Pedro Sánchez Pérez-Castejón è il primo ministro spagnolo uscente e membro del Partito Socialista di Madrid (Psoe).
È riuscito a guidare il suo schieramento in un periodo in cui i movimenti progressisti europei sono risultati in forte difficoltà, consolidando una posizione preminente sullo scenario politico spagnolo.
Nel giugno del 2018, grazie ad una mozione di sfiducia costruttiva, è riuscito a far cadere l’esecutivo di Mariano Rajoy, il cui partito era stato travolto da una serie di scandali e a diventare primo ministro. Il suo governo, però, non ha mai potuto godere della maggioranza assoluta dei seggi e ciò ha determinato il ricorso alle elezioni anticipate dell’aprile del 2019, non risolutive, e quelle del successivo novembre dopo cui è nato il governo di coalizione tra Socialisti e sinistra di Podemos, durato fino alle dimissioni di Sanchez nel 2023.
Pedro Sanchez nacque a Madrid il 29 febbraio del 1972. Suo padre svolgeva la professione di economista e uomo d’affari mentre la madre era un’impiegata nel settore pubblico. Il giovane Sanchez completò gli studi liceali presso l’Instituto Ramiro de Maeztu, una scuola pubblica dove praticò anche, ad un buon livello, il gioco della pallacanestro. Nel 1990 il futuro leader socialista si iscrisse all’Università Complutense di Madrid dove proseguì gli studi scegliendo l’ambito economico. Laureatosi nel 1995 ottenne poi, nel 1998, un secondo titolo accademico in Economia e Politica presso l’Università di Bruxelles. Il suo percorso accademico raggiunse il culmine nel 2012 con l’ottenimento del dottorato in Economia e Politica. Prima di perseguire una carriera politica attiva Sanchez ha lavorato come assistente parlamentare presso il Parlamento Europeo, come capo dello staff dell’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite in Bosnia e come Professore universitario di Economia.
Pedro Sanchez si iscrisse al Partito Socialista spagnolo nel 1993, quando era ancora uno studente, ma il suo ingresso nell’agone politico non ha avuto luogo sino al 2003 quando si è candidato nella lista socialista, presieduta da Trinidad Jimenez, alle elezioni comunali di Madrid. In un primo momento non eletto è poi subentrato grazie alle dimissioni di due candidati che lo precedevano nel listino proporzionale ed ha mantenuto l’incarico sino al 2009, riuscendo a difendere il proprio seggio alle consultazioni del 2007.
Nel 2009 riuscì a conquistare uno scranno nel Parlamento Nazionale subentrando a Pedro Solbes, ministro dell’Economia e delle Finanze nel governo Zapatero, ritiratosi lo stesso anno ma perse il seggio nel 2011, anno della cocente sconfitta Socialista agli scrutini che videro la travolgente vittoria dei Popolari di Mariano Rajoy. Nei due anni successivi tornò a studiare per il Dottorato in Economia e Politica, fu consulente di un consorzio europeo e lavorò come professore universitario.
Pedro Sanchez non era però destinato al mondo accademico ed il suo percorso politico avrebbe conosciuto una nuova accelerata nel 2013 quando fece il suo ritorno presso le Cortes di Madrid per sostituire Cristina Narbona, che aveva lasciato lo scranno per passare ad un altro incarico.
Le difficoltà attraversate dal Partito Socialista, che aveva conseguito nel 2011 il peggior risultato elettorale dal 1975 e la cui popolarità continuava ad essere afflitta dalle critiche alle politiche economiche degli esecutivi Zapatero che, secondo alcuni, avevano facilitato la crisi che aveva poi colpito Madrid.
Il Segretario Generale dei progressisti, Alfredo Pérez Rubalcaba, si trovò sempre più in difficoltà e decise infine di rimettere il proprio incarico dopo il pessimo risultato delle elezioni europee del 2014. A succedergli fu proprio Pedro Sanchez che si impose sui suoi rivali e che dichiarò, nel discorso di investitura, di essersi ispirato all’azione riformatrice di Felipe Gonzales ed alle azioni politiche di Matteo Renzi.
Il suo primo mandato da Segretario Generale finì per coincidere, suo malgrado, con la forte ascesa di Podemos, movimento di sinistra radicale che aveva intenzione di rinnovare l’ambito progressista spagnolo. Il bipartitismo spagnolo si avviava verso una crisi irreversibile, resa palese dalle consultazioni del dicembre 2015 e del giugno 2016, entrambe conclusesi senza che alcun partito fosse riuscito a raggiungere la maggioranza.
I secondi comizi elettorali consentirono, infine, a Mariano Rajoy ed al Partito Popolare di formare un governo di minoranza. I Socialisti riuscirono, a stento, a mantenere le distanze da Podemos che aspirava a superarli, ma ottennero comunque un pessimo riscontro alle urne: il 22 per cento di dicembre ed il 22,6 per cento di giugno avevano abbassato ancora più in basso l’asticella rispetto al già deludente 28 per cento conseguito da Rubalcaba nel 2011.
