Roman Fyodorovich von Ungern-Sternberg fu un personaggio unico nella storia dell’Asia orientale a cavallo tra il XIX e il XX secolo, che incrociò la sua traiettoria con la storia a lui contemporanea segnata dalla disgregazione dell’Impero russo e dalla Rivoluzione bolscevica e dai retaggi di un antico passato che lo ossessionava e a cui faceva pieno riferimento.
Guerriero coraggioso in gioventù, Ungern si ritagliò dopo la fine della Grande Guerra un ruolo primario nelle forze controrivoluzionarie. Grazie a Bestie, Uomini, Dei, il saggio del fisico polacco Ferdinand Antoni Ossendowski che lo incontrò nel 1921, si è potuto capire appieno la portata e la visione d’insieme del progetto cui “Ungern Khan” si dedicò anima e corpo per attrarre attorno a sé militari, monaci buddisti, sciamani per contribuire alla creazione di un mondo pre-moderno nelle steppe dell’Asia orientale. “Barone pazzo” per qualcuno, figlio dei suoi tempi che agì strumentalmente per essere temuto dai nemici per altri, Ungern ha lasciato un segno come figura unica garantendo l’estrema forma di resistenza identitaria al comunismo trionfante all’inizio degli Anni Venti.
Ungern-Sternberg nacque a Graz il 10 gennaio del 1886, discentente di una delle più antiche famiglie tedesche aristocratiche del Baltico che faceva risalire fino a Batu Khan, il fondatore dello Stato mongolo dell’Orda d’Oro, la sua genealogia. Cresciuto nell’attuale Estonia, nutrito fin dall’inizio della sua esistenza in famiglia dello spirito identitario e di una passione per il buddhismo e l’Oriente propria di molti esponenti dell’alta società russa del tempo Ungern sentì forte il richiamo identitario della Russia, e si arruolò come allievo ufficiale alla Scuola Militare Pavlosk di San Pietroburgo nel 1906.
Nel 1909 iniziò le sue peregrinazioni nell’Esercito zarista e, complice la passione per l’esoterismo, fu attratto dall’Oriente, dal richiamo delle steppe mongole e dagli estremi confini dell’Impero. Nel 1913 venne distaccato come ufficiale esterno nel distaccamento delle guardie cosacche presso il consolato russo di Khovd, nella Mongolia occidentale, nei mesi in cui si consolidava il processo d’indipendenza della nazione erede dell’Impero di Gengis Khan dalla Cina dove era stata detronzizata la dinastia dei Qing. Fu in Mongolia che si consolidò la sua definitiva conversione al buddhismo.
Allo scoppio della Grande Guerra nel 1914 Ungern fu portato a combattere dalla parte opposta dell’impero, nei quadri del 34° reggimento cosacco, al confine occidentale in Galizia, schierato contro gli austro-ungarici e da ufficiale riuscì a conquistarsi una serie di onorificienze come la Croce dell’Ordine di San Giorgio, la croce dell’Ordine di San Vladimiro e con quella dell’Ordine di San Stanislao.
Nel 1916 fu la volta, con lo spostamento nel Caucaso, sul fronte contro l’Impero ottomano, ove si consolidò il suo rapporto con il capitano cosacco (l’atamano) Grigorij Semyonov. Negli anni in cui andava in scena l’orribile crimine del Seyfo (il genocidio assiro), Ungern e Semyonov si distinsero come reclutatori di cristiani di etnia assira contro la Sublime Porta, ottenendo localmente diversi successi tattici con le truppe da loro organizzate che non passarono inosservate al governo russo che nella Rivoluzione di febbraio, nel 1917, depose lo Zar Nicola II, costituito dal partito dei Cadetti, dai menscevichi liberali e borghesi e da alcuni elementi social-rivoluzionari
Il nuovo esecutivo invio Ungern-Sternberg in Estremo Oriente, sotto il comando dell’ataman Semyonov, scelto come comandante dei cosacchi del Baikal, per consolidare il processo di creazione di milizie volontarie di cavalleria in Buriazia. Fu questo invio che trasformò definitivamente il combattente nato a Graz in “Ungern Khan”.
