Narendra Modi, un uomo solo al comando in India. Il leader del Partito Popolare Indiano (Bjp), trionfatore alle elezioni politiche del 2014 e forte della riconferma plebiscitaria del 2019, guarda all’orizzonte del 2024 per potenziare ulteriormente il suo progetto politico.
Nazionalismo spinto, retorica etno-religiosa molto spiccata, desiderio di proiezione geopolitica ed economica, venature liberiste sul fronte economico interno: la galassia ideologica di Modi è eterogenea ma si è dimostrata, nel corso della sua carriera politica, di successo. In relazione, soprattutto, alla capacità del leader di costruire un rapporto diretto con la massa della popolazione e di presentarsi, a più riprese, come un uomo di rottura col passato.
Il cavallo di battaglia di Modi è riassumibile in una parola: Hindutva. Questo il nome dell’ideologia nazionalista su cui si basa la visione politica che lo ha accompagnato dalla gioventù, basata sul motto “Hindu, Hindi, Hindustan”: una religione, l’induismo, una lingua, l’hindi, per una terra consacrata a una comunità nazionale omogenea e la cui dominazione dovrebbe spettare a un ceppo ben definito. Nato nel 1950 vicino Bombay, Modi si è formato politicamente nella Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss, “Organizzazione Volontaria Nazionale”), un’ampissima associazione con oltre 5 milioni di membri e iscritti che ha nel proselitismo dell’Hindutva la sua missione e che è organizzata attraverso una forte rete di strutture solidaristiche, sezioni locale, organizzazioni volontarie. Emanazione diretta della Rss è il Bjp di Modi, che nei primi Anni Novanta iniziò una lunga scalata in seno al partito che lo avrebbe portato, nel 2001, alla nomina di Primo ministro dello Stato del Gujarat, 60 milioni di abitanti, all’estremo ovest del Paese, dopo che il suo predecessore era stato travolto da una serie di scandali.
La corsa alle elezioni legislative del Gujarat del 2002 permise a Modi di scatenare tutto il suo arsenale politico e retorico: cavalcando il desiderio di sicurezza della popolazione (la regione era al confine col Pakistan e vicina al turbolento Afghanistan) e lanciando una dura campagna contro la minoranza musulmana Modi vinse trionfalmente, venendo poi confermato nel 2007 e nel 2012. In dodici anni da governatore, Modi ha stimolato con investimenti e politiche fiscali la crescita del Gujarat, ma è stato accusato di aver fatto poco per migliorare gli standard di salute e la lotta alla povertà.
Nel 2013 Modi decise di dare il grande assalto alla politica nazionale, lanciando la campagna per le elezioni politiche nazionali della primavera 2014, cavalcando l’insoddisfazione contro il Partito del Congresso storicamente egemone, rilanciando l’ideologia dell’Hindutva come “via indiana al sovranismo”, lanciando una campagna innovativa attraverso apparizioni in ologramma, bombardamenti via social e mobilitazioni senza precedenti della Rss. Alla base nazionalista della popolazione si aggiunse l’interesse della finanza e della grande industria indiana, favorevoli alle politiche pro-business e alle liberalizzazioni promesse da Modi.
Modi stravinse le elezioni garantendo nel 2014 la maggioranza assoluta al Bjp e ripetendosi poi nel 2019. Nella sua amministrazione Modi ha seguito il principio di centralizzare il potere politico e liberalizzare quello economico: il “nazional-liberismo” ornato di retorica millenarista sul destino manifesto del popolo indiano ha cooptato l’attenzione della grande massa della popolazione.
Modi è stato sicuramente il premier indiano più ascoltato nei grandi consessi internazionali: ha costruito un rapporto solido con Donald Trump senza però abdicare all’autonomia strategica nell’Indo-Pacifico, dialogato a tutto campo con Xi Jinping per mediare l’aspra rivalità sino-indiana e intrattenuto un rapporto di reciproco rispetto anche con Vladimir Putin. Dai leader asiatici e africani, spesso visitati per espandere le prospettive politiche ed economiche dell’India, Modi è riconosciuto come il “quarto grande” assieme ai tre sopra citati.