La segreteria Sanchez si avviava a vivere un periodo molto turbolento conclusosi, nell’ottobre del 2016, con la sua cacciata da parte dell’Assemblea del partito. Il leader politico, infatti, dopo due pessime performance elettorali, continuava ad ostacolare i tentativi di Mariano Rajoy di formare un esecutivo e rischiava di proiettare il Paese verso un nuovo ritorno alle urne. I malumori nello schieramento progressista esplosero, infine, nel corso dell’Assemblea che con un voto di 132 a 107 decise di rimuoverlo dall’incarico e di piazzare il partito sotto un’amministrazione provvisoria.
La carriera politica di Pedro Sanchez non era, però, ancora destinata alla conclusione. Ad appena sette mesi dalla sua rimozione, infatti, l’ex leader socialista riuscì’ a sconfiggere, in nuove primarie, Susana Diaz, appoggiata dai pesi messimi del partito e da ex primi ministri progressisti come Felipe Gonzalez e Jose Luis Zapatero ed il terzo sfidante Patxi Lopez. Sanchez riuscì ad ottenere poco più del 50 per cento delle preferenze popolari contro il 39 per cento della sua rivale più immediata e tornò all’incarico di Segretario Generale grazie anche ad una campagna elettorale vissuta a stretto contatto con gli elettori ed alla sua promessa di spostare il partito verso sinistra. Nell’ottobre del 2017 il leader socialista si espresse contro la dichiarazione di indipendenza della Catalogna e sostenne la decisione del premier Mariano Rajoy di imporre il controllo diretto di Madrid sulla regione.
La turbolenta carriera di Pedro Sanchez era pronta, dopo molte difficoltà, per un balzo in avanti molto significativo: nel giugno del 2018, infatti, i Socialisti presentarono e riuscirono a far approvare dal Parlamento, con 180 voti a favore e 169 contrari, una mozione di sfiducia nei confronti del premier conservatore Mariano Rajoy, il cui partito era stato travolto da uno scandalo giudiziario. Per la prima volta un esecutivo spagnolo veniva rimosso dall’incarico in questo modo e Sanchez, grazie alla natura costruttiva della mozione che doveva indicare, per avere valore, il nome dell’eventuale successore di Rajoy, si ritrovò ad essere il nuovo Primo Ministro. L’esecutivo di minoranza Socialista, però, con appena 84 seggi si è trovato molto lontano dalla maggioranza qualificata di 176 scranni e ciò ha pesantemente influito sulla sua stabilità, influenzata dalla necessità di trovare, di volta in volta, i voti necessari a far passare i diversi provvedimenti legislativi.
Nel corso del suo breve mandato da premier Pedro Sanchez ha dovuto fare i conti con gli effetti della complessa crisi catalana. I partiti di centro-destra, dai Popolari al radicale Vox, lo hanno accusato di aver avuto posizioni troppo deboli nei confronti dei separatisti mentre, alla sua sinistra, Podemos e gli indipendentisti hanno fatto approvare, in centinaia di municipi sotto il loro controllo, mozioni a favore dell’abolizione della monarchia nel Paese. Una mossa, quest’ultima, che non ha potuto avere l’appoggio di Sanchez e dei Socialisti.
Pressato tanto da destra quanto da sinistra, Sanchez si è ritrovato a presiedere il governo in un periodo in cui, nel Vecchio Continente, la sinistra progressista, con alcune eccezioni, è in forte difficoltà e talvolta in crisi irreversibile. Privo di una maggioranza stabile, dopo aver riportato il partito su posizioni più moderate di centro-sinistra dopo la svolta radicale del 2017, Sanchez si è trovato costretto a tentare la via delle elezioni anticipate, che hanno avuto luogo nell’aprile del 2019.
Le nuove consultazioni, pur premiando i Socialisti con il primo posto ed il 28,7 per cento dei voti, non hanno consentito la formazione di un nuovo esecutivo progressista. Le lunghe trattative con gli ex rivali di Podemos sono, infatti, naufragate e questi ultimi hanno accusato Sanchez di volergli offrire solamente posizioni di secondo piano in un eventuale governo di coalizione. Non è stata raggiunta nemmeno un’intesa con i liberali di Ciudadanos e pertanto la Spagna è tornata per la quarta volta in quattro anni, ad elezioni anticipate che hanno avuto luogo il 10 novembre del 2019. Concretizzando un’alleanza strutturale fallita l’estate precedente.
Al voto del novembre 2019 i socialisti di Sanchez hanno tenuto le posizioni. Hanno perso lo 0,7%, scendendo al 28% dei suffragi, passando da 123 a 120 seggi in un contesto che ha visto il “rimbalzo” dei Popolari di Pablo Casado sopra il 20%. A fare la differenza è stato l’arretramento di Podemos.
