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Chi è Benjamin Netanyahu

Benjamin Netanyahu è il primo ministro israeliano più longevo nella storia dello Stato ebraico. Il primo mandato lo ottiene nel 1996, diventando così il primo premier eletto in maniera diretta. La seconda esperienza al governo inizia invece nel 2009 e dura per un decennio intero. Netanyahu è uno storico esponente del Likud, il principale partito del centrodestra israeliano.

 

Benjamin Netanyahu nasce a Tel Aviv il 21 ottobre del 1949. Le sue origini sono da ricercare nell’Europa orientale: suo padre si chiama infatti Benzion Mileikowski ed è originario di Varsavia, mentre il nome in ebraico della madre è Tzila Segal, di origini polacche e bielorusse. La famiglia di Netanyahu è benestante: suo padre è un professore di storia molto rinomato ed è figlio di un rabbino che negli anni Venti decide di stabilirsi in Palestina.

Una volta giunto in Medio Oriente, il nonno del futuro premier israeliano decide di cambiare il nome della famiglia che dunque inizia ad essere chiamata non più Mileikowski, ma Netanyahu. Benzion, a differenza del padre, è laico e non rabbino ma propaganda le stesse idee in voga nella sua famiglia, ossia quelle relative alla visione sionista della causa ebraica.

Benzion Netanyahu sposa Tzila Seigal nel 1944, nel 1946 nasce il loro primo figlio Yonatan, mentre nel 1949 nasce Benjamin Netanyahu. Pochi anni dopo la famiglia va a vivere negli Stati Uniti: il padre del futuro premier infatti ottiene una cattedra a Philadelphia, città dove Benjamin trascorre buona parte della sua adolescenza. Proprio qui Netanyahu ottiene il diploma presso la Cheltenham High School.

In questo primo periodo americano, il futuro primo ministro inizia a frequentare gruppi di dibattito e a distinguersi per la propria capacità oratoria. Netanyahu torna in Israele nel 1967, per prestare il servizio militare tra le forze armate.

Quando Benjamin torna nello Stato ebraico, la Guerra dei sei giorni è finita da poco. Ma la pace in Medio Oriente è ancora lontana: in quei mesi prende piede un conflitto a bassa intensità denominato “Guerra d’attrito” tra Israele ed Egitto.

Netanyahu inizia la sua fase di addestramento all’interno delle Idf, le Forze di difesa israeliane, proprio mentre il Paese fronteggia gli attriti con le forze armate del Cairo. Ben presto viene ammesso all’interno di una unità d’élite dell’Idf e partecipa a diverse incursioni nell’ambito della “Guerra d’attrito”. Viene coinvolto nella cosiddetta “Operazione Inferno” del 1968, così come nel salvataggio del volo Sabena 571. In questa occasione viene ferito ad una spalla mentre guida la sua unità.

Terminati i cinque anni di servizio militare, Netanyahu torna negli Stati Uniti e si iscrive presso il Mit di Boston per studiare architettura. Lascia temporaneamente gli studi nel 1973 per tornare in Israele e combattere nella guerra dello Yom Kippur, dove partecipa a diverse incursioni durante i giorni del conflitto.

Tornato negli Usa, si laurea in architettura nel 1976. In quell’anno Netanyahu vive uno dei più gravi traumi della sua vita: nella notte tra il 3 ed il 4 luglio di quell’anno, un commando speciale israeliano irrompe all’interno di un aereo dirottato di Air France e fatto atterrare nell’aeroporto ugandese di Entebbe. A guidare quel commando c’è Yonatan Netanyahu, fratello maggiore di Benjamin: l’operazione ha successo, ma c’è una vittima tra i soldati israeliani e si tratta proprio del fratello del futuro premier. Si tratta di uno degli episodi che maggiormente segna la vita di Netanyahu.

Nel decennio successivo Bibi vive tra Gerusalemme e gli Stati Uniti. Nel 1982 diventa collaboratore dell’allora ministro Moshe Arens, che lo manda oltreoceano in veste di vice capo missione dell’ambasciata israeliana a Washington. Dal 1984 al 1988, invece, Netanyahu è rappresentante di Israele presso le Nazioni Unite. In questo periodo è molto intensa, sotto il profilo del pensiero politico, l’influenza del rabbino conservatore Menachem M. Schneerson. Sempre durante il periodo newyorkese, Netanyahu conosce Fred Trump, padre di Donald Trump e dunque del futuro presidente degli Stati Uniti. I due diventano molto amici.

