Soft Power è un termine usato in ambito geopolitico per indicare la capacità di uno Stato di esercitare una certa influenza grazie all’uso di strumenti immateriali, quali la cultura, l’intrattenimento e lo sport. Investire sul Soft Power per un determinato governo, vuol dire puntare sulla propria reputazione e sulla propria immagine all’estero.
Il termine Soft Power è stato coniato per la prima volta sul finire degli anni ’80 del XX secolo dal professore statunitense Joseph Nye. Quest’ultimo, all’interno del saggio The Mean to Success in World Politics, ha parlato di Soft Power come della capacità di un governo di avere successo in ambito internazionale tramite l’uso di strumenti immateriali. Una modalità quindi contrapposta all’utilizzo della forza politica, economica e bellica.
Secondo Nye, il potere di uno Stato consiste soprattutto nella “capacità di un Paese di persuadere gli altri a fare ciò che vuole senza forza o coercizione”. Ma non solo: nel saggio, il Soft Power è inteso anche come “la capacità di plasmare i propri atteggiamenti e preferenze a lungo termine con l’aiuto delle sue società, fondazioni, università, chiese e altre istituzioni della società civile”. Un determinato Paese deve essere quindi in grado, seguendo la strategia del Soft Power, di diffondere la propria cultura, i propri ideali e i propri valori.
Per ribadire il concetto di Soft Power, Joseph Nye è ritornato sull’argomento alla vigilia della seconda guerra del Golfo del 2003. In particolare, il professore di Harward ha puntato il dito contro la scelta voluta dall’allora amministrazione Usa guidata da George W. Bush jr. di usare unilateralmente la forza coercitiva nella guerra al terrorismo. Secondo Nye, avviare un’operazione contro l’Iraq di Saddam Hussein dal dubbio valore legale, avrebbe compromesso la reputazione degli Stati Uniti e dunque l’immagine complessiva del Paese all’estero. In tal modo, il modello culturale americano avrebbe visto un ridimensionamento della sua forza data dall’essere riferimento nel mondo occidentale.
Da qui è possibile vedere nel concetto di Soft Power la centralità dei concetti di reputazione e credibilità. Un governo cioè, nel valutare le sue mosse in politica estera, non può prescindere dall’impatto che esse potrebbero suscitare sull’immagine nel contesto internazionale. Il Soft Power non comprende quindi una mera azione di propaganda. Nella complessità del mondo attuale, dove sono molteplici i fattori politici e culturali capaci di orientare l’influenza dell’opinione pubblica, attuare un piano di Soft Power vuol dire in primis rendere credibile la propria immagine e provare ad esercitare una propria influenza con strumenti che non comprendano l’uso di beni materiali.
Un ambito dove l’uso del Soft Power risalta subito all’occhio, è indubbiamente quello sportivo. L’organizzazione di grandi eventi, capaci di richiamare un pubblico di dimensioni planetarie, è considerato uno dei primi passi da attuare per pubblicizzare all’estero la propria reputazione. Un esempio è dato dalle Olimpiadi di Pechino del 2008. La Cina, ancora non definitivamente “accolta” nel novero delle potenze, ha investito molto sulla buona riuscita dell’organizzazione dei giochi olimpici per imporsi definitivamente come uno dei Paesi di maggior influenza nel contesto internazionale.
Un discorso analogo lo si può fare, sempre con riferimento ai tempi più recenti, all’organizzazione dei mondiali di calcio della Russia nel 2014. L’assegnazione dei grandi eventi è per questo motivo molto contesa tra i vari Paesi. Una regione che sta investendo molto sull’organizzazione di manifestazioni sportive è quella del Golfo Persico. Dal Qatar, che ospiterà i mondiali di calcio del 2022, passando agli Emirati Arabi Uniti, al Bahrein e, più di recente, all’Arabia Saudita, i Paesi di questa regione sono alle prese con importanti sforzi in ambito sportivo. Dai primi anni 2000 sono diverse le competizioni motoristiche, tra Formula Uno e Motomondiale, ospitate nell’area.
Ma oltre all’organizzazione di grandi eventi, il Soft Power nello sport passa anche dai successi sportivi e dagli investimenti in squadre dei più importanti campionati, soprattutto nel calcio. Negli ultimi due decenni, gruppi arabi, cinesi, russi e di altre nazionalità hanno acquistato molti club titolati in Europa. I milioni di Euro investiti nello sport, hanno come obiettivo accrescere la reputazione dei vari Paesi interessati. Un concetto che vale anche per le sponsorizzazioni di grandi club o di eventi internazionali: sono molte le società delle nazioni emergenti che negli ultimi anni hanno inserito i propri marchi nelle maglie di grandi squadre di calcio o tra gli sponsor dei principali tornei agonistici.
Lo sport è soltanto uno dei tanti esempi riguardanti il Soft Power. Sono numerosi gli ambiti che in tal senso è possibile osservare. Si pensi ad esempio al mondo dell’intrattenimento e, in particolare, della musica. Negli Usa l’industria dello spettacolo ha contribuito ad esportare nel mondo il modello americano. Questo è vero anche per altri Paesi: in Corea del Sud governo e multinazionali locali hanno investito nella musica, il fenomeno del genere “K-Pop”, diffusosi soprattutto dagli anni 2000 in poi, è stato importante per lanciare l’immagine del Paese asiatico nel mondo.
La Portland Comunications, agenzia di consulenza politica con base a Londra, ha individuato almeno sei categorie in cui è possibile attuare le strategie di Soft Power. Si tratta, in particolare, di Government, Culture, Enterprise, Education, Engagement, Digital. Una suddivisione non accettata da tutti in ambito accademico e politico, ma che è in grado comunque di orientare la discussione sul tema.
Oltre a Portland anche altre società, come ad esempio la Monocle, ogni anno stilano classifiche sul livello di Soft Power dei diversi Paesi. La lista redatta da Portland è però importante in quanto tiene conto della divisione in sei categorie. Il nostro Paese risulta stabilmente tra i primi 15. Anzi, negli ultimi anni secondo Portland l’Italia è al decimo posto a livello mondiale per il Soft Power: “Il posizionamento dell’Italia potrebbe sorprendere molti – si legge nella valutazione generale fatta da Portland – visti i recenti disordini politici del Paese. Resta il fatto che l’Italia ha un patrimonio culturale senza tempo, con più siti del patrimonio mondiale dell’UNESCO di qualsiasi altro Paese, e una rete diplomatica ampia e attiva”.
“La sua posizione di superpotenza culturale – continua il documento – e i suoi gradimenti costantemente forti, un riflesso dell’onnipresenza globale della cucina italiana e dei suoi iconici marchi di lusso di fama internazionale , significano che il punteggio del Paese può scrollarsi di dosso una classifica debole in molti altri sottoindici”.
Storia, cultura, cucina, marchi e brand importanti, uniti anche a una tradizione sportiva di prim’ordine, hanno conferito all’Italia una grande potenzialità nel Soft Power. Al primo posto della classifica stilata da Portland, figura la Gran Bretagna, seguita da Germania e Stati Uniti.