Quasi tutti, nel mondo, la chiamano al Fatah, anche se il termine più corretto per rivolgersi al movimento che, da più di mezzo secolo, si pone l’obiettivo di mettere al primo posto la causa della Palestina è quello di al Fath. Che, in arabo, vuol dire “la conquista”, “l’apertura”. Il suo nome non è altro che la sigla rovesciata di Harakat at-Tahrir al-watani al-filastini (حركة التحرير الوطني الفلسطيني), che in lingua araba significa letteralmente “movimenti che liberano il cittadino palestinese”. E, siccome la simbologia è importante, sulla bandiera compare anche la parola araba al Asifa, che significa “la tempesta”, nome della prima struttura armata di al Fatah. Sotto al suo simbolo, invece, c’è scritto Al thawra hatta al nasir, che vuol dire “rivoluzione fino alla vittoria”.
Al Fatah si costituì nel 1957, dall’esigenza di difendere e definire l’identità palestinese nel difficile conflitto arabo-israeliano, iniziato qualche anno prima. Ufficialmente, però, nacque nel 1959 per iniziativa di Yasser Arafat, Khalil Wazir e Salah Khalaf. In quel periodo, la nascita dell’organizzazione servì, innanzitutto, a consolidare una forma di appartenenza tra i palestinesi. Che era mancata dopo l’esodo più grande, quello del 1948.
Al Fatah, oggi, è considerata una falange politico paramilitare dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ed è il secondo partito più grande del Consiglio legislativo palestinese. Per decenni ha rappresentato la spina dorsale della lotta armata allo Stato d’Israele e, da sempre, il suo operato nel Paese influenza le attività e le azioni di decine di militanti. Che, per anni, hanno visto in questa lotta, una delle poche forme di emancipazione che la Palestina abbia mai avuto.
All’inizio degli anni Cinquanta, la situazione palestinese appariva come una questione molto complessa. La popolazione doveva misurarsi con uno Stato d’Israele sempre più potente e non poteva contare troppo sull’aiuto dei Paesi arabi vicini (impegnati nella difesa dei propri interessi nazionali). Ma fu proprio in quella circostanza d’emergenza che si costituì l’urgenza di studiare una nuova forma di difesa interna che garantisse la sopravvivenza dell’identità palestinese. L’idea la ebbe Yasser Arafat, che all’epoca era capo dell’Unione generale degli studenti palestinesi dell’Università del Cairo. Insieme a Khalil Wazir, Salah Khalaf e Khaled Yashruti compose questa formazione, dalle molte sfaccettature e un unico scopo: proteggere il popolo palestinese e lottare per la sua affermazione politica. Il movimento, infatti, fu fondato dai membri della diaspora palestinese, ovvero quasi tutti professionisti che lavoravano negli Stati del Golfo Persico, i quali avevano studiato in Egitto o in Libano ed erano rifugiati a Gaza. Prima di tutto, al Fatah nacque per difendere e per lottare. Da subito, infatti, si distinse da altre organizzazioni, come per esempio il Fronte popolare per la liberazione della Palestina dell’arabo cristiano George Habbash, che ebbe caratteristiche marxiste-leniniste e mantenne un orizzonte pan-arabo. Il momento e il luogo della nascita ufficiale risalgono al 1959 in Kuwait, dove una serie di riunioni di Khalaf e Arafat insieme ad altri 20 attivisti palestinesi composero il nuovo partito. Si dice, però, che insieme al più importante leader politico palestinese, fu Faruq al Qaddumi (noto come Abu Lutf) la vera mente dietro al Fatah.
Fin dall’inizio, il movimento abbracciò un’ideologia piuttosto nazionalista, in cui gli arabi palestinesi sarebbero riusciti a liberarsi (e a rendersi indipendenti) soltanto grazie alle loro azioni e ai loro sforzi. Da subito, Fatah proclamò un’impostazione laica e orientata a sinistra, il che ebbe (in seguito) un peso importante, slegando dall’organizzazione di lotta ogni implicazione religiosa (contrariamente a quanto spesso accade nelle realtà vicine all’islam). Il movimento iniziò a imporsi davvero a metà degli anni Sessanta: nel 1965 la prima guerriglia contro Israele provocò un certo clamore e, secondo quanto riportato dalla Bbc, il gruppo in quell’anno riuscì a uscire scoperto proprio sotto la leadership di Arafat. In poco tempo, Fatah divenne la più forte e meglio organizzata tra le fazioni palestinesi in lotta e dopo il conflitto del 1967 assunse un ruolo egemonico anche all’interno dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Ed è da quel momento che Fatah non ha mai smesso di rappresentare molto più di un movimento di liberazione o un vessillo identitario. Ma una causa d’appartenenza che, da sempre, raccoglie se non la totalità, la maggior parte dei consensi.
