Ha 85 anni, i capelli bianchi e sempre il solito sguardo. Quello di un uomo pragmatico, abituato al compromesso e alla diplomazia, ma percepito anche come un capo politico controverso. Spesso ambiguo. Mahmoud Abbas è il presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, dell’Autorità nazionale palestinese e dello stato di Palestina. È ritenuto un protagonista quasi secondario della storia contemporanea araba in Medio Oriente, perché a lungo parzialmente offuscato dall’ingombrante personalità di Yasser Arafat, con cui ha condiviso anni di lotta, di battaglie e di scontri personali.
È stato uno dei fondatori di Al Fatah, la prima creatura politica di Arafat, e fin da giovanissimo ha intrecciato la sua storia personale (e familiare) con quella del suo Paese. Dagli anni Sessanta la politica è diventata parte integrante della sua vita: nel 1968 è entrato a far parte del Consiglio nazionale palestinese e nel 1981 è diventato membro dell’Olp. Ha avuto incarichi importanti ai colloqui di pace di Madrid nel 1991, ma soprattutto a quelli di Oslo nel 1993, in cui ha ricoperto il ruolo chiave di coordinatore. Guida l’Autorità nazionale palestinese dal 2005, ma ciò che più di ogni altra cosa ha caratterizzato il suo mandato politico è stato il profondo scisma tra al Fatah, in Cisgiordania, e Hamas, che detiene di fatto il controllo nella Striscia di Gaza. Pubblicamente contrario alla lotta armata (almeno negli ultimi anni) e impegnato a perseguire uno Stato palestinese indipendente attraverso negoziati e diplomazia, Abbas ha goduto di un forte sostegno da parte della comunità internazionale. Secondo quanto riportato dalla Bbc, sotto la sua guida, il denaro di Stati Uniti ed Europa sarebbe confluito in Cisgiordania per costituire forze di sicurezza utilizzate per reprimere l’attività militante e le infrastrutture politiche di Hamas. Tuttavia, soprattutto negli ultimi anni, i pochi progressi nei negoziati e la dura posizione del governo di Benjamin Netanyahu (eletto all’inizio del 2009) hanno indebolito la sua figura su più fronti (compreso quello palestinese). Percepito, spesso, come una specie di burattino e non abbastanza schierato per la causa del suo popolo, Abbas vive ancora sulla sua pelle tutte le fragilità della sua storia politica più recente.
Lo conoscono tutti anche con la kunya Abu Mazen che, nell’onomastica araba, è un titolo onorifico derivante dal nome di uno dei figli, di solito il primogenito, reso dal termine “abu”, che significa padre. La sua kunya vuol dire “padre di Mazen”, il primo dei suoi tre figli, che nel 2001, a soli 42 anni, morì di infarto a Doha, in Qatar.
Mahmoud Abbas nacque nel novembre del 1935 a Safed, una regione della Galilea che oggi fa parte di Israele. Durante il conflitto del 1948, la sua famiglia lasciò il Paese e fuggì in Siria. Prima del suo trasferimento in Egitto, come accadde a molti leader palestinesi, Abbas si laureò in legge all’università di Damasco. Una parte della sua formazione lo portò in Russia, dove a Mosca conseguì un titolo di dottorato di ricerca. Ufficialmente ha amato una sola donna, Amina Abbas, con cui si è sposato e con la quale ha avuto i suoi tre figli (Mazen, Yasser e Tareq). Nessuno dei suoi familiari ha raccolto la sua eredità politica, ma sei dei suoi otto nipoti fanno parte del “Seeds of Peace”, un’organizzazione fondata nel 1993, la cui missione è mettere a confronto giovani generazioni ed educatori provenienti da diverse aree di conflitto per coltivare rapporti pacifici. E se nessuno dei suoi figli, appunto, si è mai interessato ufficialmente alla politica palestinese, i loro nomi non sono affatto sconosciuti all’opinione pubblica.
