Aleksandar Vucic, il padre della nuova Serbia

La Serbia è tornata al centro dell’arena europea, nonostante le ferite della disgregazione iugoslava sanguinino ancora, e le sue aspirazioni di egemonia regionale turbano i sonni delle cancellerie di Unione Europea e Stati Uniti.

La Serbia è tornata al centro dell’arena europea, nonostante sia oggi una piccola porzione di ciò che fu e abbia anche perduto l’accesso (montenegrino) al mare. Ha fame di revisionismo, come quella che muove i suoi due alleati di ferro – Russia e Repubblica Popolare Cinese –, e reclama una revisione del finale delle guerre iugoslave. E se non fosse stato per Aleksandar Vučić, difficilmente avrebbe avuto luogo questa rinascita.

Aleksandar Vučić nasce a Belgrado il 5 marzo 1970. I suoi avi paterni erano originariamente di Bugojno, Bosnia centrale, e furono espulsi in Serbia nel corso della Seconda guerra mondiale dagli ustascia croati. Gli altri membri della famiglia Vučić, i più sfortunati, furono invece assassinati dagli ustascia.

Le entrate dei genitori, un economista e una giornalista, permisero al giovane Vučić di avere una vita relativamente agiata e di ricevere una formazione invidiabile: prima gli studi in legge a Belgrado, poi lo studio dell’inglese a Brighton. Descritto da chi lo conobbe in gioventù come sfrontato, Vučić riuscì ad entrare nel “sistema” cogliendo orazianamente l’attimo: un’intervista per diventare intimo con Radovan Karadžić, una partita a scacchi per conoscere Ratko Mladić, le partite allo stadio per tifare la Stella Rossa Belgrado e per fare networking coi membri della classe dirigente iugoslava.

Nel 1993, mentre il sogno iugoslavo va cadendo a pezzi, Vučić si iscrive al Partito Radicale Serbo, una forza di estrema destra mirante alla ricostituzione della Grande Serbia, col quale riesce ad entrare nell’Assemblea nazionale alle parlamentari dello stesso anno. Due anni dopo, nel 1995, Vučić “lo sfrontato” avrebbe preso il comando del Partito.

Il 1998 è l’anno della svolta: Vučić entra nel governo Marjanović nelle vesti di ministro dell’informazione. Sarà lui a gestire la strategia comunicativa di Belgrado durante la guerra del Kosovo, introducendo multe per i giornalisti non conformi alla linea dettata dall’esecutivo, censurando la stampa straniera e implementando altre disposizioni – tra cui la confisca delle proprietà ai rei di disinformazione – in quella che è stata definita la legislazione mediatica più restrittiva di fine Novecento.

Nell’immediato dopoguerra, cioè nel 2000, Vučić fu tra i più grandi detrattori della cosiddetta Rivoluzione dei bulldozer che detronizzò Slobodan Milošević, che, vinto sul campo, era stato appena rieletto alle presidenziali. Il tempo avrebbe dato ragione al fronte degli scettici capitanato da Vučić, siccome oggi è fatto noto e comprovato che la deposizione del leader di guerra fu l’esito di una rivoluzione colorata pianificata e finanziata dagli Stati Uniti.

La plateale uscita di scena di Milošević, ad ogni modo, si sarebbe rivelata molto istruttiva per Vučić, che, dopo un silenzio stampa lungo otto anni, nel 2008 annunciò l’entrata nel neonato Partito Progressista Serbo. Primo passo verso il ritorno ai vertici della piramide del potere.

Il 2008 è l’anno del ritorno nella scena politica. Vučić entra nel neonato Partito Progressista Serbo, di cui viene nominato vicepresidente, cominciando contemporaneamente un processo di pulizia della propria immagine pubblica. Condanna del massacro di Srebrenica. Distanziamento dal defunto Milošević. Nessun riferimento alla Grande Serbia. Se il cambiamento di idee sia genuino o meno non è dato saperlo, certo è che gli permetterà di farsi strada nelle stanze dei bottoni della Serbia post-miloseviciana.