Nel 1967, al termine della Guerra dei sei giorni (il conflitto combattuto tra Israele ed Egitto, Siria e Giordania, che si concluse con una rapida e totale vittoria israeliana), Fatah fece, di fatto, il suo ingresso in politica, diventandone un elemento dominante. In quell’anno, dopo essere entrato ufficialmente a far parte dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il movimento divenne talmente influente da elevare, nel 1969, uno dei suoi fondatori, Arafat, ai vertici dell’Olp. Al termine della Guerra dei sei giorni, la figura del leader palestinese risultò determinante, perché in quanto capo di Fatah riuscì a riempire il vuoto di potere lasciato dai molti Paesi arabi usciti sconfitti dal conflitto contro Israele. Il movimento raccolse a lungo ingenti somme di denaro dagli Stati arabi che condividevano la visione di un movimento nazionalista “puramente palestinese”, ma contemporaneamente temevano che l’influenza di una “sinistra palestinese” potesse avere qualche effetto sulle proprie popolazioni. La figura di Arafat, il leader combattente, intanto, si imponeva anche sulla scena internazionale: riconosciuto da tutti come un uomo d’azione (spesso anche fastidioso), da giovane studente universitario e militante della resistenza palestinese riuscì a ricevere persino il premio Nobel per la pace molti anni dopo. Ma, soprattutto, si inserì perfettamente nell’immaginario collettivo come l’unica vera guida che la Palestina abbia mai avuto.
Per tutto il 1968, Fatah e altri gruppi armati palestinesi furono oggetto di diverse operazioni da parte delle forze di difesa israeliane. Perché, proprio in quel periodo, nella località giordana di Karameh, dove si trovavano un campo profughi di medie dimensioni e il quartier generale del movimento, i palestinesi colpirono l’immaginazione degli arabi con una battaglia, che vide lo scontro militare tra i feddayn di Fatah e i militari israeliani. Il 31 marzo del 1968, infatti, i militanti riuscirono a resistere a un’incursione israeliana proprio nel villaggio a est del Giordano. In quell’occasione, l’azione di Gerusalemme aveva come unica intenzione quella di eliminare un concentramento di combattenti palestinesi. Ma la loro resistenza si fece più forte dei potenti mezzi dell’esercito israeliano e quelle immagini di tenuta si diffusero molto velocemente. In tutto il mondo, soprattutto in quello arabo. A Karameh, i comandanti della divisione giordana vicina a Fatah consigliarono ai vertici del movimento di ritirare i loro uomini e di spostare le loro basi sulle colline vicine. Ma l’ordine di Arafat fu perentorio: Fatah doveva rimanere e l’esercito giordano accettò di appoggiarli, nonostante i pesanti combattimenti. Il movimento palestinese mantenne la sua posizione, sorprendendo l’esercito israeliano e mentre questi ultimi intensificavano la loro campagna, loro rimasero lì. I militari giordani cercarono di far ritirare gli israeliani, per evitare una guerra più ampia e anche se al termine di quella battaglia i morti palestinesi furono decine, l’azione di resistenza rimase.

Fatah considerò la sua battaglia vincente, anche a causa della rapida ritirata israeliana. Quello rimase un momento decisivo, perché i palestinesi divennero un fattore politico concreto per il Medio Oriente. Dopo quella battaglia, infatti, i gruppi di resistenza aumentarono visibilmente: soltanto Fatah, che nel 1967 contava circa 2mila combattenti, nei tre mesi successivi allo scontro in Giordania riuscì a reclutare circa 13mila guerriglieri. I quali non si limitavano soltanto a rispondere agli scontri a fuoco contro Israele, ma compivano veri e propri atti di sabotaggio, anche contro i civili. Lo scopo? Quello di intaccare la tranquillità del quotidiano e provocare una reazione israeliana. Paradossalmente, più era forte la repressione, più cresceva l’impegno nella resistenza all’interno delle masse. Il combattimento di Karameh, storicamente, divenne più importante degli altri perché, di fatto, fu il primo fatto d’armi positivo per un’organizzazione armata palestinese dopo la Nakba del 1948, ovvero l’esodo della popolazione araba palestinese durante la guerra civile.