I primi contatti con la politica vera (e clandestina), Abbas li ebbe a metà degli anni Cinquanta, quando si unì a un certo numero di palestinesi esiliati in Qatar, dove divenne direttore del personale nel servizio civile dell’emirato. Lì, nel 1961 venne reclutato per diventare un membro di Fatah, il movimento politico nato nel 1959 su iniziativa di Arafat, Khalil Wazir e Salah Khalaf. La nascita di Fatah, fin dall’inizio, servì a consolidare una forma di appartenenza tra palestinesi, soprattutto all’estero e Abbas risultava essere la persona giusta nel luogo giusto per gestire i reclutati nella nuova formazione. Gettando le prime basi di Fatah, Arafat aveva iniziato ad arruolare ricchi palestinesi residenti in Qatar, Kuwait e altri Stati del Golfo. Abu Mazen fu una pedina fondamentale per gli esordi del movimento politico: accompagnò Arafat in esilio in Giordania, poi in Libano e, infine, in Tunisia e seppe guadagnarsi il rispetto di tutti grazie a una vita semplice e umile. Nel 1972, l’attentato terroristico di Monaco a opera del gruppo Settembre Nero, che costò la vita a diversi atleti israeliani e un poliziotto tedesco, lo vide in qualche modo coinvolto. Secondo uno dei vertici di Fatah, Muhammad Dawud Awad, noto ai più come Abu Dawud, parte dei fondi raccolti da Abbas furono utilizzati, probabilmente a sua insaputa, per l’attuazione di quel massacro. La sua militanza comunque continuò e, nel 1977, Abu Mazen fu uno dei primi membri di Fatah a chiedere colloqui con un gruppo di israeliani moderati, sostenendo che l’azione avrebbe dato al movimento credibilità a livello internazionale. Nel 1981 entrò a far parte dell’Olp, dove svolse compiti più diplomatici, presentando un moderato contrasto con le politiche più “rivoluzionarie” e intransigenti del movimento. Forse anche per questo motivo, Abbas fu il primo ufficiale dell’Olp a visitare l’Arabia Saudita dopo la guerra del Golfo, nel gennaio del 1993, per riabilitare l’immagine dell’organizzazione palestinese, dopo che aveva sostenuto l’Iraq durante il periodo di conflitto. Ma uno dei tasselli più interessanti e “misteriosi” della vita dell’attuale leader palestinese riguarda il servizio (temporaneo) offerto al KGB negli anni Ottanta. Nel settembre 2016, come riportato in un articolo pubblicato sul New York Times, che cita un documento scoperto nell’archivio Mitrokhin, è emerso che dal 1985 Abu Mazen avrebbe lavorato per i servizi segreti sovietici, con il nome di agente “Krotov”. In seguito, infatti, alcuni funzionari palestinesi avrebbero confermato la collaborazione dell’Olp con Mosca. Per un certo periodo di tempo, Abbas rappresentò una sorta di tramite decisivo nei rapporti d’amicizia tra Palestina e Unione Sovietica.
Negli anni Novanta, nonostante la presenza di Arafat, Abbas riuscì a ritagliarsi un ruolo politico di primo piano, soprattutto in termini diplomatici. Nel 1995, infatti, Abu Mazen scrisse, insieme al negoziatore israeliano Yossi Beilin (all’epoca ministro dell’Economia), un documento chiamato “Beilin-Abu Mazen agreement”, una primissima bozza di un futuro accordo di pace tra Israele e Palestina. Si trattava, di fatto, di un progetto di accordo non ufficiale, che sarebbe dovuto servire da base per un futuro quanto ipotetico trattato tra le due parti. La proposta non fu mai formalmente adottata né dal governo israeliano, né dai movimenti palestinesi, i quali, attraverso la loro leadership, pubblicamente respinsero quel tentativo. Tra i funzionari dell’Olp ci fu anche chi negò l’esistenza della proposta che, seppur ufficiosa, aveva iniziato comunque a circolare. L’allora primo ministro israeliano, Yitzhak Rabin, non arrivò mai ad approvare o a bocciare quella proposta perché venne assassinato. Il nuovo presidente Shimon Perse e Arafat non accettarono mai completamente la validità del documento, ma sostennero di volerlo utilizzare per ulteriori negoziati e, magari, per un futuro accordo di pace. Abbas, nel tempo, negò di aver firmato un piano di quel tipo, anche se ha sempre confermato il colloquio e l’utilità di qualche passaggio del testo. Ma alla fine, il piano, ritenuto troppo lacunoso soprattutto nei confronti dei rifugiati, venne completamente rinnegato, nonostante alcune delle idee presentate furono ritenute spunti interessanti e buoni compromessi nella risoluzione di alcune questioni. Nell’accordo, Israele avrebbe dovuto acconsentire alla creazione di uno Stato palestinese sulla maggior parte del suolo della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. A loro volta, i palestinesi avrebbero dovuto rinunciare al diritto al ritorno e avrebbero dovuto incoraggiare, invece, i rifugiati a stabilirsi nel nuovo Stato di appartenenza. Gli israeliani rimasti all’interno dei confini della Palestina sarebbero stati soggetti alla sovranità e allo stato di diritto palestinesi, con l’offerta della cittadinanza o almeno il diritto alla residenza.