In campo economico, l’India è ora la quinta economia del pianeta ma i livelli di disuguaglianza sono arrivati a livelli ruggenti. Modi ha provato da un lato a liberare gli “spiriti animali” del capitalismo attraverso sconti fiscali, semplificazioni burocratiche e riforme del diritto privato che hanno sbloccato le possibilità di acquistare terreni liberamente e dall’altro ha creato non pochi problemi alla popolazione con la riforma monetaria che ha decapitato la disponibilità di contante nel Paese. Più successo ha avuto il piano Make in India per rafforzare la posizione dell’industria manifatturiera.
Sul fronte interno, lo sdoganamento dell’Hindutva ha dato nuovo fiato alle trombe della propaganda del nazionalismo indù, contribuendo, secondo quanto detto dalla Bbc, a una nuova ondata di violenze etnico-religiose nel Paese: il recente giugno è stato il mese più sanguinoso dall’insediamento di Modi, con diversi attacchi registrati all’indirizzo dei musulmani che si vanno ad aggiungere a quelli degli anni precedenti, causa di oltre 40 morti tra 2015 e 2018.
La revoca dell’autonomia del Kashmir avvenuta nel 2019, che ha avuto effetti a cascata nei rapporti con il confinante Pakistan, si inserisce nella logica “l’India agli hindu” cavalcata dal partito di Modi. Ma anche i cristiani non possono dormire sonni tranquilli, dato che come ricorda Tempi nell’ottica della frangia più estrema del Bjp, che gode di sostanziale impunità, Islam e cristianesimo sono considerati egualmente come ceppi allogeni da estirpare dalla società. Amit Shah, onnipotente Ministro dell’Interno di Modi, è arrivato a sostenere che solo gli hindu dovrebbero godere dei diritti di cittadinanza: e le sue parole sono una testimonianza delle grandi contraddizioni di cui il leader del Bjp è simbolo, portavoce e manifestazione.
Sul fronte della politica internazionale l’India targata Narendra Modi ha seguito una via segnata sia dalla volontà di espandere l’influenza nel contesto regionale asiatico sia un sostanziale contrasto alle ambizioni geopolitiche del principale rivale, la Cina, nel cui quadro si è inserito il dualismo col vicino Pakistan e il rapporto con i principali attori dell’Indo-Pacifico.
Sia durante l’amministrazione di Donald Trump che nel corso di quella di Joe Biden gli Stati Uniti hanno guardato all’India come a un potenziale alleato sistemico con cui controbilanciare la Cina, un partner militare, economico e tecnologico in grado di ampliare il contenimento di Pechino, il pivot dell’Indo-Pacifico assieme al Giappone guidato da Shinzo Abe e Yoshihide Suga e all’Australia di Scott Morrison.
Nuova Delhi ha fortemente criticato la Nuova via della seta cinese, ha amplificato il contrasto in termini di proiezione geopolitica e militare e di iniziative economico-finanziarie alle volontà di Pechino, ha fatto asse con Unione Europea e Giappone per creare un’alternativa commerciale e infrastrutturale, ha promosso con Washington, Tokyo e Canberra i dialoghi securitari del Quad, ha pure dato sponda alla “Global Britain” aprendo il dialogo con il governo di Boris Johnson ma si è sempre mantenuta il più autonoma possibile.
Tra gli alleati sistemici dell’India, nel corso degli anni di governo di Modi, sono emersi Paesi come Israele e Azerbaijan, importanti partner sotto il profilo strategico-militare; la relazione con la Russia di Vladimir Putin è rimasta fondamentale e strategica sul fronte della cooperazione nella difesa, in continuità con una profonda tradizione che risale ai tempi della Guerra Fredda.