La successiva espulsione dei combattenti palestinesi dalla Giordania durante il cosiddetto settembre nero del 1970 costrinse la base di potere di Arafat e di Fatah a spostarsi nell’area meridionale del Libano. Da quel momento, l’organizzazione iniziò a muoversi: nel 1982, infatti, l’invasione israeliana del Paese costrinse il movimento a raggiungere la Tunisia. Negli anni Ottanta, dopo il conflitto in Libano, Israele impose la propria presenza nel Paese con l’intensificarsi di altri insediamenti in Cisgiordania. Nonostante la lontananza “fisica” dei vertici di Fatah, dal 1983, l’occupazione israeliana in quei luoghi e a Gaza incontrò una forte resistenza palestinese. Nel dicembre del 1987, in un incidente provocato da un mezzo di trasporto militare israeliano, morirono quattro lavoratori arabi di Gaza. L’episodio, anche se non fu un vero atto di guerra, scatenò rabbia e insofferenza e, di conseguenza, il conflitto delle due parti. I palestinesi cercarono così di bloccare l’ingresso ai villaggi e per la seconda volta (dopo la battaglia di Karameh) i loro corpi divennero la loro arma per fermare l’avanzata israeliana. Quella fu la prima intifada, che non fu scatenata da un’azione mirata (come accadde in Giordania), ma da un evento accidentale. L’esercito, a quella resistenza, reagì con la forza e per fermare le proteste utilizzò lacrimogeni e proiettili. In quell’anno, i lealisti di Arafat rimasti in Palestina, chiamati Fatah Hawks, si resero protagonisti anche di quella battaglia. Ma il risultato di tutti quei disordini non rimise al centro soltanto il movimento di resistenza armata palestinese, ormai in esilio in Maghreb, ma portò alla nascita di Hamas, l’altro potente movimento di resistenza islamico. E il più influente avversario politico di Fatah.
I processi di Pace di Oslo, degli anni Novanta, riportarono in Palestina Arafat e i vertici di Fatah, che avrebbero dovuto dirigere l’Autorità nazionale palestinese, formata in quella circostanza. Gli accordi, raggiunti nella capitale norvegese nel 1993, prevedevano l’autogoverno per i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza entro cinque anni. I patti di Oslo avevano confermato l’urgenza della creazione di una grande forza di sicurezza palestinese, che doveva servire anche proteggere Israele dagli attacchi dei militanti durante gli accordi di pace. Nel 1995, Arafat, insieme ai due presidenti israeliani, Shimon Peres e Yitzhak Rabin, venne insignito del più alto riconoscimento mondiale: il nobel per la Pace. Nello stesso anno, i Fatah Hawks furono sciolti, ma la leadership del movimento istituì un’altra milizia, chiamata Tanzim. Il gruppo agì da contrappeso alla potenza militare dei gruppi islamisti che si erano formati in Palestina soprattutto durante gli anni dell’esilio (come Hamas e il Jihad islamico). La milizia fu anche una forza offensiva non ufficiale in difesa del leader Arafat e dell’Autorità palestinese (che avrebbe potuto essere attaccata dalle forze israeliane in Cisgiordania). Tanzim divenne anche la principale forze politica e militare dietro la successiva intifada, la seconda, quella di al Aqsa, che scoppiò nel 2000. In ogni caso, con le elezioni del 1996, Fatah prese il controllo del potere esecutivo e legislativo dell’Autorità nazionale della Palestina.
Il movimento di Arafat, pur non avendo mai raccolto l’unanimità dei consensi tra i palestinesi, ebbe a lungo la maggioranza delle adesioni e guidò il Paese per circa 50 anni. Tuttavia, a partire dagli anni Novanta, con l’imporsi di Hamas, la sua popolarità iniziò a calare. L’organizzazione islamista, sicuramente più radicale rispetto a Fatah, riuscì a raccogliere molte più adesioni e le motivazioni erano diverse: da una parte, un’esposizione più netta contro lo Stato d’Israele rendeva Hamas più vicino alla resistenza palestinese; dall’altra le sempre più frequenti accuse di corruzione nei confronti dei vertici dell’Olp (e di conseguenza di Fatah) faceva sì che molti si allontanassero dal movimento fondato da Arafat.
