Primarie democratiche (LaPresse)

Che cos’è il Super Tuesday

Martedì 3 marzo l’attenzione dell’opinione pubblica americana sarà concentrata sullo svolgimento del Super Tuesday, il “super martedì” destinato a rappresentare uno snodo chiave nelle primarie per la scelta del candidato del Partito democratico per la nomination presidenziale.

Da oltre trent’anni i “super martedì” sono un appuntamento fisso per i partiti dominanti dello scenario statunitense e rappresentano il primo test nazionale d’ampio respiro per i candidati che ambiscono a partecipare, nel novembre dell’anno elettorale, alla corsa alla Casa Bianca. Data per scontata la nomination di Donald Trump nel Partito repubblicano (che comunque terrà formalmente primarie e caucus nella giornata in 11 Stati), in questo caso a calamitare l’attenzione sarà la contesa tra i democratici. Chiamati alle urne in quindici diverse primarie: quella degli elettori residenti all’estero, infatti, si aggiungerà alla disfida in quattordici Stati dell’Unione.

Alabama, Arkansas, California, Colorado, Maine, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Tennessee, Texas, Utah, Vermont e Virginia voteranno per stabilire chi emergerà tra i democratici dopo che il voto di febbraio ha indicato in Bernie Sanders, il senatore del Vermont di ispirazione socialista, l’uomo da battere ma, al tempo stesso, ha certificato che l’ex vicepresidente centrista Joe Biden, vincitore in South Carolina, è tutt’altro che fuori gioco, mentre il ritiro choc del giovane tecnocrate ed ex sindaco di South Bend Pete Buttigieg, accreditato come outsider, rilancia il miliardario Michael Bloombergex sindaco di New York, come possibile terzo incomodo.

1.344 dei 3.979 delegati della Democratic National Convention che sceglierà il candidato alla Casa Bianca saranno in palio nelle contese del 3 marzo, sparse su una serie ampia di Stati che spazia da tradizionali roccaforti azzurre a Est (Vermont, Virginia, Massachussets) e Ovest (California) agli Stati conservatori dell’America profonda dominio elettorale del trumpismo, in quello che si annuncia come uno dei Super Tuesday più decisivi di sempre. Rare volte quanto in questo 2020 il Super Tuesday potrebbe dunque assolvere alla funzione per cui i partiti hanno sperimentato negli ultimi decenni questo format: indicare anzitempo la linea dominante nella corsa alla nomination per con sentire l’identificazione di un candidato front-runner nel partito. Mano a mano che la polarizzazione tra i due partiti dominanti si è accentuata, il Super Tuesday è diventato sempre più decisivo.

Negli anni Ottanta, democratici e repubblicani decisero per l’introduzione di meccanismi di primarie in cui più Stati venivano chiamati alle urne per mediare col criticismo crescente sul fronte interno, nel quale più voci chiedevano l’istituzioni di primarie uniche nazionali, e con i timori dei rappresentanti degli Stati meno popolosi o influenti che temevano un gap di rappresentanza nella scelta dei candidati alla presidenza.

I democratici, impegnati nella ricerca dello sfidante del Ronald Reagan, sperimentarono tre diverse occasioni in cui cinque Stati venivano chiamati alle urne nella corsa alla nomination del 1984 in altrettanti martedì. In quell’occasione nacque l’espressione “Super Tuesday”: nell’ultimo e decisivo di essi, Walter Mondale ottenne la matematica certezza della candidatura prevalendo in California, West Virginia, New Jersey, South Dakota e Nuovo Messico.

Jimmy Carter e Walter Mondale, a destra (LaPresse)
Jimmy Carter e Walter Mondale, a destra (LaPresse)

Il primo caso di un “Super Tuesday” comune a democratici e repubblicani fu nel successivo round elettorale, nel 1988, quando l’iniziativa venne dagli Stati del Sud degli Usa (Texas, Florida, Tennessee, Louisiana, Oklahoma, Mississippi, Kentucky, Alabama, e Georgia) che richiesero un voto regionale comune per spingere a concentrare l’attenzione dei candidati sulle loro istanze. L’effetto domino portò i democratici a votare, l’8 marzo 1988, contemporaneamente in 21 tra Stati e territori dell’Unione, spianando la strada all’apertura di una corsa a due tra il futuro nominato Michael Dukakis e lo sfidante Jesse Jackson, e i repubblicani a fare altrettanto in 17 Stati, 16 dei quali trionfalmente vinti dal vicepresidente George H. W. Bush, che così facendo mise in cassaforte la nomination e poté programmare con maggiore serenità l’assalto vincente alla Casa Bianca del novembre successivo.

