Con il termine “Primavera Araba” si indica un insieme di proteste estese nel mondo arabo nel 2011. Partite dalla Tunisia, ben presto le manifestazioni determinano il crollo di numerosi rais. Da Ben Ali in Tunisia a Mubarack in Egitto, passando poi per Saleh nello Yemen e Gheddafi in Libia. Inoltre la primavera araba determina l’innesco della guerra civile in Siria. Quanto accade nei Paesi arabi nel 2011 rappresenta uno degli elementi più importanti della storia dell’inizio di questo secolo.
Il 17 dicembre 2010 tramite i social in tutta la Tunisia si diffonde una notizia proveniente da Sidi Bouzid, cittadina capoluogo del governatorato omonimo. Si tratta di una delle province più remote e profonde del Paese nordafricano. Nelle ore del mattino, un giovane di nome Mohamed Bouazizi si dà fuoco davanti la sede del governatorato. La motivazione dell’estremo gesto è dettata dalle condizioni di vita del giovane. Senza lavoro e senza reddito, per vivere vende merce abusivamente. La roba viene sequestrata e il giovane, oramai esasperato, decide di compiere l’estremo gesto.
La notizia del gesto di Mohamed Bouazizi si diffonde soprattutto su Twitter. L’effetto è dirompente: le immagini provenienti da Sidi Bouzid fungono da detonatore del malcontento popolare, soprattutto tra i giovani. In Tunisia al potere in quel momento vi è il presidente Zine El-Abidine Ben Ali, in sella dal 1987. Da quando cioè succede al padre della Tunisia moderna, Habib Bourguiba. La fama del suo governo è quella di uno dei più moderati del mondo arabo, forte anche del fatto che il suo partito è erede della tradizione laica e panaraba del predecessore. Tuttavia, la Tunisia è comunque lontana dagli standard democratici occidentali, di fatto Ben Ali governa il Paese senza una vera e propria opposizione.
L’aumento della disoccupazione giovanile ed il peggioramento dell’economia, unito ad un innalzamento dei prezzi dei beni di prima necessità, creano i presupposti per l’inizio di prime importanti proteste anti Ben Alì. Il 27 dicembre una prima vasta manifestazione si tiene anche nella capitale Tunisi. Sotto il profilo dell’ordine pubblico, le proteste generano anche scontri tali da non permettere alle forze di sicurezza di mantenere sotto controllo la situazione.
Con l’avvento del nuovo anno, le manifestazioni aumentano di intensità. Tra l’8 ed il 9 gennaio, si contano almeno 25 morti in diverse città a seguito degli scontri con la Polizia. Vengono sospese le lezioni il campionato di calcio. Il Paese appare prossimo ad entrare in una spirale di violenza.
Le proteste però, già sul finire del 2010, oltrepassano i confini tunisini. In diverse città algerine la gente inizia a scendere in piazza, tanto nelle città più periferiche quanto nella capitale Algeri. Qui le manifestazioni sono subito indirizzate verso il presidente Bouteflika, al potere dal 1999. Corruzione e malcontento sono le due cause scatenanti le proteste.
Nella capitale così come in altro governatorati, la tensione è molto alta per diverse settimane. A differenza della Tunisia però, la situazione rimane sotto controllo. Per gli algerini il ricordo della sanguinosa guerra civile degli anni ’90, combattuta tra l’esercito e gli islamisti, è molto fresco per generare la volontà di mettere in discussione l’ordine pubblico. In tal modo l’Algeria esce subito dalla spirale di tensioni e proteste.
In Tunisia già dopo la prima decade di gennaio si arriva a un punto di non ritorno. Il governo fatica a tenere l’ordine pubblico, alcuni reparti delle forze di sicurezza disobbediscono agli ordini di disperdere le manifestazioni e si aggregano alle proteste.
Il 10 gennaio 2011, il presidente Ben Ali compare per la prima volta in televisione per un discorso alla nazione. Nelle sue frasi, rivolge un appello alla calma e promette migliori standard di vita per la popolazione. Parla inoltre della creazione di almeno 300mila posti di lavoro. Si rivolge poi alle frange più violente dei manifestanti definendoli “terroristi”. Una frase che contribuisce all’insuccesso del suo discorso. Il giorno successivo infatti i sindacati proclamano il primo sciopero generale e in tutto il Paese scendono in piazza migliaia di persone.