Netanyahu ritorna in Israele nel 1988 e si iscrive al partito di centrodestra Likud: visto il ruolo ricoperto negli Stati Uniti, diventa subito uno degli esponenti più ascoltati dai dirigenti della formazione politica israeliana. Ma il suo ingresso in politica diventa ancora più di peso quando, proprio in occasione delle elezioni legislative del 1988, è il quinto in assoluto più votato nella lista del Likud.

Diventato quindi parlamentare, Netanyahu inizia la sua scalata politica. Nel 1991 diventa molto famoso negli Usa e nel contesto internazionale durante la Prima guerra del Golfo: grazie al suo inglese fluente è tra i più intervistati dalla Cnn e dagli altri grandi network quando, in relazione agli eventi bellici, si cerca di conoscere le posizioni del governo israeliano.

Per Netanyahu si tratta di un importante periodo anche sotto il profilo privato: proprio nel 1991 infatti si sposa con Sarah Ben-Artzi, psicologa di origini polacche nata ad Haifa. I due avranno due figli: Yair ed Avner.

Nel 1993 Netanyahu si candida alle primarie del Likud: a sorpresa batte il favorito Benny Begin, figlio dell’ex primo ministro e rappresentante di una delle dinastie politiche più importanti di Israele. A quel punto Bibi diventa finalmente presidente del Likud.

Sono anni molto particolari quelli che si vivono in Medio Oriente mentre Netanyahu diventa presidente del Likud. Gli accordi di Oslo prima, osteggiati dal partito del futuro premier, la nascita dell’Autorità nazionale palestinese, la stretta di mano tra governo di Tel Aviv ed Arafat, per poi passare ai tragici momenti relativi all’uccisione del premer laburista Yitzhak Rabin avvenuta nel 1995.

Proprio per via di tale avvenimento, in Israele si convocano elezioni anticipate che prevedono l’elezione diretta del premier per la prima volta dalla nascita dello Stato ebraico. Shimon Peres, vice di Rabin, prende provvisoriamente il posto del premier assassinato. Proprio in quei mesi Israele è attraversato da una lunga e funesta scia di attentati terroristici. Sono decine i civili che rimangono uccisi, una situazione che lede la popolarità di Peres a favore di Netanyahu.

Ed il leader del Likud in campagna elettorale promette “una pace sicura”: è questo lo slogan portato avanti da Netanyahu, con il quale da un lato si promette la prosecuzione del dialogo con l’Anp, dall’altro però una forte intransigenza contro ogni movimento terroristico, anche a costo di usare la forza. Netanyahu vince le elezioni del 1996 e diventa primo ministro, formando una maggioranza di centrodestra. Con la sua elezione, il nuovo premier è protagonista anche di due record: da un lato è il più giovane capo di governo di Israele, dall’altro è il primo leader di un esecutivo nato dopo la fondazione dello Stato ebraico.

Ma i primi anni da premier non sono affatto semplici: Netanyahu deve far fronte a critiche da sinistra per le liberalizzazioni avviate in economia, con tanto di vendita di azioni ed aziende dello Stato ai privati, così come da destra per le trattative con Yasser Arafat e l’accordo trovato su Hebron, città da sempre considerata importante per i coloni israeliani.

Netanyahu inoltre in ben due occasioni viene accusato di corruzione, anche se poi le incriminazioni non vengono confermate. Il clima però che si crea attorno alla sua maggioranza è sempre più negativo e porta a nuove elezioni anticipate. Nel maggio del 1999 Netanyahu perde le elezioni contro Ehud Barak, numero uno dei laburisti. Diventa lui il nuovo premier, con Netanyahu che rinuncia al ruolo di capo dell’opposizione ed annuncia il ritiro dalla politica. Dopo la caduta del suo governo, Netanyahu diventa consulente senior della società di telecomunicazione Batm Advanced Communications.

Ma per Netanyahu non si tratta di un addio alla politica. Al contrario, l’oramai ex premier ritorna sulla scena mediatica alla fine del 2000: in quel periodo monta la Seconda intifada palestinese, il Paese è scosso da numerosi attentati terroristici, il governo di Barak non regge e ci si avvia ad elezioni anticipate anche se soltanto per il primo ministro e non per il parlamento.

