Una docente stimata, una giurista preparata e adesso anche il 115° giudice della Corte Suprema americana. Oggi, Amy Coney Barrett, nata a New Orleans, in Louisiana, 48 anni fa, da un avvocato e da un’insegnante di francese, non rappresenta soltanto una delle cariche più importanti del complicato panorama giuridico americano, ma è anche stata l’ultima carta (politica) giocata da Donald Trump, poco prima del risultato elettorale, che ha portato alla vittoria Joe Biden. Perché Coney Barrett, che non ha mai nascosto le sue posizioni molto conservatrici o le sue opinioni più radicali, né ha mai vissuto con troppo pudore la sua fede cattolica (appartiene alla congregazione “People of praise”), è stata scelta dall’ex tycoon, il 27 ottobre 2020, come successore di Ruth Bader Ginsburg, dal profilo (politico) completamente diverso dal suo. A Coney Barrett, che ha sette figli e vive con la sua famiglia a South Bend, in Indiana, in America, è universalmente riconosciuta una grande professionalità, sia dal punto di vista accademico, sia da quello giuridico. Perché alle spalle del nuovo giudice della Corte Suprema, c’è una formazione ineccepibile, ma anche una serie di dubbi legati alla sua figura, ritenuta divisiva e controversa. Nonostante tutto.
Cresciuta a Metairie, nell’area metropolitana di New Orleans, Coney Barrett, la prima di sette fratelli, scelse la carriera legale dopo aver frequentato, grazie a una borsa di studio completa, la prestigiosa Notre Dame Law School, tra le più antiche scuole di legge (cattoliche) in America. Attenta, interessata e particolarmente dedita alla sua istruzione, durante gli anni dell’università, vinse la più alta onorificenza della facoltà di giurisprudenza, ovvero il premio Hoynes. Appena laureata, divenne assistente del giudice Laurence Silberman (presso la Corte d’Appello) e lavorò con il giudice associato della Corte Suprema, Antonin Scalia (scomparso nel 2016 e ancora considerato tra i più importanti giudici conservatori degli ultimi anni). Le prime e importanti esperienze post-laurea la portarono, nei primi anni 2000, a ricoprire anche il ruolo di docente alla George Washington University Law School e, dal 2002, anche alla Notre Dame Law School, dove insegnò diritto costituzionale e interpretazione statutaria e dove ricevette (per tre volte) il premio di professore dell’anno. Infine, da insegnante (e studiosa) pubblicò numerose ricerche su importanti riviste accademiche
L’8 maggio 2017, l’allora capo della Casa Bianca la nominò alla Corte d’Appello americana (con giurisdizione su Illinois, Indiana e Wisconsin), dopo le dimissioni del giudice John Daniel Tinder. In occasione della sua udienza di conferma al Senato, il 6 settembre dello stesso anno, di fronte alla commissione Giustizia, la senatrice (del Partito democratico) Dianne Feinstein le fece domande sulla possibilità che le sue convinzioni personali potessero in qualche modo influenzarla nel suo giudizio. Durante il processo, citando un articolo apparso su una rivista giuridica, che lei avrebbe scritto insieme al professor John H. Garvey, nel 1988, la senatrice le chiese chiarimenti e soprattutto se le sue posizioni potessero essere condizionate dalla sua fede e dal “dogma che si portava dentro”, per esempio.
In base alle ricostruzioni, alla domanda di Feinstein, Coney Barrett avrebbe risposto che la sua appartenenza alla chiesa o la sua fede religiosa non avrebbero inciso per nulla sull’adempimento dei suoi doveri giuridici. E come riportato da un articolo di Politico, pubblicato nel novembre del 2017, avrebbe anche aggiunto che “non è mai appropriato che un giudice imponga le convinzioni personali sulla legge, sia che derivino dalla fede o da qualsiasi altra cosa”.
Le risposte che Coney Barrett rivolse alla commissione contribuirono a renderla ancora più popolare tra i conservatori e, allo stesso tempo, la esposero alle critiche di diverse associazioni americane a difesa dei diritti LGBTQ, come Lambda Legal, che firmò una lettera (con altre 26 organizzazioni) per opporsi alla sua nomina, ritenuta controversa perché legata a una serie di dubbi sulla sua capacità di separare le sue opinioni personali da quelle professionali (soprattutto per i temi civili). La sua nomina, comunque, venne sostenuta da un’altra missiva, firmata da 450 suoi ex alunni e inviata alla commissione giudiziaria del Senato. Nell’ottobre del 2017 il voto andò a suo favore.
A rallentare la sua nomina alla Corte Suprema, suggerita da Trump, dopo l’annuncio del ritiro di Anthony Kennedy, fu, probabilmente, la sua “inesperienza”. Tutto è cambiato, però, il 18 settembre 2020, dopo la morte di Bader Ginsburg, quando il presidente ha fatto il suo nome pochi giorni dopo la scomparsa dell’esponente democratica. Il 26 ottobre, la nomina di Coney Barrett è stata confermata con una maggioranza di 52 voti favorevoli contro 48 contrari e successivamente ufficializzata. Come ricordato dal Wall Street Journal, la giurista è stata la prima a non ricevere alcun voto dal partito d’opposizione dal 1869. La donna ha giurato alla Casa Bianca davanti al giudice Clarence Thomas e al presidente Trump. Con lei, al momento, i giudici conservatori della Corte Suprema sono diventati la maggioranza (6 su 9), spostando (e di molto) il suo orientamento. Che non è cosa da poco, visto che l’attuale composizione della Corte avrà il potere di bloccare le leggi volute dalla prossima amministrazione (guidata da Biden).
Nota per avere delle posizioni piuttosto nette riguardo all’interruzione di gravidanza (su cui è contraria) e all’uso delle armi (nel 2019 criticò una legge federale che ne proibiva il possesso ai condannati per determinati crimini, sostenendo che il divieto dovesse limitarsi ai reati violenti), Coney Barrett è sempre stata considerata da Trump il candidato ideale per la Corte Suprema, sia per età, che per posizioni politiche (molto vicine a quelle dei repubblicani). Secondo alcuni, il suo “credo giudiziario”, la dottrina originalista, è stato fortemente influenzato da quello del suo ex mentore Scalia, definito dalla stampa straniera “l’originalista originale”, che Ronald Reagan aveva voluto alla Corte Suprema nel 1986. La dottrina originalista, una sorta di”non-interpretazione” della Costituzione, vorrebbe infatti l’applicazione diretta della carta per come era stata scritta (e intesa) dai padri fondatori il 21 giugno 1788.