Il Partito Conservatore è stato, in oltre un secolo e mezzo, un protagonista assoluto della politica britannica e dunque globale. La formazione che è stata di Benjamin Disraeli, Winston Churchill e Margareth Thathcer, oggi guidata dal premier Boris Johnson, ha segnato nei suoi anni di governo buona parte delle pagine storiche del Paese: l’età dell’imperialismo, la lotta contro il nazifascismo nella Seconda guerra mondiale, la rivoluzione neoliberista, la Brexit. Nato nel 1834 e per questo legittimamente considerato il più antico partito attivo nel Regno Unito e uno dei più longevi al mondo assieme ai democratici e ai repubblicani americani il Partito Conservatore può vantare di avere alle sue spalle una storia decisamente coerente con gli ideali che ne animarono la nascita.
Il Partito Conservatore nacque alla vigilia dell’età vittoriana e dell’epopea imperiale della Gran Bretagna nel XIX secolo e ne fu alfiere, custode e orientatore politico. Con un’attenzione forte ai valori nazionali, al ruolo unificante della Corona, alle istanze economiche delle borghesie mercantili in continua crescita e degli industriali, il Partito Conservatore si strutturò a partire dalla scissione del gruppo dei Tory interni al partito Whig. Erede della corrente sviluppatasi attorno a William Pitt il Giovane (primo ministro britannico nei periodi 1783-1801 e 1804-1806), il partito nacque nel 1834 sotto la direzione di Robert Peel, che fu il primo a condurlo al governo dopo le elezioni del 1841.
Nel corso dei decenni il Partito Conservatore si strutturò soprattutto nel corso dei governi di Benjamin Disraeli su un trittico di strategie che, in larga misura, sono durate fino all’era Thatcher come stella polare del partito: in primo luogo, coniugando conservatorismo sociale e moderato riformismo economico il Partito Conservatore inserì definitivamente nella storia quelle masse non più proletarie che nelle città e nei borghi inglesi si erano strutturate come produttrici, imprenditoriali, partecipi dei destini del Regno. Il Reform Act del 1867, ad esempio, estese il diritto di voto a tutti i capifamiglia maschi, eliminando nel contempo i sobborghi cittadini con meno di 10.000 abitanti e garantendo quindici nuovi seggi elettorali dei quali le rappresentanze maggiori furono Liverpool e Manchester. Anticipando quanto sarebbe stato fatto da Otto von Bismarck in Germania, Disraeli intuì che la via maestra del riformismo avrebbe contribuito a lenire il risentimento delle classi lavoratrici verso il sistema, sanando le contraddizioni della rivoluzione industriale e disinnescando la bomba della contestazione socialista. I governi Disraeli furono segnati da un vero e proprio diluvio di riforme normative sulla salute pubblica e la regolamentazione dei rapporti di lavoro, come l’Artisan’s and Labourers’ Dwellings Improvement Act del 1875, il Public Health Act del 1875, il Sale of Food and Drugs Act del 1875 e l’Education Act del 1876. Il suo governo introdusse inoltre un nuovo Factory Act per la protezione dei lavoratori, il Conspiracy and Protection of Property Act del 1875 e l’Employers and Workmen Act del 1875
In secondo luogo, il Regno Unito governato dai conservatori vide la strategia imperialista utilizzata per compattare all’interno le diverse nazionalità dello Stato. La dominazione degli inglesi nella politica britannica era palese, ma a scozzesi, gallesi e, in misura minore, irlandesi fu garantita la possibilità di compartecipare all’epopea imperiale in qualità di mercanti, coloni, funzionari.
In terzo luogo, il Partito Conservatore scalò gradualmente, dalla metà dell’Ottocento fino alla Grande Guerra, il Partito Liberale suo principale rivale nel bipolarismo nazionale, introducendo una forma di difesa dei diritti individuali e del mercato mediati dall’accento posto sul ruolo unificante delle istituzioni britanniche e della Corona. Questo contribuì a strutturare, a partire dagli Anni Venti, il bipolarismo con il Partito Laburista che conosciamo tuttora.
Nel Novecento spiccò una figura nella galassia conservatrice, quella di Winston Churchill. Fortemente accentratore, più volte in contrasto col suo stesso partito, da cui fu “esule” per vent’anni (1904-1924) in cui fu uno dei protagonisti tra i leader liberali della Grande Guerra, Churchill riconquistò dall’interno i Tory sino a divenire il premier che, tra il 1940 e il 1945, condusse il Regno Unito nella tempesta bellica. Riuscendo infine a ritornare al governo nel 1951 dopo sei anni di purgatorio in cui il timone dell’esecutivo era passato ai laburisti di Clement Attlee.
Churchill ereditò, in tal senso, lo spirito di Disraeli e fu l’ultimo grande statista della Gran Bretagna imperiale e il primo di quella contemporanea. La sua visione di un conservatorismo “illuminato” aprì la strada, nel dopoguerra, all’accettazione del consenso keynesiano per la ripresa dell’economia, a una stagione di pacificazione del conflitto sociale, a una presa di responsabilità da parte del governo.