Un altro punto decisivo affrontato nell’accordo riguardava i confini municipali di Gerusalemme, che sarebbero stati ampliati per includere i vicini quartieri arabi come Abu Dis, così come gli insediamenti ebraici Ma ‘ale Adumim, Givat Ze’ev, Givon e le aree adiacenti. In quel modo, sarebbe stata garantita una maggioranza israeliana di due terzi nella città santa: i distretti, divisi in due, sarebbero andati sia alla sovranità israeliana, sia a quella palestinese. Nel programma, Gerusalemme sarebbe stata divisa in una parte ebraica, Yerushalayim, e i una parte palestinese, al-Quds. L’impegno, da entrambe le parti, avrebbe dovuto garantire la libertà di culto e l’accesso a tutti i siti santi per i membri di tutte le religioni, senza impedimenti o restrizioni. Nel 1997, Yossi Beilin concluse l’accordo “Beilin-Eitan”, che postulava che tutta Gerusalemme sarebbe rimasta sotto al sovranità israeliana e che l’entità palestinese non avrebbe mai potuto avere il suo centro esecutivo all’interno della città santa.
Nel 1996, Abbas assunse la carica di segretario generale del comitato esecutivo dell’Olp, ma la vera svolta di carriera arrivò nel 2003, quando venne nominato primo ministro, ruolo che, però, mantenne per poco tempo a causa dei frequenti contrasti con Arafat e con i gruppi più radicali, i quali lo consideravano troppo incline alla diplomazia. Ma Abu Mazen risultò, ancora una volta, l’uomo giusto al momento giusto: all’inizio del 2003, visto che Israele e Stati Uniti rifiutavano ogni negoziazione con Arafat, in molti trovarono in lui il candidato ideale per ricoprire una carica così importante. Essendo uno dei membri fondatori di Fatah, Abbas godeva anche di una certa credibilità tra i palestinesi, ma oltre a questo, la sua candidatura fu sostenuta dal fatto che altri leader non fossero adatti a esporsi a livello internazionale. La sua reputazione, invece, era intatta: pragmatico, poco incline allo scontro e votato alla diplomazia, Abu Mazen era la sintesi perfetta sia voleri occidentali, sia delle rivendicazioni palestinesi. Sotto una certa pressione internazionale, il 19 marzo 2003, Arafat lo nominò primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese. Fu da quel momento che tra i due leader si innescò una lotta per il potere sottotraccia, di cui tutti furono a conoscenza ma che in pochi, pubblicamente, avrebbero potuto certificare. Il mandato di Abu Mazen come primo ministro fu caratterizzato dai numerosi conflitti tra i due, soprattutto sulla distribuzione dei poteri. A lungo, americani e israeliani accusarono il padre della causa palestinese di aver indebolito il governo di Abu Mazen, il quale infatti lasciò intendere (più volte) l’intenzione di dimettersi se non avesse avuto un maggior controllo sull’amministrazione.

Ma il problema, per Abbas, non fu soltanto Arafat, ma le spaccature interne e i conflitti con l’ala più combattente del movimento palestinese, in particolare con il Jihad islamico palestinese e Hamas, gruppi che consideravano il suo approccio non sufficientemente rigoroso. Abbas finì per rassegnare le dimissioni da primo ministro nel settembre dello stesso anno, citando tra le cause della sua decisione una mancanza di sostegno da parte di chi, di fatto, avrebbe dovuto appoggiarlo.