Nel 2012, a causa dell’elezione di Tomislav Nikolić alla presidenza del paese, Vučić assume automaticamente la dirigenza del Partito, destinata alla formalizzazione ufficiale qualche tempo dopo. Lo stesso anno, e fino all’estate di quello successivo, Vučić presterà anche servizio come ministro della difesa. L’inizio dell’ascesa.

Nel 2014, in seguito ai risultati delle parlamentari – un exploit eccezionale per i progressisti –, Vučić viene nominato primo ministro. Ma la sua influenza su Nikolić sarebbe stata tale da renderlo un potere dietro il trono. Potere fattosi trono nel 2017, anno delle presidenziali, grazie all’ottenimento del 56% dei suffragi.

Multivettorialità e neutralità; queste le suadenti parole d’ordine che nel 2017 consentirono a Vučić di magnetizzare il consenso di quasi sei elettori su dieci. Ma il neopresidente non aveva fatto i conti con il peso dell’irrisolta questione kosovara, destinato ad aumentare sensibilmente a causa dell’aggravamento della competizione tra grandi potenze e dell’allargamento dell’Alleanza Atlantica – Montenegro 2017, Macedonia del Nord 2020.

La Serbia non aveva la stazza per potersi permettere ambiguità strategiche, doppi giochi e non allineamenti. O l’Unione Europea o l’Unione Economica Eurasiatica. Accettare l’irreversibilità della perdita del Kosovo o nulla. Occidente o Russia. La Serbia non era e non è l’abile Turchia, sposa della NATO e amante di Russia e Cina, perciò la sfida della costrizione geografica si è rivelata più ardua di quanto preventivato da Vučić.

Davanti al bivio, memore della Rivoluzione dei bulldozer e di Belgrado ’99, Vučić ha optato – dopo aver flirtato a lungo con l’asse Bruxelles-Washington – per il sodalizio con Mosca e Pechino. Sodalizio che ha assunto le forme dell’accordo di libero scambio con l’Unione Economica Eurasiatica del 2018, costatole un’ammonizione ufficiale da parte dell’Eurocommissione, dell’avvicinamento alle Nuove Vie della Seta e del rispolveramento dell’antico gemellaggio politico-culturale con la Russia.

Dopo il breve paragrafo del disgelo dell’era Trump, palesato dagli accordi di normalizzazione parziale con il Kosovo e dalla nascita della mini-Schengen, l’atmosfera nelle terre serbe dell’ex Iugoslavia è andata via via surriscaldandosi – con la complicità e, talvolta, dietro la regia del duo Putin-Vučić. Poiché il ritorno alla serbosfera, realtà pubblicamente rinnegata dal Vučić progressista, ha significato la ricomparsa dello spettro della secessione nella fragile Bosnia ed Erzegovina e il crescendo di escalazioni verbali, diplomatiche e militari con la provincia-divenuta-stato del Kosovo.

Vučić vorrebbe essere ricordato come colui che è riuscito a riscrivere il finale della guerra del Kosovo, aggiungendogli dei termini più favorevoli per la (vinta) Serbia. Consapevole dell’irreversibilità dell’indipendenza del Kosovo, perno della grand strategy degli Stati Uniti nei Balcani, Vučić vorrebbe popolarizzare l’idea di uno scambio territoriale su basi etniche: la valle di Preševo in cambio del Kosovo settentrionale.

La cronicizzazione dello stato di crisi tra Belgrado e Pristina, processo cominciato nel 2021 e accelerato all’indomani della guerra in Ucraina, è da leggersi nel microcontesto del “piano Vučić” per la serbosfera e nel macrocontesto della Terza guerra mondiale a pezzi – dove è il secondo a condizionare il primo.

Chiunque avrà il coraggio di rimettere in discussione il finale delle guerre iugoslave – a suo tempo criticato, tra l’altro, anche da Henry Kissinger – e di andare incontro al presidente serbo, le cui aspirazioni non differiscono molto da quelle dell’omologo kosovaro – essendo entrambi alla ricerca dell’omogeneità etnica nei loro territori –, sarà ricordato come il risolutore definitivo della questione serbo-kosovara. Ma la domanda è se le grandi potenze saranno lungimiranti abbastanza da preferire la diplomazia alle armi.

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