si riaccese lo scontro tra israeliani e palestinesi. Quel gesto, considerato provocatorio dagli osservatori internazionali, rappresentò la fine degli sforzi per modificare e rendere efficace l’apparato di governo rappresentato dall’Autorità nazionale palestinese.
Quella di Arafat è stata una vita complessa e costellata di avvenimenti particolari che, in qualche circostanza, l’hanno fatta somigliare quasi a una leggenda. È noto, per esempio, che il leader palestinese abbia rischiato la vita in diverse occasioni, senza morire mai. Nel 1973 scampò a una bomba esplosa nel suo ufficio, che uccise tre dei suoi principali collaboratori. Nel 1976, in Libano, riuscì a salvarsi anche dal massacro di Tell al-Za’tar, dove i falangisti e i seguaci dell’ex presidente Camille Sham ‘un, spararono sui profughi civili. Il 30 agosto del 1982, durante l’operazione Pace in Galilea, si racconta che un cecchino israeliano riuscì a inquadrare Arafat con il suo mirino. In quella circostanza, a salvargli la vita, fu l’ordine di Sharon di sospendere l’operazione. Nel 1985, già in Tunisia, il leader palestinese riuscì a sopravvivere al bombardamento del proprio quartiere nella capitale, effettuato dall’aviazione israeliana. Infine, nel 1992, il suo jet precipitò nel Sahara libico e tre delle persone a bordo morirono nello schianto. Ma non lui.
Arafat morì l’11 novembre del 2004 in Francia, all’età di 75 anni. Da tempo non godeva di buona salute, ma il momento in cui iniziò ad accusare sintomi più gravi fu quando si trovava nel complesso presidenziale di Muqataa a Ramallah, in Cisgiordania. Le forze di sicurezza israeliane, in quel periodo, lo tenevano isolato da tre giorni, accusandolo (come già era capitato in passato) di avere appoggiato una serie di attacchi terroristici da parte di militanti palestinesi. In quella circostanza, il leader venne visitato da medici palestinesi, egiziani, giordani e tunisini. Venne curato per un’influenza e una trombocitopenia (la condizione in cui il numero di piastrine nel sangue risulta inferiore alla media). Per qualche settimana non assunse antibiotici, ma dopo poco tempo, un elicottero lo trasportò in Giordania. Infine, l’allora presidente francese, Jaques Chirac, lo fece trasferire all’ospedale militare Percy a Clamart, poco fuori Parigi. In Franca, i dottori gli diagnosticarono una grave patologia al sangue, che i medici non furono in grado di curare. Il 3 novembre, il leader palestinese entrò in coma, che lo portò alla morte cerebrale, in seguito ad accidente cerebrovascolare otto giorni dopo.

Dopo il suo decesso, in molti provarono a dare spiegazioni rispetto alla sua morte. Ci fu chi parlò di una malattia virale, del cancro, di una forma di leucemia, di cirrosi epatica o di un disordine delle piastrine. Ma ci fu anche chi disse che il leader avesse l’Hiv, ipotesi in qualche caso confermata, ma poi smentita dai familiari. A destare, invece, più interesse fu la possibilità di un avvelenamento del sangue. A partire dai giorni successivi al decesso, infatti, diversi funzionari palestinesi iniziarono ad accusare Israele di avere avvelenato il loro leader (che negò il proprio coinvolgimento).
In seguito, però, un istituto di indagini sulla radioattività a Losanna, in Svizzera, trovò tracce di un elemento radioattivo, il polonio, su alcuni effetti personali del leader palestinese (cioè su alcuni abiti e sullo spazzolino da denti), come confermato anche da un articolo pubblicato dal Corriere della sera. Il sospetto di morte per avvelenamento fu rafforzato anche da una ricerca, redatta da alcuni specialisti dell’università di Losanna, che riferirono nel 2013, dopo la riesumazione della salma nel 2012 e il prelievo di alcuni campioni, che si poteva riscontrare un “innaturale alto livello di polonio radioattivo nelle costole e nel bacino” del leader e che c’era un “83% di probabilità” che fosse stato avvelenato. Un documentario-inchiesta di Al Jazeera confermò questa ipotesi. Anche se, nello stesso periodo, anche esperti russi e francesi analizzarono altri campioni, con risultati però contrastanti. E dopo diversi ed estesi esami sul suo corpo, i medici francesi non riuscirono a scoprire le cause della sua morte. Le biopsie e le altre analisi mediche effettuate sui suoi resti non mostrarono segni di alcun agente infetto, di cancro o di sostanze particolari. E i test effettuati in un laboratorio tunisino su alcuni campioni di sangue, feci, urine e midollo osseo risultarono negativi.
A oggi, nessuno sa dire con certezza quali siano state le cause effettive della sua morte. La sua tomba, comunque, si trova in un mausoleo, all’interno della sua residenza della Muqataa, a Ramallah. Mentre la sua immagine di lui in vita è ancora dappertutto, come se fosse scampato un’altra volta alla morte.