Il 13 gennaio Ben Ali torna a parlare in Tv. I toni questa volta sono apparentemente più cauti e comprensivi. In particolare, il presidente chiede scusa per i morti, promette di andare incontro alle istanze dei manifestanti. Non solo: annuncia di non candidarsi per le presidenziali del 2014. Ma non basta. Oramai il filo tra la presidenza e la popolazione è irrimediabilmente rotto. Il giorno dopo migliaia di persone si danno appuntamento nel centro di Tunisi per chiedere le dimissioni del presidente. Alle 18:00 il primo ministro Mohamed Ghannouchi decreta lo stato d’emergenza. Questo a seguito dell’annuncio delle dimissioni di Ben Alì. Lui quella sera stessa vola in Arabia Saudita. Il suo è il primo governo a cadere per via delle proteste della primavera araba.
Sulla scia di quanto accaduto in Tunisia, anche in Egitto diversi gruppi di manifestanti a gennaio si organizzano per scendere in piazza. Anche nel Paese delle piramidi i problemi di natura economica e sociale appaiono molto pesanti. Tuttavia il potere del presidente Hosni Mubarack non sembra essere messo in discussione. Quest’ultimo è in sella al Paese dal 1981, anno della morte del predecessore Sadat. Mubarack regge un sistema dominato dal Partito Nazionale Democratico, di fatto unica vera formazione presente nei palazzi del potere.
La prima vera manifestazione in Egitto si tiene il 25 gennaio, quando in piazza Tarhir al Cairo migliaia di persone chiedono a gran voce riforme sia economiche che costituzionali. Scontri e proteste si susseguono in tutto il Paese giorno dopo giorno. Mubarack, per evitare di fare la stessa fine di Ben Ali in Tunisia, prova a placare la piazza con un rimpasto di governo. Il 29 gennaio licenzia il suo premier e nomina Omar Suleyman come nuovo vice presidente.
Anche in Egitto il rapporto tra la piazza e la presidenza è oramai definitivamente deteriorato. Inoltre, a Mubarack viene meno il sostegno della comunità internazionale ed in particolar modo degli Stati Uniti. Il suo governo con Washington ha rapporti molto stretti sin dal 1979, da quando cioè l’Egitto è il primo Paese arabo a riconoscere Israele. Mubarack auspica che lo spauracchio di una possibile avanzata dei Fratelli Musulmani, organizzazione non tollerata ma molto radicata in Egitto, orienti gli Usa verso il sostegno alla sua presidenza.
La realtà è ben diversa. L’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama ed il Segretario di Stato Hillary Clinton decidono di puntare sulla fratellanza. La pressione quindi sul rais egiziano si fa sempre più importante, sia dalla piazza che dall’estero. L’11 febbraio 2011 il suo vice Soleyman annuncia le dimissioni di Mubarack. Quest’ultimo quello stesso giorno lascia Il Cairo riparando nella località turistica di Sharm El Sheikh. Il potere passa transitoriamente ad una giunta militare, rimasta in carica in attesa di nuove presidenziali.
Nel giro di meno di un mese il mondo arabo assiste alla fine politica di due rais intoccabili: Ben Ali in Tunisia e Mubarack in Egitto. Due leader di due Paesi importanti culturalmente e politicamente per tutti gli arabi. Inevitabile quindi che le proteste si diffondano in tutta la regione. Dal nord Africa al Golfo Persico, passando per il medio oriente, in mondo arabo nella sua interezza è in ebollizione.
A fine gennaio le manifestazioni toccano il Golfo Persico: dall’Arabia Saudita al Bahrein, così come in minima parte anche in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti, alcune proteste provano a scalfire il solido potere degli sceicchi monarchi. In Bahrein poi le rivendicazioni sono anche di natura settaria e religiosa: la maggioranza sciita si ribella contro la monarchia sunnita al potere. Nello Yemen iniziano le prime proteste contro il presidente Saleh, al potere dal 1978.
