Ahmed, il primo ministro etiope che cerca di far pace con l’Eritrea

Ha compiuto 42 anni da qualche mese. E, il 2 aprile 2018, è stato nominato primo ministro, dopo anni di proteste di piazza, che hanno agitato il secondo stato più popoloso dell’Africa: l’Etiopia. E così, a sei mesi dalla sua elezione, Abiy Ahmed ha iniziato a smantellare, un pezzo dopo l’altro, l’intero apparato governativo, trasformando, almeno in superficie, il volto di uno stato immobile da tanto tempo.

Di etnia oromo, il gruppo etnico maggioritario del Paese, ma anche il più marginalizzato, il nuovo presidente è considerato un riformista. Il suo governo ha, infatti, promosso la riappacificazione con l’Eritrea, tentando di portare a termine il conflitto armato iniziato vent’anni fa e che, dal 1998, insanguina l’area. Abiy Ahmed ha, di fatto, rinunciato alle rivendicazioni territoriali nella zona di Badme, oggetto, in passato, di una disputa territoriale tra Eritrea ed Etiopia. Ed è probabilmente sul tema del conflitto tra i due Paesi che la sua presidenza si sta giocando tutto. Credibilità e progresso, in primo luogo. Appena entrato in carica, Abiy Ahmed ha sostenuto l’applicazione dell’accordo di pace promosso dalle Nazioni Unite nel 2000, che prevedeva la cessione di alcuni territori all’Eritrea, concordando con Isaias Afewerki (dittatore eritreo, in carica dal 1993) la riapertura delle rispettive ambasciate, la ripresa dei rapporti di commercio, lo sblocco della rotta aerea tra le due capitali e delle linee telefoniche dirette, interrotte da decenni.

Nei primi cento giorni, il suo governo ha dichiarato la fine dello stato d’emergenza e ha annunciato piani per privatizzare parzialmente le industrie chiave, comprese le telecomunicazioni e l’aviazione. Ma non solo. L’esecutivo avrebbe anche fatto rientrare in patria i dirigenti dell’opposizione, liberato migliaia di prigionieri politici e avrebbe ammesso, e denunciato, l’uso della tortura da parte dei servizi di sicurezza dello stato. Con il conseguente licenziamento di funzionari carcerari implicati in violazione dei diritti umani, casi segnalati da un rapporto di Human Rights Watch.

Abiy Ahmed ha scelto di ridurre anche il numero di ministri, da 28 a 20. Dieci sono donne e dieci hanno un titolo di dottorato. E ha anche deciso di affidare i ministeri chiave a rappresentanti di gruppi etnici e religiosi storicamente marginalizzati. Due esempi, Ahmed Shide, a cui è stata assegnata la guida del ministero delle Finanze, un musulmano della regione somala, e Aisha Mohamed, musulmana della regione di Afar, alla Difesa. Altra novità, la creazione di un nuovo dicastero, che sorvegli e limiti l’apparato di sicurezza etiope, compresi i servizi di intelligente. L’ha chiamato “Ministero della Pace” e ha deciso di consegnarlo a un’altra donna musulmana, Muferiat Kamil, la prima presidente della Camera.

Ma le reazioni al nuovo assetto istituzionale etiope non sarebbero, finora, tutte soltanto positive. A cominciare dalle nuove investiture. Alcuni gruppi etnici accuserebbero, infatti, Abiy Ahmed di non essere stati adeguatamente rappresentati. Altri non accolgono positivamente la presenza di così tante donne in ruoli chiave. Inoltre, le riforme, in generale, sono state contrastate e la detenzione illegale di migliaia di giovani, accusati di violenze interetniche è stata fortemente contestata. Gli episodi violenti, poi, rispetto ai mesi precedenti, sarebbero cresciuti dell’8%, almeno secondo quanto riferito dall’Armed conflict location and event data project.

L’audace promessa di cambiamento di Abiy Ahmed si troverebbe oggi a un bivio importante. La riuscita di una creazione di un nuovo modello contemporaneo per la gestione delle transizioni da un sistema monopartitico a un governo del popolo. O il fallimento.

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