Che cos’è il Partito Laburista britannico

Il Partito Laburista è, assieme al suo storico rivale, il Partito Conservatore, uno dei due perni del sistema politico britannico e nell’ultimo secolo ha strutturato con la formazione egemone della destra britannica un bipolarismo decisamente stabile, che prosegue senza soluzione di continuità dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi. Nato come partito a trazione socialista, il Labor Party si è più volte spostato tra fasi caratterizzate da un’apertura socialdemocratica e centrista e altre connotate da un maggiore radicalismo.

Partito operaio figlio della Rivoluzione industriale e esponente di una sinistra moderna nata in tutta Europa con la crescita del settore secondario e, con esso, delle rivendicazioni sociali e politiche di più ampio respiro, il Partito Laburista come lo conosciamo oggi fu fondato nel 1900 dal sindacalista e attivista Ramsay MacDonald.

La formazione, fin dall’inizio, non prevedeva un’affiliazione a livello nazionale ma nacque come sommatoria tra sindacati affiliati, sezioni locali e associazioni amiche, tra cui spiccava la Fabian Society, la quale si proponeva come scopo istituzionale l’elevazione delle classi lavoratrici, per renderle idonee ad assumere il controllo dei mezzi di produzione. Ancora oggi, curiosamente, questo processo passante per l’ingresso alle organizzazioni collaterali è l’unico possibile per entrare a far parte del partito.

Per i primi sessant’anni della sua storia il Labor Party fu concentrato sulla difesa della classe operaia, su un’agenda politica a trazione radicale, sulla volontà di promuovere un’intensa agenda sociale: prima della Grande Guerra, facendo sponda con i Liberali per mettere in minoranza i Conservatori; tra le due guerre, soppiantando gradualmente i primi come principale forza di opposizione ai Tories e conquistando consensi stabilmente sopra il 20%; infine, dopo la grande coalizione bellica guidata da Winston Churchill, promuovendo un’agenda keynesiana sotto la guida di Clement Attlee.

La rivoluzione thatcheriana, tra gli Anni Settanta e Ottanta, espugnò anche il Labor Party che, con Tony Blair avrebbe poi cambiato notevolmente le proprie prospettive aprendosi al vento nuovo della rivoluzione neoliberista e sdoganandola anche a sinistra; all’opposizione dal 2010, infine, nel nuovo millennio il Partito Laburista è incerto tra la presenza al suo interno di un’ala radicale, che ha visto in Jeremy Corbyn il suo faro, sull’atteggiamento da tenere con i Conservatori mentre questi strutturavano la Brexit e, infine, sul dilemma tra vecchi e nuove radici nella formazione politica. A differenza di quanto avviene per altri esponenti della sinistra europea, il voto operaio al partito laburista è superiore a quello di altre classi sociali e i sindacati mantengono un importante peso al suo interno.

 

Nella sua storia il Partito Laburista ha avuto sei primi ministri di orientamento molto diverso.

Il capostipite del partito, MacDonald, guidò un governo di coalizione coi Liberali che durò per pochi mesi nel 1924 dopo la vittoria alle elezioni politiche dei Laburisti, franato dopo la decisione di portare Londra a riconoscere l’Unione Sovietica. Una nuova esperienza di governo fu gestita da MacDonald tra il 1929 e il 1931, con maggiore armonia anche complici le necessità emergenziali di porre un rimedio alla Grande Depressione.

Clement Attlee, vice di Churchill durante la seconda guerra mondiale, sconfisse il primo ministro uscente nelle elezioni del luglio 1945 e guidò per sei anni un esecutivo profondamente innovatore, che consolidò le basi del welfare britannico moderno. Dopo che Churchill ebbe vinto la guerra, Attlee promosse politiche volte a vincere la pace attuando politiche economiche keynesiane, presiedendo una politica di nazionalizzazione delle principali industrie e servizi tra cui la Banca d’Inghilterra, le  miniere di carbone, l’industria siderurgica, le ferrovie, l’energia, i trasporti. Il suo governo ha sviluppato e implementato lo stato sociale “dalla culla alla tomba” concepito dall’economista William Beveridge e supportò la nascita del National Health Service (Nhs), il servizio sanitario nazionale, sotto l’opera del dicastero guidato dal ministro della salute Aneurin Bevan. Il governo di Attlee iniziò anche il processo di decolonizzazione in seno all’Impero britannico quando nel 1947 concesse l’indipendenza all’India e al Pakistan, seguita dalla Birmania (Myanmar) e da Ceylon (Sri Lanka) l’anno successivo. Molto decisa fu però la volontà britannica di proseguire la relazione speciale della Gran Bretagna con gli Usa e proprio Attlee diede una svolta decisiva per portare a compimento il programma di armamento atomico di Londra.

Harold Wilson fu il premier più “progressista” della storia britannica. In carica dal 1964 al 1970 e dal 1974 al 1976, vincitore di tre elezioni, Wilson ha sostenuto l’eliminazione della pena di morte, la depenalizzazione di omosessualità e aborto, ha promosso l’ingresso di Londra nell’Unione Europea scontrandosi con Charles de Gaulle, ma alla fine del suo mandato ha dovuto subire una serie di esiti assai controversi: nel suo secondo mandato le conseguenze del primo shock petrolifero, così come lo sciopero dei minatori del febbraio 1974, ebbe importanti conseguenze per l’economia britannica, soprattutto con la crisi dei titoli di Stato del 1974, mentre l’inflazione raggiunse livelli esorbitanti.  Nel frattempo, in Irlanda del Nord divampò il conflitto civile tra unionisti e fautori della secessione da Londra.