Alla fine di quell’anno Netanyahu è di nuovo intervistato da diverse televisioni, non nascondendo la propria volontà di volersi candidare. Tuttavia il Likud punta già su Ariel Sharon, il quale nel 2001 batte Barak e diventa nuovo primo ministro. L’anno successivo il neo premier vuole però il rientro di Netanyahu al governo, nominando il rivale interno al Likud come nuovo ministro degli Esteri.

Nel 2003, a seguito di altre elezioni anticipate vinte nuovamente da Sharon, Netanyahu è di nuovo ministro ma questa volta prende la delega alle finanze. Da questa posizione, acquista nuovamente una certa popolarità: Netanyahu porta avanti infatti un programma di riduzione delle tasse e di investimenti stranieri, al pari di un rinnovato piano di liberalizzazioni. Questo aspetto attrae molte critiche da sinistra, mentre all’interno del Likud Netanyahu diventa nuovamente uomo immagine del partito.

Ma nell’agosto del 2005 la situazione cambia nuovamente. Il premier Sharon avvia la fase di ritiro definitivo dalla Striscia di Gaza e di evacuazione delle colonie israeliane. Contro questo progetto è la parte più a destra del Likud, capeggiata da Netanyahu. Quest’ultimo si dimette da ministro e promette battaglia all’interno del partito. Da parte sua Ariel Sharon decide di fondare una nuova formazione, che accoglie i più moderati del Likud e quelli del Partito laburista.

A questo punto il Likud decide di organizzare le primarie per la scelta del nuovo leader: nel dicembre del 2005, a distanza di sei anni, Netanyahu torna ad essere presidente del partito.

Proprio nel dicembre del 2005 un malore costringe al coma Sharon: il suo posto, sia come primo ministro che come leader di Kadima, viene preso dal vice Ehud Olmert. Si va quindi ad elezioni anticipate nel 2006: Kadima è il primo partito ed Olmert forma un governo con i Laburisti. Il Likud va incontro ad uno dei risultati più bassi della sua storia, ottenendo soltanto il 9% dei consensi.

Tuttavia Netanyahu rimane in sella al partito e guida l’opposizione ad Olmert. Tra il dicembre del 2008 ed il gennaio del 2009, il governo Olmert fa scattare l’operazione “Piombo Fuso” all’interno della striscia di Gaza. Per giorni vengono bombardati obiettivi di Hamas all’interno della striscia, i raid causano però decine di vittime tra i civili. La gestione del conflitto non viene reputata all’altezza da molti israeliani, al pari di quanto accaduto nel 2006 con la guerra contro Hezbollah nel sud del Libano. Sono elementi questi che portano nuovamente in quota il Likud.

Nelle elezioni anticipate del marzo del 2009, il partito di centrodestra israeliano ottiene il secondo posto, con soltanto un seggio in meno rispetto a Kadima. Tzipi Lvini, nuovo leader di questa formazione, ottiene l’incarico di formare il governo ma non riesce a mettere assieme una coalizione. Netanyahu, in qualità di leader del secondo partito con più voti, ottiene un mandato esplorativo per il nuovo esecutivo. Riesce a convincere sia Yisrael Beiteinu che il Partito Laburista ad entrare in una vasta coalizione, in questomodo a distanza di dieci anni Netanyahu è nuovamente primo ministro.

Dieci anni fa inizia dunque la più lunga esperienza di governo di Netanyahu, così come della storia israeliana: mai infatti un premier rimane al timone dell’esecutivo così a lungo come l’attuale leader del Likud.

Netanhyahu infatti ottiene la maggioranza relativa sia nelle elezioni del 2013, che in quelle del 2015: in tutte le occasioni, riesce a dar vita ad una coalizione di centrodestra, inglobando sia la destra secolare che quella religiosa. Tuttavia la popolarità del premier non è sempre ai massimi livelli. Da un lato il dialogo con i palestinesi scontenta sia a destra che a sinistra: nel primo caso perché Netanyahu vuol riconoscere il diritto all’esistenza di uno Stato palestinese, elemento che non corrisponde alle ideologie della destra israeliana, ma al tempo stesso senza permettere alla futura nazione di araba di possedere un esercito. E da sinistra questa proposta viene vista come velleitaria ed impresentabile.

Su Netanyahu pesano anche altre accuse di corruzione, una delle quali lo porta all’incriminazione da parte degli inquirenti con il processo che dovrebbe iniziare nel prossimo mese di ottobre.