Manifestazioni, sempre a partire tra gennaio e febbraio, interessano anche l’Iraq ed il Libano, così come anche la Giordania retta da Re Abdallah. Accade qualcosa anche in Marocco, tuttavia il Paese nordafricano è tra quelli che riesce meglio ad affrontare la situazione. Questo grazie a delle riforme sociali ed economiche già in atto e a un atteggiamento, da parte di Re Mohammed VI, molto più aperto verso i manifestanti.
C’è poi il caso di un Paese retto dal 1969 dal rais Muhammar Gheddafi e dove, dal 1977, è in vigore una particolare forma di governo denominata “Jamahiriya”, ossia “Repubblica delle Masse”. Non esiste una vera e propria separazione dei poteri, così come non esistono partiti politici od associazioni ed il parlamento viene visto come una falsa risoluzione del problema della rappresentanza. Il riferimento è alla Libia, nazione che grazie agli ingenti introiti del petrolio vive negli anni antecedenti al 2011 un’importante stagione di sviluppo favorita anche dalla fine delle sanzioni internazionali e dall’allentamento della pressione politica su Gheddafi.
Quando nelle confinanti Tunisia ed Egitto si scatenano le rivolte, in Libia la situazione appare molto più calma. A Tripoli sono convinti dell’impenetrabilità della primavera araba nel loro territorio. Questo grazie a un reddito pro capite tra i più alti del continente africano e un contesto economico e sociale migliore rispetto ai vicini. Qualcosa accade invece il 16 febbraio 2011 a Bengasi. Viene organizzata una prima manifestazione a favore di alcuni blogger arrestati dalla Polizia. Il giorno successivo, nella stessa Bengasi e nella regione orientale della Cirenaica, si contano diversi raduni di protesta. E gli scontri non tardano ad arrivare. Inizia così un periodo di insicurezza che sfocia in una guerra non ancora risolta.
Una parte dei manifestanti dà vita al cosiddetto Cnt, il Consiglio Nazionale di Transizione. A marzo la comunità internazionale riconosce questo organo come legittimo rappresentante della Libia. Segno di come oramai soprattutto l’Europa ha abbandonato Gheddafi al suo destino. Il rais, come Mubarack in Egitto, crede nel sostegno occidentale per via dello spettro dell’avanzata jihadista. Al contrario, Francia e Gran Bretagna a inizio marzo premono per un intervento volto a creare in Libia una no fly zone. Questo in virtù di alcune informazioni, riportate dalla tv del Qatar Al Jazeera e negli anni poi rivelatasi infondate, su bombardamenti effettuati da Gheddafi contro i manifestanti e fosse comuni create per seppellire i loro corpi.
Il consiglio di sicurezza dell’Onu vota la risoluzione 1973 sulla no fly zone in Libia e il 19 marzo pare un’operazione militare anglo-francese in seguito coordinata dalla Nato ed a cui parteipa anche l’Italia. L’obiettivo è impedire ai jet di Gheddafi di alzarsi in volo. Questo nella realtà determina un enorme vantaggio tattico per gli insorti. Le forze anti Gheddafi raggiunto Tripoli il 23 agosto e Sirte, l’ultima roccaforte gheddafiana, il 20 ottobre. Il rais stesso viene scovato e barbaramente ucciso assieme al figlio Mutassim.
Ancora oggi però il conflitto in Libia non è terminato: il Paese è sempre più frammentato, non esiste una vera e propria autorità centrale e dal 2011 il suo territorio non ha mai trovato pace.
Tra i vari Paesi coinvolti nelle proteste, tra gennaio e febbraio spicca anche la Siria. Qui al potere vi è il presidente Bashar Al Assad, figlio di Hafez Al Assad ed esponente del partito Baath, formazione nata all’epoca della stagione del panarabismo socialista. Nel 2011 anche in questa nazione non mancano problemi di natura economica e sociale, tuttavia le varie anime che la compongono appaiono ben integrate tra loro. Non ci sono infatti problemi tra la minoranza sciita, a cui appartiene il presidente Assad, e la maggioranza sunnita. In Siria è presente inoltre una folta comunità cristiana, a cui è attribuita libertà di culto.