Il Churchill che vinse la guerra è noto ed è legittimamente ricordato come una delle figure simbolo del Novecento, oltre che il padre nobile del Partito Conservatore odierno. Ma altrettanto grande fu il Churchill che vinse la pace dopo il ritorno al governo nel dopoguerra. L’obiettivo di garantire sicurezza sociale per combattere efficacemente la povertà e ridurre la criminalità, oltre alla promozione misure economiche finalizzate ad una significativa redistribuzione della ricchezza e la regolazione del mercato nell’interesse di produttori e consumatori, a metà fra il laissez-faire ed il radicalismo britannico, moderò e di fatto consolidò l’agenda radicale di Attlee che aveva causato sconcerto nella middle class britannica e rese patrimonio condiviso alcuni totem del welfare britannico come il Sistema sanitario nazionale (Nhs).

La complessa fase vissuta dal Partito Conservatore tra il 1964 e il 1979, anni in cui ebbe solo quattro anni di governo in una fase di egemonia laburista, coincise con la fine della stagione di Churchill e dei suoi epigoni e con una lunga traversata del deserto. L’accesso al mercato comune europeo, la crisi del sistema keynesiano dovuto alla stagflazione e il ritiro definitivo della Gran Bretagna dalle antiche posizioni imperiali crearono una crisi politica a cui i Tories risposero con la rivoluzione di Margaret Thathcer.
Prima donna a ricoprire l’incarico di premier nel Regno Unito, in sella dal 1979 al 1990, la Thatcher sdoganò in Occidente i venti della rivoluzione neoliberista. Il suo obiettivo era quello di ridurre il ruolo del governo nell’economia, e a questo fine loro supportavano i tagli nella tassazione diretta, la privatizzazione delle industrie nazionalizzate e una riduzione nella dimensione e nello scopo del welfare state. I sostenitori del mercato libero furono chiamati “thatcherites” e con la loro egemonia il Partito Conservatore vide la saldatura tra l’ala più socialmente attenta ai principi guida dell’ordine sociale e quella libertaria, individualista, anti-Stato. Un’amalgama complessa che però ha formato l’asse dominante su cui la formazione britannica si è stabilizzata fino alla Brexit.
Sfondando nella middle class, esausta dopo anni di inflazione galoppante e crisi economica, la Thatcher condusse i conservatori a due nette vittorie, in occasione delle elezioni generali del 1983 e nelle elezioni generali del 1987. Complici riforme che trasformarono in proprietari di casa milioni di cittadini britannici, mantenne a lungo una base di consenso importante ma era anche fortemente impopolare in certi settori della società, in parte a causa dell’alta disoccupazione che seguì le sue riforme economiche. E non a caso solo cambiando, in parte, linea il Partito Conservatore ha potuto sfondare nell’Inghilterra profonda devastata dalle riforme degli Anni Ottanta.

Il 23 giugno 2016 è stato uno spartiacque non solo per il Regno Unito ma anche per i Tory. Quel giorno, la vittoria del Leave al referendum sulla Brexit travolse l’ala europeista del partito gudiata dal premier David Cameron, la cui carriera politica fu bruscamente interrotta nonostante due brillanti vittorie alle elezioni politiche del 2010 e del 2015. Promosso per sfondare nell’elettorato dell’United Kingdom Independence Party di Nigel Farage, il referendum sulla Brexit fece saltare la saldatura dell’era Thathcher e portò allo scoperto una nuova categoria di conservatori, aventi il proprio simbolo nel sindaco di Londra, e attuale premier, Boris Johnson.
Dall’epoca di Disraeli e Churchill questo gruppo di Tory riprendeva l’idea dell’epopea imperiale: la Brexit era da intendersi, in primo luogo, come fenomeno legato alla volontà del popolo inglese di dominare il suo impero interno e come punto di partenza del rilancio della Global Britain. Parimenti, i Brexiters hanno impostato negli anni post-referendum, specie dopo l’ascesa di Johnson a premier nel 2019, un’agenda che mescola proposte radicalmente thatcheriane (come l’idea della “Singapore sul Tamigi”, ovvero di una Tortuga finanziaria deregolamentata da edificare nella Londra post-Brexit) a proposte economiche di investimenti nei settori strategici, rafforzamento del welfare, aumento del salario minimo.
Le elezioni del 2019, in tal senso, hanno segnato una svolta. L’etoniano e oxfordiano Johnson ha sottratto al socialista Jeremy Corbyn lo scettro della working class impoverita che nel 2016 ha funto da spina dorsale per il consenso alla Brexit: dalle aree del Northumberland alle Midlands e allo Yorkshire sono gli abitanti della Gran Bretagna profonda a spingere i Tory verso la maggioranza assoluta. A risultare decisiva la popolazione dimenticata, lontana dalla scintillante City di Londra, narrata nel momento della sua crisi più nera dal genio artistico del regista Ken Loach. I Tories hanno vinto trainati dai consensi degli sconfitti della globalizzazione che il partito ha contribuito, trent’anni prima, a sdoganare: e questo è un punto politico fondamentale. Dopo la pandemia di Covid-19, il rilancio della strategia Global Britain e il perfezionamento della Brexit la sfida per il partito che ha costruito l’attuale consenso sociale su cui si fonda lo Stato britannico e ha legittimato parte delle riforme delle componenti rivali del sistema nazionale sarà il bilanciamento di quella che può apparire una contraddizione. Ma nei grandi momenti della storia britannica è proprio il Partito Conservatore chiamato a un ruolo di sintesi. E dunque a farsi interprete dei mutamenti d’orientamento dlela nazione.