Il 28 settembre del 2000, Ariel Sharon, leader del partito della destra israeliana Likud, fece il suo ingresso alla spianata delle Moschee di Gerusalemme, con l’intento di provocare una forte reazione tra i palestinesi musulmani. Che, infatti, si concretizzò nel giro di poche ore. Gli arabi, infatti, occuparono le piazze e le strade contro le autorità israeliane, tutti armati di pietre. L’intensificarsi delle rivolte, con l’uccisione di quattro palestinesi e il ferimento di altre persone, sancì l’inizio della seconda intifada. A cui, ovviamente, parteciparono le Brigate dei martiri di al Aqsa, associate a Fatah e a Tanzim. L’associazione non venne riconosciuta ufficialmente dal movimento, né fu apertamente sostenuta dai suoi vertici, anche se i membri, spesso, appartenevano alla stessa fazione politica. A capo di quelle brigate stava Marwan Barghouti, capo di Fatah in Cisgiordania e membro della nuova guardia del partito, che rimase nei territori occupati quando l’Olp si trovava in esilio. Sempre secondo quanto riportato dalla Bbc, durante la seconda intifada, le Brigate dei martiri di al Aqsa effettuarono numerose operazioni contro soldati e coloni israeliani in Cisgiordania e Gaza, ma anche attacchi suicidi contro civili dentro ai confini dello Stato d’Israele. L’intensa campagna di attacchi del 2002 indebolì ulteriormente l’autorità di Arafat (da una parte accusato di non condannare gli attentati e dall’altra di mostrarsi troppo debole nei confronti di Israele) e quella di Fatah, lasciando l’Autorità palestinese nel caos. Gran parte delle loro infrastrutture vennero distrutte e il quartier generale di Arafat a Ramallah fu assediato per cinque settimane. Inoltre, le autorità israeliane catturarono Barghouti e lo condannarono per omicidio. Dopo quei fatti e con l’aumento della pressione internazionale, Arafat tentò di frenare i militanti palestinesi. Così, Fatah e Tanzim firmarono alcune dichiarazioni che respingevano gli attacchi contro i civili israeliani e si impegnavano per la pace e la convivenza. Questi atti non fecero che avvicinare più attivisti ad Hamas e siccome gli attacchi contro gli israeliani continuarono, Arafat fu costretto a nominare un altro primo ministro nel marzo del 2003, visto che Stati Uniti e Israele rifiutarono di trattare direttamente con lui.

Un mese dopo la nomina di Mahmoud Abbas, primo vice segretario di Fatah, l’America pubblicò il suo piano di pace in Medio Oriente, che delineava una sorta di calendario graduale verso uno Stato palestinese frutto di negoziati. Ma nonostante un inizio incoraggiante, Abbas si dimise dopo soli quattro mesi. Aveva accusato Arafat di rifiutarsi di consegnargli importanti poteri di sicurezza e aveva reagito con rabbia quando il Consiglio centrale di Fatah non approvò la sua gestione dei contatti con Israele. Nell’ottobre del 2004 Arafat si ammalò e venne trasportato in Francia (anche) per un trattamento di emergenza. Nel giro di un mese morì per una strana patologia del sangue e le circostanze del suo decesso non furono mai chiarite del tutto (nonostante gli esami effettuati sui suoi resti diversi anni dopo). Fatah, a fatica, riuscì a sopravvivere al suo fondatore, anche se con diverse difficoltà, come la perdita di credibilità e il difficile rapporto con Hamas e i suoi militanti. In ogni caso, Abbas venne confermato come successore del defunto leader come presidente dell’Olp poco dopo e, come candidato di Fatah, ottenne la vittoria alle elezioni presidenziali del gennaio del 2005.
Nonostante il primo trionfo elettorale, Abbas ereditò un partito molto diviso, che aveva bisogno di riforme e che aveva perso il suo sostegno popolare. Fatah, soprattutto poco dopo la morte di Arafat, veniva percepito come un movimento corrotto e incompetente. La morte del leader, che nel tempo aveva unito i militanti anziché dividerli, aveva fatto sì che si sviluppasse una specie di frattura tra la vecchia guardia del partito degli ex esiliati e la nuova, guidata Barghouti. Inoltre, la presenza della formazione islamista si faceva sempre più ingombrante.