Netanyahu sposta il Likud sempre più a destra, nel tentativo di solidificare l’alleanza con i partiti sia secolari che religiosi i quali assumono sempre più influenza all’interno del contesto politico israeliano. A livello internazionale, riceve una spinta molto importante alla sua linea dal nuovo presidente Usa Donald Trump, a cui lo lega un rapporti di amicizia di lunga data. Con Trump alla Casa Bianca, a partire dal 2017, Netanyahu riesce a far passare le istanze israeliane e vede riconosciuto dagli Usa lo status di Gerusalemme quale capitale di Israele e le annessioni delle alture del Golan. A livello interno, lo slittamento a destra del governo di Netanyahu lo si evince anche dall’approvazione di una legge che fa di Israele uno Stato solo ebraico. Una norma contestata da più parti, sia sul versante israeliano che quello arabo e palestinese.

Nell’aprile del 2019 Netanyahu vince le nuove elezioni, ma non riesce a formare un governo. In compenso, fa passare alla Knesset una legge di autoscioglimento del parlamento israeliano, con nuove consultazioni fissate per il 17 settembre. Anche in quel caso però non emerge una chiara maggioranza, con il partito del rivale Gantz avanti di pochi punti percentuali. Solo dopo le consultazioni del marzo 2020 il quadro politico diventa più chiaro: Netanyahu e Gantz a giugno si accordano per un governo definito di “emergenza”, in cui è stata decisa una staffetta. Netanyahu ne assume la guida, in attesa di passare il testimone a Gantz.

L’esecutivo Netanyahu – Gantz attraversa tutte le più delicate fasi della pandemia da coronavirus, esplosa in Cina nel gennaio 2020 e che in Israele fa sentire i suoi effetti dalla primavera di quell’anno. Il governo guidato dal leader del Likud nel dicembre 2020 si mostra tra i più reattivi a livello internazionale nel procedere con le vaccinazioni. Vengono acquistate milioni di dosi soprattutto dagli Usa e dalla Gran Bretagna e nel febbraio 2021 buona parte della popolazione risulta già immunizzata. Una circostanza che permette a Netanyahu di togliere le rigide norme sul distanziamento sociale decretate per combattere l’epidemia. A metà marzo Israele è il primo Paese a dichiarare finita l’emergenza. Pochi mesi dopo dall’annuncio però, il Paese è di nuovo al voto.

L’asse Netanyahu – Gantz dura solo pochi mesi ed entrambi decidono di andare nuovamente ad elezioni anticipate. Complice il successo della campagna di vaccinazione, il Likud è di nuovo il primo partito. Ancora una volta però non riesce ad avere una chiara maggioranza. Mentre sono in corso le trattative per il nuovo esecutivo, a maggio scoppia una nuova grave crisi militare. Dalle proteste partite da Gerusalemme ad opera di alcuni palestinesi contro l’esproprio di abitazioni in un quartiere a maggioranza araba, si arriva ben presto a un’escalation che vede protagonista soprattutto la Striscia di Gaza. Da qui vengono sparati migliaia di razzi da parte del movimento Hamas, alcuni dei quali mettono in difficoltà il sistema Iron Dome, lo scudo di sicurezza sulle città israeliane. La crisi termina con un accordo di cessate il fuoco decretato il 21 maggio.

La crisi pandemica e quella militare sembrano in un primo momento rafforzare Netanyahu. In realtà le trattative per il nuovo governo si interrompono e gli oppositori trovano i numeri per un diverso esecutivo. La destra di Yamina con i centristi guidati da Lapid e Gantz, assieme ad altre formazioni di sinistra e con l’appoggio per la prima volta di un partito arabo, trovano un accordo. Il 13 giugno Naftali Bennett, leader di Yamina, viene nominato primo ministro. Finisce così dopo 12 anni la seconda era Netanyahu.

La nuova coalizione però ha vita breve. Dopo appena un anno, si apre una nuova crisi di governo. Il premier Bennett non riesce a tenere salda la maggioranza, dilaniata da confronti interni che coinvolgo lo stesso partito del capo dell’esecutivo. Si arriva così, alla vigilia dell’estate, alle dimissioni di Bennett. Quest’ultimo lascia il timone al vice Yair Lapid, ma solo per l’ordinaria amministrazione. La Knesset infatti vota per lo scioglimento anticipato e la fine prematura della legislatura.