Il partito guidato dal leader Pablo Iglesias è sceso dal 14,3% al 12,9% dei consensi, avviando un trend di ridimensionamento che ne ha indebolito il potere contrattuale rispetto a Sanchez e al Psoe. Quasi dimezzato rispetto all’exploit elettorale del 2016, il partito di Sinistra radicale ha visto nella necessità di mediare la costituzione di un governo con Sanchez l’opportunità di incidere da posizioni di governo.
Sanchez ha dunque negoziato la formazione di un esecutivo di coalizione includente sia membri del Psoe che di Podemos e dei piccoli partiti ad esso alleati: dal Partito Comunista di Spagna al partito regionalista catalano En Comu, insediatosi ufficialmente il 7 gennaio 2020 con una maggioranza risicata: 167 voti a favore e 165 contrari in Parlamento. L’esecutivo fu il primo esplicitamente di coalizione e quello più spostato a Sinistra dalla fine del franchismo. Sanchez nominò esponenti di Podemos come lo stesso Iglesias, scelto come vice fino al 2021, e l’astro nascente Yolanda Diaz, del Partito Comunista di Spagna, nominata Ministro del Lavoro e dal 2021 vicepremier.
La nascita del governo è stata presto adombrata dall’esplosione della pandemia di Covid-19 poche settimane dopo il suo insediamento. Sanchez è stato il primo leader europeo, dopo l’italiano Giuseppe Conte, a far fronte alla marea montante dei contagi che hanno messo la sanità spagnola in ginocchio.
Il 14 marzo 2020, una settimana dopo Conte, Sanchez ha imposto il lockdown nazionale alla Spagna e imposto una stretta alla libertà di movimento nel Paese poi sfidata di fronte alla Corte Costituzionale dalla destra neo-franchista di Vox, che hanno ottenuto nel 2021 una vittoria legale. La politica di lockdown è stata dichiarata incostituzionale con una maggioranza di 6 voti a favore e 5 contro dalla Corte. Ma nel frattempo, ovviamente, era stata imposta con forza.
La svolta di Sanchez è stata, al contempo, legata a una battaglia in Europa al fianco di Conte, del presidente francese Emmanuel Macron e del leader conservatore greco Kyriakos Mitsotakis per evitare che Bruxelles utilizzasse durante la pandemia risposte economiche ispirate a soluzioni rigoriste e pro-austerità. Ha proposto un maxi-piano di Eurobond per rispondere alle conseguenze economiche della crisi pandemica e ha messo in campo, in ultima istanza, una mediazione decisiva per promuovere la nascita del fondo comune NextGeneration Eu.
Esaurita la fase più dura dell’emergenza pandemica, Sanchez ha imposto una netta virata a sinistra nella politica economica e sociale del suo governo. Parallela a un mantenimento dell’ortodossia filo-atlantista in politica estera concretizzatasi nel convinto sostegno all’Ucraina dopo l’invasione russa.
A fine 2021 Sanchez ha operato una manovra di potenziamento del prelievo degli extraprofitti delle società energetiche e avviato una svolta verso il taglio delle bollette alle fasce più povere della popolazione. La manovra, compiuta con la detassazione, è stata ampliata dopo la guerra russo-ucraina. L’Iva sulle bollette è così scesa dal 21 al 10% nel 2021, dal 10 al 5% nel 2022.
Madrid ha assieme al Portogallo di Antonio Costa promosso poi un tetto ai prezzi per il suo sistema di generazione elettrico da gas naturale, al fine di tutelare i consumatori. Inoltre sono state tagliate del 20% le accise sui carburanti, favorito un sussidio del 30% per i trasporti ferroviari e metropolitani ai redditi medio-bassi, estendibili al 50% dalle comunità locali, contro il caro-vita e il caro-energia.
Le imposte sono state modificate aprendo a 15 diversi scaglioni di reddito, mentre la riforma del lavoro messa in campo dalla Diaz nel 2022 è stata una delle più radicali della storia del Paese, riducendo notevolmente l’applicazione delle clausole per le assunzioni a tempo determinato. Esse sono state lasciate solo per le ragioni temporanee di produzione delle aziende, le sostituzioni di maternità e malattia e i lavori stagionali. I contratti a tempo indeterminato sono di conseguenza aumentati del 238% nel 2022, diventando oltre il 35% delle nuove assunzioni.
Le riforme hanno compattato la base a sinistra del partito. Ma hanno anche creato divisioni con la destra, i Popolari e Vox. Sanchez ha vinto più volte nei voti in Parlamento a Madrid, ma il Psoe dopo cinque anni di governo ha iniziato a perdere in periferia. Dopo un’ondata di sconfitte locali, nel maggio 2023 Sanchez si è dimesso in anticipo e ha convocato elezioni anticipate per luglio 2023. Un tentativo di tenere la barra dritta a Sinistra e mantenere la sua egemonia interna. Dando il tutto per tutto nel confronto con gli avversari politici che da tempo sognano di scalzarlo.