Lo scontro tra le due fazioni si concretizzò tra il 2006 e la prima metà del 2007 e non fu soltanto un conflitto politico, ma una vera e propria guerra civile per il controllo dei territori palestinesi. Nel 2006, Hamas vinse le elezioni legislative: il gruppo islamista ottenne circa il 44% dei voti validi, mentre Fatah (che fino a quel momento aveva guidato i palestinesi) raggiunse il 41%. La maggior parte dei voti dati ad Hamas arrivava dalla Striscia di Gaza, mentre quelli a Fatah erano più concentrati in Cisgiordania. La vittoria del gruppo più radicale, inaspettata all’estero, e la formazione di un governo a esclusiva guida di Hamas aveva allarmato Israele, Stati Uniti, l’Unione europea, diverse nazioni occidentali, ma anche alcuni Paesi arabi, i quali ritenevano la formazione islamista un’organizzazione più vicina al terrorismo rispetto a un normale partito politico. La conseguenza fu l’imposizione di alcune sanzioni e la sospensione dell’invio di aiuti internazionali diretti all’esecutivo palestinese, dai quali dipendeva il sostentamento della popolazione e che poteva essere sospeso soltanto se Hamas avesse riconosciuto l’esistenza di Israele, se avesse accettato gli accordi già stipulati dallo sconfitto partito di Fatah e se avesse fermato gli attacchi terroristici contro la popolazione civile israeliana. Hamas non accettò e nonostante questi provvedimenti, i suoi leader furono in grado di far entrare nei territori palestinesi abbastanza finanziamenti e donazioni in grado di mantenere servizi di base di salute ed educazione. Tuttavia, le tensioni tra Hamas e Fatah aumentarono quando i due partiti non riuscirono a raggiungere un accordo per spartirsi il potere. Così, il 15 dicembre dello stesso anno, Abbas convocò le elezioni anticipate, anche se Hamas aveva contestato la legalità di tenere un’altra tornata elettorale, ribadendo il proprio diritto di governare per tutto il periodo di mandato previsto dalla precedente elezione democratica. Hamas definì la proposta di Abbas un tentato colpo di stato, ovvero un tentativo di sovvertire regolari risultati elettorali. Ne nacque un conflitto nel conflitto.
Il 15 dicembre del 2006, in Cisgiordania, scoppiarono diversi combattimenti, dopo che le forze di sicurezza palestinesi spararono su un raduno di Hamas, nei pressi di Ramallah. In quella circostanza, furono ferite almeno 20 persone e, poco dopo, il movimento islamista accusò Fatah di aver tentato di uccidere Ismail Haniyeh, il primo ministro palestinese. Il conflitto tra civili non si fermò e proseguì nella Striscia di Gaza. Diversi cessate il fuoco fallirono, a causa dell’intensificarsi di continue battaglie. Nel febbraio del 2007, i due gruppi rivali si incontrarono nella città santa della Mecca, in Arabia Saudita, dove riuscirono a raggiungere una sorta di accordo, assicurando un cessate il fuoco. Ma i conflitti non si arrestarono veramente. Nel maggio dello stesso anno, lo scontro ricominciò nelle strade di Gaza e in meno di 20 giorni, decine di palestinesi furono uccisi. Sia i leader di Hamas, sia quelli di Fatah invitarono i propri militanti a fermarsi, ma ogni richiesta di arrestare il conflitto non durava più di 48 ore. In quella circostanza, ad avere la meglio nei combattimenti fu Hamas e, secondo quanto riportato dalla Bbc, a determinare questo successo era il miglior addestramento ricevuto dai combattenti, nonostante le forze armate di Fatah fossero maggiori in termini numerici. È stato stimato che, in un anno di lotte più o meno incessanti, un alto numero di palestinesi sia stato ucciso dalle lotte interne. Il che determinò il timore dello scoppio di una guerra civile a Gaza. Di fatto, i combattimenti iniziarono il 10 giugno: l’11 giugno, quattro palestinesi vennero uccisi quando Hamas dichiarò di essere al potere nella città settentrionale di Beit Hanun. Il giorno seguente, alcuni combattenti del movimento islamista circondarono il quartier generale di Fatah a Gaza, dove all’interno erano chiusi circa 500 combattenti. I militanti di Hamas attaccarono l’edificio e dopo diverse ore di conflitto presero il controllo della struttura. Nelle stesse ore, i combattenti riuscirono a conquistare molte altre postazioni del movimento palestinese, lungo tutta la Striscia di Gaza. Al termine di quelle giornate, sempre più centri finivano sotto il controllo del movimento islamista. Il 13 giugno, Hamas prese il controllo del nord della Striscia di Gaza, dichiarandola un’area militare chiusa e chiedendo che tutti, incluse le forze militari di Fatah, consegnassero le armi nel giro di qualche ora. Nel frattempo, il gruppo islamista attaccò anche diverse aree a sud e un’esplosione riuscì a demolire una struttura pro-Fatah nella città di Khan Younis, dove morirono diverse persone. Al termine di quei combattimenti, la maggior parte di Gaza si trovava sotto il controllo di Hamas, fino a prenderla completamente. Il governo israeliano, per rispondere alle violenze, decise di chiudere tutti i posti di blocco sui confini con la regione.