La Rivoluzione bolscevica sorprese Ungern che la aborrì profondamente, considerandola una potenziale sciagura, senza però portarlo a sposare definitivamente i controrivoluzionari “bianchi”. Pur detestando il comunismo, e andando di Semyonov, deciso a far fronte comune con gli occidentali e i giapponesi in funzione anti-bolscevica, Ungern sognava un progetto ben più ampio.
Legami profondi con il retaggio imperiale andato distrutto si univano alla nuova visione buddhista e fortemente gerarchica del mondo proprio di Ungern nel promuoverne la svolta. Il clima rovente della guerra civile russa in via di sdoganamento, da fine 1917 in avanti, fece il resto.
Come ha ricordato Emanuel Pietrobon, Ungern “vedeva nel buddhismo centro-asiatico e nelle società cui aveva dato origine il prototipo di un mondo valoriale, fortemente gerarchico che avrebbe riportato la rivincita dello Spirito sul mondo materiale, rappresentato ai suoi occhi dal bolscevismo”, ritenuto quasi un flagello demoniaco. Ferocemente classista, timoroso della possibilità che contadini e operai prendessero il potere, Ungern non si limitava all’anticomunismo ma “voleva compiere una vera e propria contro-rivoluzione, che avrebbe dovuto portare il mondo in tutt’altra direzione”.
Mese dopo mese, comandando truppe e coagulando su di sé un numero crescente di uomini iniziò a sognare una “Grande Mongolia reazionaria e teocratica dal lago Bajkal al Tibet e dalla Manciuria al Turkestan per unificare i grandi imperi cinese e russo, tanto che nel gennaio 1919 a Cita organizzò una Conferenza pan-mongola, con buriati, mongoli e altre minoranze, sostenendo l’idea della restaurazione di una teocrazia lamista”. Nacque l’epopea della Divisione Asiatica di Cavalleria, composta da cosacchi, coreani, tibetani, mongoli, buriati e giapponesi, ma anche il mito del “Barone Pazzo”: Ungern e Semyonov seminarono il terrore tra la Mongolia e il Lago Bajkal assieme alle loro truppe, reprimendo ogni possibile afflato filo-comunista, disponendo massacri ed esecuzioni sommarie per mantenere la disciplina.
Aleksandr Vasil’evič Kolčak, comandante dei “bianchi”, tentò più volte di arruolare Ungern nel quadro delle sue forze ma la guerra privata anti-comunista di Ungern Khan, condotta da agili bande di cavalieri, proseguì su altri binari. Dall’effimero Stato cosacco di Transbaikalia creato col sostegno dei giapponesi tra il 1918 e il 1920 gli uomini di Ungern conducono le loro operazioni contro chiunque arrivi a tiro. Come ricordato da Federico Mosso ne Il club degli insonni, nel turbine della guerra civile “i cavalieri di Ungern approfittano della situazione per dedicarsi ad uno dei loro passatempi preferiti: l’assalto ai treni di rifornimenti delle parti in lotta. Dai boschi innevati a ridosso dei binari, centinaia di diavoli scatenati sbucano con la sciabola in mano gridando il nome di von Ungern-Sternberg, aggredendo i convogli scortati da guardie intorpidite da viaggi lunghissimi che vengono fatte a pezzi senza pietà alcuna. Vengono presi di mira sia i treni battenti bandiera rossa sia quelli con i vessilli zaristi”. L’Estremo Oriente era diventato una vera e propria terra di nessuno, il regno privato del “Barone Pazzo”.
Ungern puntò a colpire anche un’altra potenza ritenuta minacciosa per i suoi sogni universali, la Cina, che dopo la Grande Guerra aveva represso l’indipendenza mongola conquistando Urga (Ulan Bator), cuore del lamaismo provessato dal Barone e sua “capitale morale”. Tra il 1920 e il 1921 Ungern accerchiò graudalmente Urga con i suoi uomini arrivando a occuparla il 4 febbraio 1921, reinsediando il legittimo sovrano Bogdo Khan.
Il 13 marzo 1921 la Mongolia venne proclamata una monarchia indipendente e Bogdo Khan accettò che von Ungern-Sternberg ne diventasse il dittatore militare e il vero e proprio leader religioso. La Mongolia divenne l’ibrido tra un regime castrense e una teocrazia lamaista in cui una retorica mutata dal nazionalismo russo si ibridò con le tradizioni mongole e una pompa cerimoniale di stampo cinese.