Nel 1992 il voto massiccio degli Stati del Sud si ripetè in un nuovo Super Tuesday, tenutosi il 10 marzodecisivo sia in campo repubblicano, con il presidente Bush che riuscì a respingere l’assalto portato dall’ultraconservatore Pat Buchanan, capace di soffiargli un quarto dei consensi, e Bill Clinton, futuro vincitore della contesa, che prese le redini della corsa democratica.

Bill Clinton nel suo ufficio (LaPresse)
Bill Clinton nel suo ufficio (LaPresse)

I democratici si superarono nel 2000, quando il 7 marzo chiamarono alle urne contemporaneamente California, New York, Ohio, Massachusetts e Washington rendendo il Super Tuesday decisivo per l’affermazione del vicepresidente di Clinton, Al Gore. Stesso discorso per i repubblicani con George W. Bush.

 

Dopo un 2004 democratico senza “Super Tuesday” veri e propri, nel 2008 si ebbe addirittura quello che fu soprannominato il “Giga Tuesday“. Il 52% dei delegati democratici fu conteso in 23 sfide elettorali e il 41% di quelli repubblicani in altre 21 in una giornata, quella del 5 febbraio 2008. Per la prima volta, infatti, le primarie del Super Tuesday furono strategiche in una fase in cui in entrambi i partiti la corsa alla nomination era pienamente aperta e in cui le prime sfide non avevano fatto emergere un vincitore chiaro.

In una giornata tragica, un Martedì Grasso in cui gli Stati del Sud furono colpiti da violenti tornado, emerse la stella di Barack Obama tra i democratici: il senatore dell’Illinois, infatti, sconfisse Hillary Clinton in 13 Stati, dall’Alaska allo Utah e, nonostante le vittorie dell’ex First Lady in 10 contese, tra cui California e New York, riuscì a conquistare un vantaggio risicato in termini di delegati (847 a 834) che rappresentò una spinta politica e psicologica decisiva per permettergli di perfezionare la campagna elettorale. Tra i repubblicani, invece, il Senatore dell’Arizona John McCain conquistò nove Stati e 602 delegati in un braccio di ferro con Mitt Romney, primo in sette contese e vincitore di 201 delegati.

Il Super Tuesday può compattare un partito dietro un candidato favorito, ma anche mostrare divisioni e polarizzazioni. Nel 2016 repubblicani e democratici giunsero lacerati al Super Tuesday, nel quale emersero rispettivamente le figure di Donald J. Trump, passato in pochi mesi da eccentrico miliardario prestato alla politica a candidato contro le logiche dell’establishment del Grand Old Party, e Bernie Sanders. Trump travolse ogni ostacolo nel Super Tuesday del primo marzo, Sanders vinse quattro contese su 11 contro Hillary Clinton manifestando all’ex sfidante di Obama la presenza di una forte anima di sinistra anti establishment nel Partito democratico.

La vittoria della Clinton nella corsa alla nomination fu costellata da polemiche e divisioni per la scarsa attenzione prestata alle istanze dell’ala pro-Sanders e dallo scandalo del Comitato nazionale democratico che contribuirono a costare la presidenza all’ex first lady. Trump nel Super Tuesday iniziò un percorso di conquista del cuore del Partito Repubblicano che oggi, a quattro anni di distanza, è decisamente più compatto in suo sostegno, nonostante la presenza di autorevoli fronde (il defunto McCain e, oggi, Mitt Romney). I dem, in questo 2020, dovranno saper coniugare centrismo e radicalismo dopo il Super Tuesday per evitare di arrivare a novembre con un partito debole e lacerato incapace di sfidare efficacemente la macchina da guerra elettorale di Trump.

Il supermartedì darà le carte e stabilirà i rapporti di forza: ma il candidato vincitore sarà solo a metà dell’opera e dovrà sudarsi nei prossimi mesi la nomination presidenziale. Nella consapevolezza che sarà comunque la mediazione tra opposti il processo più difficile.

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