Chi è Rodrigo Duterte

Con l’ascesa di Rodrigo Duterte alla presidenza delle Filippine un vero e proprio tifone si è abbattuto sull’arcipelago asiatico. Il politico ed ex avvocato classe 1945 è stato al centro della vita istituzionale del Paese sin dai giorni del ritorno alla democrazia, avvenuta con la Rivoluzione del Rosario che nel 1986 destituì il dittatore Ferdinand Marcos.

Duterte ha a lungo associato la sua figura alla città di Davao, principale centro dell’isola di Mindanao, che ha amministrato a più riprese dal 1988 in avanti con una serie di giunte formate da formazioni di sinistra e nazionaliste. Sindaco per complessivi ventidue anni (1988-1998, 2001-2010 e 2013-2016), Duterte ha associato la sua immagine a quella dell’uomo dell’ordine, del poliziotto severo e deciso, dell’implacabile avversario del crimine contrapposto alla corruzione della “Manila imperiale”, della capitale dei traffichi, degli intrallazzi e degli scontri tra cricche di potere.

La lotta al crimine di Duterte ha preso la forma, in diversi casi, dello sdoganamento di squadre di paramilitari come cacciatori di spacciatori di droga e criminali di stampo mafioso. Azioni controverse che hanno garantito a Duterte il soprannome di Punisher (punitore), come se più che di un sindaco si stesse parlando di uno sceriffo.

Ma non si può capire fino in fondo Duterte e i tassi di consenso che è riuscito a conquistare limitandosi all’analisi delle politiche securitarie. L’attuale Presidente, uomo di sinistra che si inserisce nel filone del “socialismo nazionalista” di tanti Paesi dell’ex Terzo Mondo, ha dimostrato da sindaco e capo di Stato una grande sensibilità verso le istanze economiche e sociali delle fasce più deboli e umili della popolazione, promuovendo politiche sviluppiste e contrastando i grandi monopoli come, ad esempio, quello dell’estrazione mineraria.

In generale l’attuale presidente è sempre stato in grado di presentarsi come uomo dell’ordine, di costruire una forte base di consenso tra la popolazione apparendo come fattore di discontinuità e rottura da una classe politica corrotta e inefficace. Queste sono state alcune tra le motivazioni più tangibili che hanno spinto Duterte alla presidenza delle Filippine dopo la sua candidatura da outsider, nonostante l’opposizione dell’establishment e del potente Presidente uscente Benigno Aquino III.

Dal 30 giugno 2016, data del suo insediamento, Duterte ha cambiato la politica filippina e contribuito a sviluppare cambiamenti nel posizionamento internazionale del Paese. La politica più famosa del Presidente è stata l’espansione a livello nazionale della guerra alla droga con i metodi già noti a Davao: sviluppo di strategie d’assalto basate sia sullo sdoganamento della polizia che sull’affidamento a unità paramilitari capaci di compiere operazioni, e vere proprie esecuzioni, extragiudiziarie. Come scritto su questa testata, “la politica della “tolleranza zero” ha provocato dal luglio 2016 al 30 aprile 2019 ben un milione e 300mila sequestri, 185.401 arresti, e 5.245 sospettati uccisi durante le operazioni, almeno secondo quanto riferito dalla Philippine Drug Enforcement Agency (Pdea), l’unità antidroga Filippino. Il numero di omicidi occorsi durante le operazioni contro il narcotraffico avrebbe raggiunto il massimo nell’agosto del 2018, con ben 32 vittime in un solo giorno”, mentre lo stesso anno Manila si è ritirata dalla Corte Penale Internazionale dopo i diversi rilievi dell’Onu sulla vicenda.

Cambiamenti rilevanti sono occorsi anche nella posizione internazionale delle Filippine, con Manila che ha abbandonato il tradizionale legame esclusivo con gli Stati Uniti passando a una posizione intermedia tra Washington e il duo Cina-Russia. Duterte ha più volte incontrato Xi Jinping e il premier cinese Li Keqiang ponendo le basi per una politica di sviluppo comune che è destinata ad arrivare anche allo strategico campo Tlc. Gli attacchi all’America sono funzionali alla retorica politica interna, alla denuncia di una classe politica effettivamente corrotta ed esclusiva legata a doppio filo con Washington, ex dominatore coloniale delle Filippine. È stato fatto notare che la denuncia del Presidente delle politiche americane ricordi nei modi e nei termini usati quella del defunto leader venezuelano Hugo Chavez.

In campo sociale, l’amministrazione Duterte può vantare due indubbi successi: l’espansione dell’accesso all’università, reso libero e garantito a partire dal 2017, e lo sviluppo di un modello di sanità pubblica universalista per le persone a reddito più basso simile a quello di Cuba. L’aumento delle pensioni e la riduzione dei contratti di lavoro a tempo determinato ha inoltre aggiunto struttura a una politica sociale di chiaro impianto socialista.

In definitiva, dare un giudizio unanime e univoco del “Giano Bifronte” che governa le Filippine è difficile. Il 74enne Duterte, uomo forte dell’arcipelago, è un tattico politico spregiudicato e privo di scrupoli morali in settori, come la lotta al crimine e alla corruzione, in cui la sensibilità filippina è particolarmente stimolata. Tanto da mantenere alti tassi di consenso anche di fronte a politiche sicuramente contestabili. Ma l’ascesa di Duterte ha anche contribuito a sanare anche disuguaglianze e debolezze del sistema sociale del Paese prodotto di trent’anni di transizione democratica imperfetta e non completa sotto il profilo sostanziale.

Come ogni buon politico Rodrigo “The Punisher” sta dimostrando furbizia e opportunismo: il suo lungo curriculum lo mantiene al riparo da qualsiasi istinto di carrierismo e gli consente di avere più margini di manovra. Sta dimostrando, cioè, di essere in grado di annusare gli umori della società filippina per poi cavalcarli in maniera strumentale, non privo di un certo afflato per le questioni sociali che più ha a cuore da uomo di sinistra. Un leader machiavellico in ogni sua sfumatura.

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