Dichiarato un’emanazione di Mahakala, la versione buddhista di Shiva, dal XIII Dalai Lama, Thubten Gyatso, Ungern fu preso da un vero e proprio delirio di onnipotenza. Quasi mille persone furono uccise per ordine di Ungern nei pochi mesi in cui fu al governo della Mongolia.
Cominciò a coltivare l’idea di reinstaurare la Dinastia Qing sul trono della Cina per poi unificare i paesi dell’Estremo Oriente sotto di essa. Fanatico anti semita, nel 1918 proclamò per la prima volta di voler sterminare tutti gli ebrei e i comunisti russi, vedendoli come un tutt’uno, e da leader della Mongolia proseguì con la medesima retorica. Incontrandolo, Ungerne descrisse il proprio progetto a Ferdinand Ossendowski, che lo riportò nel suo diario di viaggio, scrivendo che Ungern aveva previsto “l’incombere rivoluzionario” per reagire al quale fu elaborato un piano preciso, quello d “riunire tutti i popoli mongoli, che non avevano dimenticato la fede e gli usi tradizionali. Di questo stato dovrebbero far parte cinesi, mongoli, tibetani, afgani, tartari, buriati, kirghizi e calmucchi. Per erigere una barriera contro il dilagare della rivoluzione e preservare spiritualità e filosofia”.
Un progetto strategicamente calcolato ma, al tempo stesso, basato su un presupposto non realizzato: l’idea che le avanzate di Ungern avrebbero portato le popolazioni locali ad aprirgli le porte delle città in reazione contro i bolscevichi e gli avversari occidentali. Presupposto fallace per un uomo che aveva seminato dietro di sé morte e distruzione: Ungern provò ad invadere la Siberia, pensando che la popolazione locale fosse dalla sua parte e sottostimando l’entità delle unità a disposizione degli uomini di Lev Trockij. Inoltre, il suo esercito aveva subito gli effetti di anni di campagne faticose e complesse: quando Ungern fu sconfitto duramente in Buriazia a Kyakhta in due battaglie, l’11 e il 13 giugno, fu l’inizio della fine. In pochi mesi partirono ammutinamenti, defezioni, diserzioni. Ungern provò a ripiegare verso la Mongolia, ma venne colpito dalla reazione della popolazione stufa della pressione esercitata dalle sue truppe sui civili.
Di fronte all’ipotesi di dover tentare una difficilissima traversata estiva del Gobi gli uomini di Ungern lo consegnarono ai bolscevichi in avanzata. Processato, fu fucilato il 15 settembre 1921 a Novosibirsk. La vendetta sovietica avrebbe colpito anche il suo sodale, Semyonov, che rimasto nell’area del Baikal e sconfitto dall’Armata Rossa, fu costretto a fuggire, prima a Nagasaki, poi negli Stati Uniti, poi in Cina, dove mantenne legami con l’intelligence giapponese, infine in Manciuria dove, alla fine della Seconda guerra mondiale, fu raggiunto dalle truppe di Stalin, arrestato e infine impiccato nel 1946.
L’epopea violenta, a tratti onirica e fuori dal tempo del barone Ungern e dei suoi alleati, a un secolo di distanza, appare difficilmente comprensibile se non si pensa all’elevata complessità sociale, politica e culturale dello spazio lasciato dal naufragante Impero russo alla fine della Grande Guerra e alla grande complessità dei suoi popoli. Ovunque, dal Caucaso all’Oceano Pacifico, l’avanzata bolscevica portò una serie di rivolte e reazioni spesso di matrice identitaria, represse nel sangue nel corso degli anni. I soviet portarono, negli anni, la pace a prezzo dell’annichilimento di storie e tradizioni culturali. Ungern Khan non capì gli effetti di anni di stremanti sofferenze per le popolazioni e i suoi uomini e andò in rovina per questo. Ma con la sua epopea l’Asia centrale, la terra di Gengis Khan, ebbe per pochi, fatidici mesi un periodo in cui si potè pensare protagonista della storia.