L’India di Modi è parsa tra le nazioni più strategiche durante la prima fase della pandemia di Covid-19, che ha colpito profondamente il Paese, per il suo ruolo di “farmacia del mondo” acquisito nel corso degli anni. Il Serum Institute di Pune è diventato tra i produttori più strategici di vaccini al mondo, e il Paese ha siglato accordi chiave con le principali case farmaceutiche per accelerare la campagna di messa in linea della produzione dei vaccini anti-Covid. Facendo ulteriormente risaltare il peso crescente assunto dall’India, dinamico attore nelle questioni internazionali, nella complessa geopolitica asiatica del XXI secolo.
Il rivale pakistano è stato a lungo il Paese più attenzionato da Nuova Delhi durante i governi di Modi. Col Pakistan, invece, il 2019 e il 2020 sono stati segnati da scontri al confine e scaramucce politico-militari a cui il governo indiano ha dato un’elevata enfasi retorica. Nuova Delhi e Islamabad si sono trovate sempre più alternative e in contrasto reciproco, salvo poi iniziare nel 2021 un percorso di riavvicinamento per provare a trovare un modus vivendi sistemico, guidato dalle alte sfere militari dei due Paesi.
Durante il governo nazionalista di Imran Khan a Islamabad, le tensioni si sono alimentate più volte e lo status del Kashmir, il movimento nelle terre conteste di confine, le incursioni di gruppi paramilitari e le rivalità politiche hanno caratterizzato i rapporti tra i due Paesi.
Quella indo-pakistana è stata però una “tensione stabile” finalizzata a mantenere alta l’allerta (e la retorica) di entrambe le parti, mentre nel frattempo le caste militari hanno provato a dialogare. Scongelando il braccio di ferro continuamente in atto tra le due repubbliche figlie dell’Impero Britannico.
Le frizioni più dure ci sono state relativamente ai progetti idroelettrici sui fiumi Indo, Jhelum e Chenab promossi dal governo Modi prima che i corsi d’acqua entrino in territorio pakistano. Islamabad vede i progetti come fumo negli occhi. Ma la rivalità appare incuneata maggiormente su binari controllabili rispetto al passato. Anche per la volontà di non andare fino in fondo nello scontro espressa dal nazionalista Modi, qui sorprendentemente moderato.
Lo scoppio della guerra in Ucraina ha messo l’India di Modi di fronte a una grande prova politica di maturità. Il premier non ha negato la storica amicizia con la Russia nonostante la natura di aggressore di Mosca nel conflitto in Est Europa. Al contempo, però, si è mantenuto su una linea di stretta neutralità che ha permesso a Nuova Delhi di giocare da ago della bilancia nei confronti degli amici occidentali e della rivale Cina. Governando una tendenza di crescente rilevanza dell’asse Indo-Pacifico per il contesto mondiale.
Nuova Delhi ha accelerato la strategia che la portava diversificare l’approvvigionamento di attrezzature militari per le sue forze armate superando la dipendenza da Mosca, avviata già nei primi anni di Modi. Lo Stimson Institute, inoltre riporta che molti analisti indiani “sostengono che l’India deve prepararsi per avere a che fare con una Russia indebolita e più legata alla Cina”. Una Russia che “potrebbe essere spinta a intraprendere azioni ostili agli interessi dell’India”. Ma questo nel lungo periodo. Sul breve l’India ha compensato aumentando notevolmente gli acquisti di petrolio in saldo dalla Russia per poi rivendere derivati e prodotti raffinati ai Paesi che avevano messo in campo l’embargo a Mosca, Ue e G7 in testa.
A settembre 2022 Modi ha incontrato Putin al vertice Csto di Samarcanda ricordandogli che “non è più epoca per guerre” ma anche definendo “indistruttibile” l’amicizia russo-indiana. Contemporaneamente è iniziato il percorso verso la leadership indiana del G20 2023, appuntamento cruciale in cui Nuova Delhi e Modi avranno una platea globale di visibilità e dovranno mediare tra tutte le parti in causa. Punto di arrivo di un decennio di potere che il premier nazionalista vuole consolidare in vista del voto del 2024.