Durante le prime manifestazioni si chiedono migliori condizioni economiche. Viene preso di mira anche il monopartitismo del partito Baath. Nei primi due mesi di proteste tuttavia non si registrano particolari adesioni alle varie manifestazioni, soprattutto perché il moto della primavera araba in Siria inizialmente non riguarda le grandi città. Il discorso invece cambia a partire dal 15 marzo 2011: in questa data si registrano i primi morti nella città di Daraa durante una manifestazione. Da allora, la Siria entra in una spirale di violenza in grado di portare il Paese nell’abisso della guerra civile. La situazione lungo tutto il 2011 è sotto controllo, tuttavia dall’anno successivo gli scontri si fanno sempre più intensi con l’avvento anche di gruppi islamisti che monopolizzano e fila dell’opposizione. Ancora oggi la guerra in Siria è in corso anche se, a differenza che in Libia, qui il presidente è riuscito a rimanere al timone: Bashar Al Assad ha infatti ripreso il controllo di buona parte del territorio
A febbraio del 2011 la primavera araba arriva anche nello Yemen. Paese più povero della penisola arabica, con atavici e pluridecennali problemi sia economici che politici, già a gennaio a Sana’a ed Aden si registrano manifestazioni e scontri molto violenti con le forze di sicurezza. Nel 2011 al potere nello Yemen vi è Alì Abd Allah Saleh, presidente del Paese dal 1978. Anche in questo caso dunque, i manifestanti prendono di mira una presidenza piuttosto longeva. Al contrario che in Tunisia ed Egitto però, Saleh non abbandona in modo repentino il potere. Forte del sostegno della propria tribù e della guardia presidenziale, il capo dello Stato nega ogni ipotesi relativa alle dimissioni.
Una prima svolta tuttavia si ha il 3 giugno 2011, quando lo stesso Saleh rimane gravemente ferito da un attentato in cui perde la vita il primo ministro. Il presidente yemenita riporta gravi ferite ed ustioni nel 40% del corpo ed è costretto a ricorrere alle cure mediche in Arabia Saudita.
Le proteste nel frattempo si intensificano e Saleh, dalla sua convalescenza, attua prime concessioni quali, su tutte, la promessa di non ricandidarsi alle prossime elezioni. Nel febbraio del 2012, Saleh è costretto però a capitolare definitivamente lasciando il potere al suo vice Hadi. Lo Yemen non trova però una sua stabilità e, così come in Libia ed in Siria, scivola in una guerra civile ancora oggi non risolta. Nel 2014 infatti la milizia filo sciita degli Houti conquista la capitale Sana’a, nel marzo del 2015 una coalizione a guida saudita dà il via a un’operazione militare ancora in corso. I conflitti generati dalle tensioni del 2011, hanno provocato migliaia di vittime e milioni di cittadini rimasti senza generi di prima necessità.
L’onda della primavera araba rischia di travolgere anche il piccolo arcipelago del Bahrein, retto da una monarchia guidata dalla famiglia Al Khalifa dall’anno della sua indipendenza. Il Bahrein è una delle cosiddette “petromonarchie” del Golfo, ossia quegli Stati con a capo gli sceicchi arricchitisi con la vendita del petrolio. A differenza dei suoi più prossimi vicini, il Bahrein ha al suo interno una composizione della popolazione formata in maggioranza da sciiti, i quali compongono almeno il 70% dei cittadini del piccolo arcipelago affacciato sul Golfo Persico. Le proteste iniziate qui nel febbraio 2011, sono quindi da attribuire alle rivendicazioni della maggioranza sciita, da sempre ai margini della vita politica.
Il 14 febbraio 2011 su internet viene indetta la cosiddetta “giornata della collera” e centinaia di manifestanti si radunano in piazza della Perla, nel centro di Manama, la capitale. Per diversi giorni qui manifestanti ed esercito si fronteggiano. Le proteste sono così importanti da comportare, tra le altre cose, anche la cancellazione del gran premio di Formula Uno, appuntamento internazionale più importante ospitato dal Bahrein.