Nel 1976 il governo Wilson cadde in parlamento e il premier fu sostituito da James Callaghan, suo Ministro degli Esteri, di posizioni più centriste, che formò un governo di coalizione con i Liberali dopo l’evaporazione della flebile maggioranza ai Comuni. Tra recessione, difficoltà legate alla graduale de-industrializzazione e aumento delle disuguaglianze Callaghan si ritrovò ad affrontare il cosiddetto “Inverno dello Scontento” tra il 1978 ed il 1979. Fu un periodo durissimo per il Regno Unito caratterizzato da una forte conflittualità sindacale (causata dalla limitazione dei salari imposta dal governo per contenere l’inflazione). L’incapacità del governo nel contenere gli scioperi, che gettarono il paese nel caos, aprì la strada alla travolgente affermazione di Margareth Thatcher nel voto del 1979.

Diciassette anni dopo, il Labor ritornato al governo era guidato da Tony Blair. Abbracciando posizioni liberali in economia e promuovendo lo sdoganamento a sinistra del neoliberismo Blair ha dichiarato il sostegno a una nuova idea di sinistra, una sinistra che riconosca gli individui come socialmente interdipendenti, con il fondamentale obiettivo del mantenimento della giustizia e della coesione sociale. La “Terza Via” teorizzata da Anthony Giddens e applicata da Blair e dal presidente Usa Bill Clinton ha dominato la stagione dei suoi governi (1997-2007) e quella del successore Gordon Brown (2007-2010), ultimo premier laburista del Paese.

Travolto dalle critiche per l’intervento in Iraq nel 2003, Blair ha potuto rivendicare come successo politico gli Accordi del Venerdì Santo del 1998 che posero fine al conflitto nordirlandese. Dopo la sua leadership, nel partito si è aperto un confronto importante tra un’ala sinistra che ha ripreso vigore con Jeremy Corbyn, ma si è schiantata alle elezioni del 2019, e quella più centrista che con Keir Stremer dal 2020 è tornata alla guida del partito. Dalla dialettica tra queste due ali si capirà il futuro della formazione più antica della sinistra britannica.

 

A dodici anni dalla fine del governo di Gordon Brown un Laburista non è più riuscito a riconquistare Downing Street. Messi in minoranza nel 2010 dall’alleanza tra Conservatori e Liberaldemocratici, capaci di imporre ai Tory un’impasse nel 2017 prima della nascita del governo di Theresa May appoggiato dagli unionisti irlandesi del Dup e sconfitti sonoramente da David Cameron nel 2015 e da Boris Johnson nel 2019, per ben quattro elezioni di fila i laburisti non seppero replicare i trionfi dell’era Blair, che nel 1997 li aveva portati a 13,5 milioni di voti e a 418 seggi a Westmeinster su 659.

Corbyn nel 2017 compì una vera e propria impresa nell’imporre a Theresa May un sostanziale pareggio, portando il Labour al massimo dell’era post-Blair, con 12,8 milioni di voti che fruttarono, per i 13,6 milioni di voti Tory, solo 262 deputati. Abbastanza da evitare un governo in solitaria dei Conservatori, non a riconquistare Downing Street. Nel 2019 Johnson e i suoi hanno sfondato nelle roccaforti operaie del Nord dell’Inghilterra, demolendo il “muro rosso”, la storica roccaforte laburista dei minatori e dei lavoratori eroi dei film di Ken Loach e dell’attivismo sindacale, mentre i laburisti perdevano 2 milioni di voti, finendo all’opposizione. Il motivo fu la volontà di Johnson e dei Tory di portare a termine la Brexit, votata nel 2016 via referendum dai britannici e su cui i Laburisti hanno avuto a lungo un atteggiamento ambivalente.

Divisi tra la tentazione di usare l’europeismo contro i Tory e la presenza di una base di Sinistra radicale fortemente orientata a cavalcarla i membri del Partito Laburista non hanno saputo fare una sintesi sul tema. Né è riuscito a farla Corbyn, che da tribuno portavoce delle periferie diseredate e deindustrializzate è finito per essere leader ritrovatosi in maggioranza solo nei collegi elettorali urbani e ad alto reddito. Profonda schizofrenia di un Labour confuso e che Keir Starmer ha preso in mano nel 2020 per provare a traghettarlo nell’era del post-Brexit e del contrasto agli effetti recessivi e sociali della pandemia. Partito del lavoro tradizionale o partito delle nuove occupazioni, dei servizi e delle nuove branche dell’economia? Partito di massa o élite “borghese”? I Laburisti, ancora provati dagli effetti a cascata del lungo decennio della Terza Via, devono decidere il loro futuro. E nel quadro di un bipolarismo sempre più sfilacciato con i Tory alla luce delle evoluzioni politiche degli ultimi anni capire cosa vorrà fare del Paese il partito di riferimento della Sinistra britannica.

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