Dopo la morte di Arafat, con il quale ebbe un rapporto forte e complicato, Abbas venne comunque percepito come il suo unico successore. Il 25 novembre 2004, il nome di Abu Mazen fu approvato dal consiglio rivoluzionario di Fatah come candidato ideale per le elezioni presidenziali previste per il 9 maggio del 2005. Il 14 dicembre, Abbas chiese ufficialmente la fine della violenza provocata dalla seconda intifada e, soprattutto, un ritorno a una resistenza pacifica. In quell’occasione, al quotidiano Asharq al-Awsat dichiarò che l’uso delle armi era stato dannoso, auspicandone la fine. Tuttavia, nel periodo successivo non riuscì a disarmare completamente i militanti palestinesi meglio equipaggiati, né fu in grado di utilizzare la forza contro i gruppi indicati dal governo israeliano come organizzazioni terroristiche. Con “l’aiuto” di Israele che, di fatto, impedì nuove candidature, l’annunciato boicottaggio delle elezioni da parte di Hamas e una campagna elettorale che riuscì a coprire gran parte dei palinsesti televisivi, l’elezione di Abbas sembrò garantita e il 9 gennaio 2005 venne eletto presidente dell’Autorità nazionale palestinese con il 62% delle preferenze. Nel suo primo discorso pubblico presidenziale, rivolgendosi ai suoi sostenitori, Abu Mazen disse di voler dedicare la sua vittoria “all’anima di Yasser Arafat”, presentando il successo elettorale al suo popolo, ai suoi martiri e agli allora 11mila prigionieri palestinesi, invitando ancora la popolazione una volta a una resistenza senza armi. Prestò formalmente giuramento a Ramallah, in Cisgiordania, il 15 gennaio 2005. Nonostante la scadenza del mandato fosse nel 2009, Abu Mazen è rimasto in carica perché ha prorogato unilateralmente la durata del suo mandato fino al 15 gennaio 2010, in base a una clausola costituzionale. Da quel momento, Abbas è il leader per le Nazioni Unite e da chiunque riconosca l’indipendenza palestinese.
Nonostante le sue formali e continue richieste di una soluzione pacifica del conflitto arabo-israeliano, anche dopo la sua elezione, gli attacchi dei gruppi militanti palestinesi hanno proseguito a ondate di diversa intensità. Il 12 gennaio 2005, alcuni membri del Jihad islamico palestinese risultarono i responsabili di un raid lanciato a Gaza, che uccise un militare israeliano e ne ferì altri tre. Il giorno seguente, i militanti delle brigate dei martiri di al-Aqsa, di Hamas e dei comitati di resistenza popolare lanciarono un attacco suicida al valico di Karni, che uccise sei israeliani. A quel punto, almeno formalmente, Israele decise di interrompere le sue relazioni con Abbas e con l’Autorità nazionale palestinese, affermando che il suo presidente avrebbe dovuto dimostrare tutta la sua volontà pacifica tentando di fermare i continui attacchi. L’8 febbraio 2005, Abu Mazen incontrò l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon al vertice di Sharm el-Sheikh per porre fine alla seconda intifada. In Egitto, entrambi ribadirono il loro impegno a favore di un percorso di pace: Sharon accettò di liberare 900 prigionieri palestinesi degli allora 7.500 detenuti nelle celle dello Stato e di ritirarsi dalle città della Cisgiordania.
Nell’agosto del 2005, Abu Mazen annunciò le elezioni legislative per il gennaio 2006 che, nonostante alcuni disordini a Gaza, alla fine si tennero, portando a una decisiva vittoria il partito più radicale di Hamas. In quella circostanza, dopo il risultato disastroso di Fatah, Abbas dichiarò che non sarebbe tornato in carica. Ma a seguito delle sanzioni internazionali contro un governo a maggioranza Hamas, del continuo conflitto tra i due partiti (Hamas e Fatah) e della divisione del Paese che rese impossibile un nuovo appuntamento elettorale, Abbas continuò a ricoprire la carica di presidente anche dopo la scadenza del suo mandato di quattro anni, prolungandolo di un altro anno e utilizzando un’interpretazione della legge elettorale in modo da poter allineare le elezioni presidenziali e parlamentari. Ma Hamas, indicando la costituzione palestinese, contestò la validità delle sue azioni, visto che il suo mandato era terminato. In ogni caso, il periodo più complicato per Abbas e Hamas fu nel 2006. Il 25 maggio di quell’anno, Abbas diede ad Hamas un termine di dieci giorni per accettare il cessate il fuoco e interrompere il conflitto in corso. Il 2 giugno, il leader annunciò nuovamente che se il partito più radicale non avesse approvato il documento dei prigionieri (che richiedeva una soluzione a due Stati al conflitto arabo-israeliano secondo i confini del 1967) entro i due giorni seguenti avrebbe presentato l’iniziativa come referendum. Ne seguì un altro screzio (anche costituzionale) tra i leader di Hamas e il presidente. Il 16 dicembre del 2006, Abbas chiese nuove elezioni legislative per porre fine allo stallo parlamentare tra Fatah e Hamas nella formazione di un governo nazionale di coalizione, che in effetti si formò il 17 marzo del 2007, con Ismail Haniyeh come primo ministro e politici indipendenti a ricoprire ministeri chiave. Il 14 giugno 2007, Abu Mazen sciolse l’esecutivo, dichiarò lo stato d’emergenza e nominò al posto di Haniyeh Salam Fayyad. La nomina fu contestata e dichiarata illegale, perché in base alla legge fondamentale palestinese il presidente può licenziare un primo ministro in carica, ma non può nominare un sostituto senza l’approvazione del Consiglio legislativo palestinese. Secondo la norma, infatti, fino a quando non viene nominato un nuovo primo ministro, il premier uscente dirige un governo di transizione. L’investitura politica di Fayyad non fu mai presentata prima o approvata dal consiglio legislativo e per questo motivo, Haniyeh, premier di Hamas, continuò a operare a Gaza, essendo riconosciuto come figura legittima. Tuttavia, sotto Abbas e Fayyad, l’economia della Cisgiordania mostrò evidenti segni di miglioramento, mentre Gaza continuò a soffrire a causa del paralizzante blocco israelo-egiziano, volto a indebolire Hamas. Nel novembre del 2008, l’Olp lo elesse a “presidente di un futuro stato palestinese”, il che contribuì ad allargare le spaccature politiche fra i vari gruppi.

