Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov (LaPresse)

Chi è Sergej Lavrov

Viene dipinto come un “gigante della diplomazia”, è il numero due del Cremlino, presso il quale è titolare del Ministero degli Affari esteri sin dal lontano 2004, ed è, inoltre, colui che ha contribuito, insieme a Vladimir Putin, a proiettare la Russia nel XXI secolo sceneggiando una sequela di successi militari (Georgia, Siria, Ucraina) e diplomatici (New Start, Unione Economica Eurasiatica, Nagorno Karabakh) che l’hanno gradualmente reinserita nell’alveo delle grandi potenze. Il suo nome è Sergej Viktorovič Lavrov.

Sergej Viktorovič Lavrov nasce a Mosca il 21 marzo 1950 in un contesto familiare multietnico, umile e del quale poco è stato rivelato al pubblico. Il padre era un armeno nato a Tbilisi (Georgia), il cui cognome era Kalantaryan, mentre la madre, rispondente al nome di Kaleria Barisovna Lavrova, era un’impiegata del Ministero degli Affari esteri di nazionalità russa.

Educato in maniera tradizionale, ovvero attraverso il metodo “del bastone e della carota”, una volta cresciuto avrebbe deciso di assumere il cognome della madre, diventando Sergej Lavrov, a dimostrazione del forte attaccamento alla nazione russa.

Dopo aver conseguito un diploma con gli onori presso la scuola superiore di Noginsk, a cinquanta chilometri di Mosca, decide di trasferirsi nella capitale per studiare relazioni internazionali alla prestigiosa Università statale per le relazioni internazionali (MGIMO). La carriera universitaria viene conclusa con successo nel 1972: una laurea, l’apprendimento di tre lingue straniere (inglese, francese e singalese) e il matrimonio, avvenuto durante il terzo anno di studi.

Una volta conseguita la laurea, parte in direzione di Colombo per lavorare presso l’ambasciata sovietica in Sri Lanka come traduttore, analista politico e segretario personale dell’allora ambasciatore, Rafiq Nishonov. Ottiene l’incarico perché, oltre all’eccellente curriculum studiorum e alle regole della MGIMO sull’impiego dei neolaureati, negli anni di studi aveva avuto la brillante idea di imparare il complicato ma utile singalese, che, ancora oggi, parla fluentemente.

È nell’ambito di questa esperienza formativa, durata quattro anni, che Lavrov muove i primi passi verso la diplomazia e che, soprattutto, ottiene i primi riconoscimenti dai quadri superiori. Inizialmente impiegato come traduttore, analista e segretario dell’ambasciatore, il giovane Lavrov terminerà il percorso con il titolo di addetto (attaché).

La scalata ai vertici della diplomazia nazionale inizia nel 1976, anno del ritorno a Mosca. Il primo lavoro è come segretario nella Sezione per le relazioni economiche internazionali dell’Unione sovietica, il secondo è come consulente senior presso la missione sovietica alle Nazioni Unite; ruolo, quest’ultimo, che lo avrebbe condotto a New York per un certo periodo.

Nel 1988, di ritorno dalla Grande Mela, rientra nella Sezione per le relazioni economiche internazionali del governo ma, questa volta, in qualità di vice-capo. Nel 1990, mentre il Secondo Mondo va rapidamente sfaldandosi e l’epopea sovietica si dirige inevitabilmente verso il tramonto, per Lavrov è il momento della svolta: diventa direttore dell’Organizzazione Internazionale del Ministero degli Affari esteri sovietico, incarico che avrebbe svolto sino all’estinzione dell’entità statale.

Nel 1992, morta definitivamente l’Unione sovietica, la neonata Federazione russa attinge al precedente bacino di esperti, politici e diplomatici per darsi una direzione. Lavrov, che oramai possiede una nomea elevata e certificata, viene nominato direttore del Dipartimento per le organizzazioni internazionali e i problemi globali del Ministero degli Esteri. Avrebbe ricoperto tale posizione sino al 1994, anno del ritorno a New York, dove sarebbe stato fino al 2004 per rappresentare la Russia alle Nazioni Unite.

Lavrov si lascia alle spalle una Russia in frantumi e sul punto di seguire il destino implosivo dell’Unione Sovietica a causa dei separatismi etno-religiosi, del terrorismo islamista e della depressione economica; al suo ritorno, però, trova una nazione in fase di restauro, che ha superato l’ipogeo e anela, perciò, a riottenere ciò che ha perduto: la status di grande potenza.

L’allora neopresidente Vladimir Putin, intronizzato dallo stato profondo per riportare ordine e stabilità ad una patria sul punto di estinguersi, approfitta immediatamente del rincasare dell’esperto diplomatico per proporgli il ruolo di capo della diplomazia del Cremlino, ovverosia di ministro degli esteri – una proposta irrinunciabile.

Da quel giorno, 9 marzo 2004, Lavrov è divenuto il potere dietro la corona che, suggerendo a Putin come muoversi nel mondo nuovo, ha giocato un ruolo determinante nella repentina e inarrestabile rinascita della Russia. Lavrov, invero, è colui che ha sceneggiato l’intervento militare nella guerra di Siria e il ritorno russo in Africa e in America Latina, dedicando particolare attenzione ai rapporti con il Venezuela e il Nicaragua, e che, per un certo periodo, era riuscito a riscaldare le relazioni con gli Stati Uniti della prima amministrazione Obama.

Tra i risultati più recenti della quasi ventennale permanenza al Ministero degli Esteri di Russia, figurano il matrimonio di convenienza con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, funzionale ad un divide et impera nell’area Medio Oriente e Nord Africa e al dissesto dell’Alleanza Atlantica, e l’accordo di cessate il fuoco nel Nagorno Karabakh che ha magistralmente consentito al Cremlino di riaffermare il controllo sull’Armenia e il proprio ruolo di stabilizzatore regionale del Caucaso meridionale.

Il detto “tutti sono utili, nessuno è indispensabile” è sicuramente applicabile ad una moltitudine di casi, la stragrande maggioranza, ma Lavrov sembra essere realmente insostituibile. Il suo impatto nella politica estera della Russia contemporanea è stato profondissimo: Lavrov è il diplomatico per eccellenza, il suo stile comunicativo viene emulato da aspiranti consoli e ambasciatori, e le sue abilità negoziali gli sono valse credito e riconoscimento internazionali.

Dopo Lavrov, le déluge; questo è il motivo per cui, nonostante l’età avanzata e il flusso costante di indiscrezioni circa il suo ritiro dalla scena, non gli viene consentito di abbandonare l’incarico. Il diplomatico rappresenta uno dei frutti pregiati della formazione rigida ma avanguardistica di matrice sovietica, è un negoziatore formatosi a cavallo fra due epoche – e che ha saputo estrarre il meglio da entrambe – e il suo scettro, anche alla luce dell’eredità da trasmettere e preservare, non potrà essere affidato a chiunque.

Il “problema Lavrov” è di vitale importanza per lo stato profondo: la vecchia guardia che ha evitato l’implosione della Russia nei lontani-ma-mai-così-vicini anni ’90 è sempre più vecchia e, poiché non immortale, è chiamata a pensare al proprio riciclo. La questione riguarda tanto Lavrov, il diplomatico insostituibile, quanto Putin, il presidente che, cercando degli eredi, ha trovato soltanto dei delfini da ammaestrare.