I continui attacchi a Gaza provocarono la reazione di Fatah contro le istituzioni di Hamas in Cisgiornania. Il 15 giugno dello stesso anno, un corpo crivellato di colpi di un militante del gruppo islamista trovato a Nablus scatenò la paura che Fatah avrebbe potuto sfruttare il proprio vantaggio in Cisgiordania per effettuare altre rappresaglie per la morte dei propri membri a Gaza. Nei giorni seguenti, le Brigate dei martiri di al Aqsa attaccarono il parlamento a Ramallah e questo fatto, con il rapimento del ministro dell’Istruzione, venne interpretato come una risposta al controllo di Gaza da parte di Hamas. Nelle ore successive, il presidente Abbas annunciò la dissoluzione del governo di unità e dichiarò lo stato d’emergenza. Il primo ministro di Hamas, Haniyeh venne allontanato e Abbas governò Gaza e Cisgiordania per decreto presidenziale. Ma dai vertici di Hamas arrivò la risposta che il loro presidente rimaneva a capo del governo, anche se sciolto da Abbas.
Nel maggio del 2011 al Fatah e Hamas firmarono un accordo di riconciliazione con la mediazione dell’Egitto, ma pochi mesi dopo, il gruppo islamista riaffermò la propria posizione di forza nel negoziato con Israele, concedendo la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit in cambio di quella di oltre mille prigionieri palestinesi detenuti in Israele. Nel maggio del 2014, dopo il raggiungimento di un’intesa, le due fazione si sono accordate sulla nomina di Rami Hamdullah a primo ministro del governo transitorio di unità nazionale, che ufficialmente si insediò il mese successivo. Le sue dimissioni, rassegnate nel giugno del 2015 per l’incapacità di rendere operativo l’esecutivo all’interno della Striscia di Gaza e i continui dissidi interni, portarono al rinvio dell’appuntamento elettorale, mentre la Cisgiordania e Gerusalemme videro un pericoloso aumento delle tensioni, sfociato nel settembre dello stesso anno in una nuova ondata di violenza. Un passo importante verso la riconciliazione si compì nel settembre del 2014, con lo scioglimento dell’esecutivo di Hamas a Gaza e con l’accettazione da parte dell’organizzazione islamista delle condizioni poste dall’Autorità nazionale palestinese (tra cui la decisione di indire elezioni generali).
Nonostante i momenti di calo dei consensi, la creatura di Arafat non ha mai smesso di raggruppare e attrarre numerosi giovani palestinesi cresciuti, per esempio, nei campi profughi di tutto il Medio Oriente. Nel tempo, infatti, ha continuato a godere dei finanziamenti dei palestinesi emigrati nel Golfo Persico e della solidarietà politica e finanziaria di quasi tutto l’universo arabo e, soprattutto, islamico (che favorì anche la creazione di un seggio palestinese nell’ambito della Lega degli Stati arabi). E forse, questa fiducia incondizionata nonostante tutto, oggi trova risposta in quei combattimenti del passato, percepiti come gloriosi, che contribuirono a far sentire forti (e vincenti) un gruppo di ragazzi. I quali, armati soltanto di pietre e bastoni, provarono a scontarsi con uno degli eserciti più potenti dell’area.