Vengono così fissate nuove elezioni per il primo novembre. Netanyahu, da leader del Likud, punta a un nuovo incarico. Il suo partito è infatti in testa nei sondaggi ed è accreditato della possibilità di avere la maggioranza relativa dei seggi. Per comporre la restante parte della coalizione, Netanyahu punta sui partiti religiosi dello Shas e di Giudaismo Unito nella Torah. Ma soprattutto, punto sulla destra religiosa e nazionalista del Sionismo Religioso. Si tratta di una lista capeggiata da Bezalel Smotrich e da Itamar Ben Gvir. Quest’ultimo è leader di Potere Ebraico ed è accusato di tenere posizioni estremiste, soprattutto nei confronti della popolazione araba. Su di lui pesa anche una simpatia giovanile per il movimento Kach, messo al bando negli anni ’90 dalla giustizia israeliana proprio per le sue posizioni definite razziste e oltranziste.

L’alleanza non suscita simpatie all’estero, nemmeno tra gli storici alleati di Israele. Più di una voce, ufficiosa e non ufficiale, nei mesi precedenti le elezioni si leva da Washington per minacciare di boicottare quei ministeri eventualmente dati in carico a Ben Gvir. Tuttavia, nel voto del primo novembre la nuova coalizione messa assieme da Netanyahu vince e riesce ad avere in totale una maggioranza di 65 deputati su 120.

Dopo due mesi di intense trattative, dove il leader del Likud più volte rischia di non arrivare in tempo a presentare la lista del nuovo governo, alla fine Netanyahu riceve l’incarico e torna a guidare Israele. Il percorso per il suo esecutivo è però in salita. Il 3 gennaio Ben Gvir, nominato ministro della Pubblica Sicurezza, organizza una passeggiata all’interno della Spianata delle Moschee a Gerusalemme. Un atto visto come una provocazione dalla popolazione palestinese. Basti pensare che un gesto simile compiuto da Ariel Sharon nel 2000 ha costituito l’innesco per la seconda Intifada.

Pochi giorni dopo un’irruzione dell’esercito a Jenin comporta la morte di almeno 10 palestinesi. Il giorno dopo, come riposta, un attentatore uccide davanti una sinagoga 9 cittadini israeliani a Gerusalemme Est. La tensione da allora torna a essere molto alta sia in Cisgiordania che a Gaza. Nel frattempo, Netanyahu è sotto pressione dagli Usa che chiedono di fermare un nuovo piano di espansione delle colonie in Cisgiordania come risposta agli attentati. Non solo, ma il rientrante premier israeliano deve anche affrontare la grana relativa alla guerra in Ucraina, scoppiata un anno prima. Israele con Bennett assume una posizione neutrale e si limita a inviare a Kiev elmetti e scudi militari. Washington chiede di più, ma anche Netanyahu prosegue con la linea della neutralità anche se il suo ministro degli Esteri, Eli Cohen, a Kiev.

I primi mesi del nuovo governo Netanyahu appaiono turbolenti anche sul fronte interno. Il premier approva nel mese di gennaio 2023 una riforma della giustizia in cui, tra le altre cose, viene assegnato al governo un maggior potere nella nomina dei giudici della Corte suprema. Non solo, ma la nuova normativa assegna al parlamento il potere di ribaltare con una maggioranza del 50%+1 dei voti dei deputati le sentenze della Corte. Manovre che a una larga fetta dell’opinione pubblica appaiono come lesive per la democrazia.

Iniziano quindi a febbraio importanti manifestazioni di piazza. A Tel Aviv, così come a Gerusalemme e in tutte le principali città del Paese, in migliaia scendono per strada per protestare contro la riforma di Netanyahu. Quest’ultimo, forte della compattezza della maggioranza, in un primo momento tira dritto. La svolta arriva però il 27 marzo. In quella notte, il premier licenzia il titolare della Difesa, Yoav Gallant. Il ministro poche ore prima esprime considerazioni contrarie alla riforma. Ma la piazza si accende e scoppiano manifestazioni in sua difesa. 

Le proteste appaiono molto importanti, anche perché sono seguite dall’appello del presidente della Repubblica, Isaac Herzog, a ritirare la norma. Inoltre vengono annunciati scioperi e barricate. Israele quindi rischia di spaccarsi. E davanti a questa eventualità, Netanyahu cede e ritira il testo. Il premier si trova così ad affrontare la più grave crisi da quando è al potere, considerando anche gli anni precedenti di governo. La riforma viene congelata in attesa dell’apertura di un tavolo con le opposizioni. Ma la tenuta dell’esecutivo è a rischio.

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