Il 16 dicembre 2009, la guida del consiglio centrale palestinese annunciò un’estensione indefinita del suo mandato come presidente e da allora è rimasto a capo delle aree controllate da Fatah nei territori palestinesi. Nell’aprile del 2014, Hamas ha ritirato l’obiezione nei suoi confronti, con l’intento di formare un governo con il suo partito. Il 29 novembre 2016, Abbas è stato rieletto per acclamazione presidente di Fatah dalla conferenza dell’organizzazione.
Il 23 gennaio 2006, attraverso un comunicato, la radio israeliana riferì che Abu Mazen aveva assicurato un cessate il fuoco di 30 giorni da parte di Hamas e del Jihad islamico. Ma il 12 febbraio, un gruppo di palestinesi attaccò alcuni insediamenti israeliani. Abbas licenziò alcuni dei suoi ufficiali di sicurezza per non essere stati capaci di sventare le operazioni. Il 9 aprile 2006, Abbas affermò che l’assassinio di tre adolescenti palestinesi, uccisi a colpi d’arma da fuoco dalle truppe israeliane a Rafah, a sud di Gaza, rappresentava una violazione deliberata dell’accordo di cessate il fuoco. Abu Mazen scrisse che quell’azione era stata fatta apposta e inviò il messaggio ai giornalisti della capitale della Cisgiordania. Di tutta risposta, Israele affermò di aver agito pensando che i ragazzi stessero tentando di contrabbandare armi, mentre la versione palestinese individuava nelle tre persone uccise semplicemente dei ragazzini che stavano giocando a calcio tra di loro, il cui unico errore fu quello di voler andare a recuperare la palla vicino alla linea di confine. Il 25 luglio 2006, Abu Mazen annunciò di voler trasferire il suo ufficio a Gaza fino al completo ritiro delle truppe israeliane, con l’obiettivo di coordinare la parte palestinese del ritiro e mediando, ancora una volta, tra le due parti. Efraim Sneh, un ex ministro israeliano, definì Abu Mazen “il partner più coraggioso” che Israele abbia mai avuto. Ne seguirono però promesse non mantenute, accordi continuamente modificati e rapporti di fiducia a metà tra i vertici. Secondo un rapporto dell’International Crisis Group, pubblicato nell’agosto del 2015 la maggior parte dei funzionari israeliani non ha mai percepito Abu Mazen “come un partner di pace, ma lo considera un bene strategico che non costituisce una minaccia”.