A marzo Re Hamad bin Isa Al Khalifa fa simbolicamente abbattere il monumento posto a piazza della Perla, rivendicando in tal modo il recupero della piazza nei confronti dei manifestanti. L’uso della forza unito ad una mancata pressione internazionale sulla famiglia Al Khalifa, fa terminare senza ulteriori grossi sussulti la primavera araba nel Bahrein.
In generale, si può certamente affermare che la primavera araba tocca nel suo complesso l’intero Golfo Persico. Il caso del Bahrein ha delle peculiarità importanti dovute alla composizione della popolazione, ma anche le altre monarchie del Golfo non sono immuni dall’onda delle manifestazioni. A partire dall’Arabia Saudita, dove oltre alle proteste di piazza si sviluppa un movimento di intellettuali che chiede riforme politiche e sociali. Il Paese, retto dalla famiglia Saud e da un’interpretazione rigida dell’Islam ispirata al wahhabismo, vive intense settimane di mobilitazione. Ma le proteste si esauriscono in poco tempo.
Stesso discorso vale per il Kuwait, al cui interno si sviluppa un’importante contestazione contro una parte della famiglia Al Sabah che detiene il potere. La risposta qui è di natura economica, con sussidi e soldi elargiti a tutte le famiglie del piccolo Stato del Golfo. Anche in Oman si hanno nel 2011 importanti manifestazioni, che tuttavia non scafliscono il sistema di potere del sultano Qabus, anche per la popolarità di quest’ultimo.
Altre manifestazioni hanno luogo in diverse città dell’Iraq: il Paese, mai realmente uscito dalla guerra scatenata dagli Usa contro Saddam Hussein nel 2003, scende a più riprese in piazza per chiedere livelli di vita più alti, nonché lo stop alla corruzione ed al dilagare della violenza.
In Tunisia dopo la caduta di Ben Ali si è instaurato il multipartitismo il quale ha portato ad un regime politico considerato come la prima vera democrazia del mondo arabo. Tuttavia, disuguaglianze sociali e disoccupazione sono ancora piaghe ben avvertite al pari della corruzione. I problemi per i quali si è scesi in piazza nel 2011 non sono mai stati risolti. In Egitto nel 2012 si è invece assistito all’avanzata dei Fratelli Musulmani, i quali hanno portato alla presidenza Mohammed Morsi. Quest’ultimo è stato poi oggetto di un’altra ondata di proteste, con migliaia di cittadini che nel luglio del 2013 hanno invocato l’intervento dell’esercito contro di lui. Dal 2014 il Paese è retto dall’ex generale Al Sisi, il quale nelle elezioni ha sempre ottenuto oltre il 90% dei consensi.
In generale, nei due Paesi da cui è partita la primavera araba la situazione di fondo non è variata molto. In altre nazioni le manifestazioni hanno portato a delle guerre ancora in corso, in altre ancora invece molte rivendicazioni non sono state ascoltate. Tuttavia, la primavera araba, anche se mai realmente compiuta, rappresenta un momento spartiacque per il mondo arabo e per l’intero medio oriente. Per la prima volta diversi rais sono stati messi in discussione, così come molti equilibri interni ed esterni alla regione sono variati rispetto al 2011. Negli anni successivi poi, il mondo arabo è stato scosso da altre proteste: in Algeria nel 2019 i moti dei manifestanti hanno poi messo fine all’era di Bouteflika, in Libano sempre nello stesso anno, così come anche in Iraq, le proteste hanno comportato la caduta dei governi fino a quel momento insediati.
Come detto però, la primavera araba ha avuto il forte limite di essere rimasta quasi un’opera incompiuta. E questo ha portato, come principale eredità, una maggiore destabilizzazione dell’area mediorientale. Non solo per i conflitti ancora in corso in Siria, Libia e Yemen, ma anche per l’avanzata del terrorismo e delle posizioni islamiste più radicali, anche sotto il profilo politico.