Nella storia recente palestinese, le accuse di corruzione nei confronti dei funzionari dell’Autorità nazionale palestinese, incluso Abu Mazen, sono state tante. Il sospetto è che molti dei leader abbiano sottratto sistematicamente fondi pubblici, pilotando gare d’appalto e prendendo denaro pubblico. Arafat, per esempio, fu accusato di appropriazione indebita di miliardi di dollari e molti analisti ritengono che la percezione di una classe dirigente corrotta abbia spinto parte della popolazione ad affidarsi ad Hamas, dandogli la vittoria elettorale nel gennaio del 2006, piuttosto che a Fatah. I leader del partito più moderato sono stati accusati di aver sottratto denaro dai bilanci del ministero, distribuito lavori di patrocinio, accettato favori e “regali” da fornitori e personaggi ambigui. Chi accusò direttamente Abu Mazen fu Mohammed Rashid, uno dei fedelissimi di Arafat, che minacciò di rendere pubblici i più vergognosi episodi di corruzione di cui si sarebbe macchiata l’Autorità nazionale palestinese. Secondo quanto ricostruito da Rashid, il patrimonio netto di Abbas contava 100 milioni di dollari americani, netti. Come riportato dal quotidiano Haretz, il 10 luglio 2012, Abu Mazen e i suoi due figli vennero accusati di alcuni episodi di corruzione. Il dibattito al Congresso americano che analizzava la questione, dal titolo “Chronic Kleptocracy: corruption within the palestinian political establishment”, esaminava e denunciava il sistema viziato della struttura interna della politica palestinese. Già nel 2009, però, i beni e le ricchezze dei fratelli Yasser e Tareq Abbas furono oggetto di un’inchiesta a firma di Jonatha Schanzer, pubblicata su Foreign Policy, che legò la fortuna dei figli di Abu Mazen a diversi giri di affari (a parere del giornalista) non del tutto chiari. Schanzer illustrò i quattro modi utilizzati dalla famiglia di Abu Mazen per arricchirsi. Il lignaggio dei figli di Abbas risultò, secondo Shanzer, la principale credenziale per fare in modo di ricevere determinati contratti. Nel settembre del 2012, però, Yasser Abbas, fece causa al cronista per diffamazione, accusandolo di non averlo mai contattato prima e di aver agito con malizia. Tuttavia, nell’ambito della fuga di dati relativa ai Panama Papers del 2016, sarebbe stato rivelato che Tareq Abbas deteneva un milione di dollari in azioni di una società offshore associata all’Autorità nazionale palestinese.
Nonostante in Palestina venga spesso identificato come un “burattino” d’Israele, in gioventù, Abu Mazen è stato accusato più di una volta di sminuire i numeri della Shoah. Come riporta la Bbc, tutto partì dal titolo della sua tesi di dottorato in storia, presso il Collegio Orientale di Mosca, nel 1982, “The Other Side: the Secret Relationship Between Nazism and Sionism”, ritenuta un’opera di negazione dell’olocausto. La tesi, pubblicata nel 1984 in arabo ad Amman in Giordania, è stata critica da diverse organizzazioni ebraiche, che hanno accusato il suo autore di aver minimizzato il numero di vittime e di aver scritto che gli ebrei collaborarono con il regime di Adolf Hitler. Ma in un’intervista al quotidiano Haaretz, pubblicata nel maggio del 2003, Abbas negò ha le accuse e disse di aver citato “una discussione tra storici” in cui venivano menzionati due diversi numeri di vittime. “Non ho alcun desiderio di discutere con le cifre. L’olocausto è stato un crimine terribile e imperdonabile contro la nazione ebraica, un crimine contro l’umanità che non può essere accettato da qualsiasi essere umano. È stata una cosa terribile e nessuno può metterla in discussione o negarla”, concluse il presidente. Nel 2014, Abbas tornò sul tema, durante la celebrazione israeliana dello Yom Ha Shoah, dichiarando che “lo sterminio degli ebrei durante l’Olocausto è il più odioso crimine contro l’umanità avvenuto nell’era moderna” e che era giusto “combattere il razzismo”. Quella fu la prima volta in cui un leader arabo e palestinese, in pubblico, scelse di utilizzare parole così importanti rivolgendosi alla comunità ebraica.
Fino alla morte di Arafat, Abbas è stato percepito come un capo di secondo piano, schiacciato dalla personalità e dallo spessore politico del defunto capo palestinese. Tuttavia, questo non gli ha impedito di creare una rete di contatti molto potenti, che includeva capi di Stato arabi e vertici dei servizi segreti di diversi Paesi del mondo. Il che gli ha permesso di farsi promotore di una raccolta fondi di successo per l’Olp e di assumere un ruolo di sicurezza determinante nei primi anni Settanta, poco prima di essere nominato capo del dipartimento dell’organizzazione per le relazioni nazionali e internazionali.

Da sempre considerato un uomo pragmatico, fu anche uno dei principali alfieri del dialogo con i movimenti ebraici di sinistra e pacifisti. Considerato uno degli ideatori del processo di pace di Oslo, accompagnò Arafat alla Casa Bianca nel 1993 per firmare l’importante documento. La sua leadership dopo la morte del celebre capo palestinese ebbe lo scopo di aprire una nuova fase nei rapporti tra arabi e israeliani, ma la lotta fra Hamas e Israele rese più complessa la riuscita del suo progetto.