Nel nord-ovest dell’Iraq, nella piana di Ninive, vive la minoranza etnico-religiosa degli yazidi, un popolo affascinante e ricco di storia sotto diversi punti di vista affine ai conterranei curdi, ma da questi distinto sotto il profilo culturale.
Nell’area che si sviluppa attorno alla cittadina di Sinjar, gli yazidi vivono da centinaia di anni dopo esser venuti a contatto con la sequela di invasori, conquistatori e colonizzatori che si sono succeduti nell’attuale Mesopotamia, dai persiani ai britannici passando per i turchi ottomani e essere sopravvissuti a una serie di persecuzioni religiose che la loro tradizione orale riporta essere state in tutto settantadue. Di queste, l’ultima e più brutale ha portato il nome di questo piccolo e antico popolo alla ribalta della cronaca internazionale e svelato la barbarie dello Stato islamico, che nel 2014 avviò una campagna di omicidi di massa, sequestri e conversioni forzate contro gli yazidi.
Come scrive Gerard Russell in Regni dimenticati, “nessuno studioso conosce per intero la storia degli yazidi. La lontananza e la segretezza che li hanno tenuti al sicuro dalle interferenze esterne li hanno anche tenuti fuori dai libri di storia. Ma contrariamente ai mandei, che vivono in relativo isolamento nelle pianure irachene, gli yazidi sono venuti a contatto con molte religioni e culture differenti nel corso degli ultimi duemila anni, e ne sono stati influenzati”.
Sebbene la tradizione degli studi orientalistici occidentali inserisca lo yazidismo nel filone delle religioni musulmane, tale tesi è stata contestata da grandi islamologi come Alessandro Bausani, secondo il quale le dottrine di questa minoranza, piuttosto, sarebbero il frutto di un lungo sincretismo religioso basato sulla contaminazione tra diverse dottrine gnostiche, l’antica religione zoroastriana con la sua dicotomia tra bene e male, il cristianesimo e, solo in parte residuale e in relazione a precisi principi pratici, l’islam. Gli yazidi sarebbero dunque il prodotto e i testimoni viventi della storia e della cultura del Vicino Oriente: una cultura che risulta il più grande antidoto alle devastazioni che troppo spesso ha sconvolto queste regioni.
Nella religione yazida un Dio creatore dell’universo e delle stesse forze definibili come “Bene” e “Male”, la cui manifestazione sarebbero i sette “Grandi Angeli”, il più importante dei quali è la figura centrale del culto, l’angelo-pavone Melek Ṭāʾūs, che secondo la tradizione si sarebbe in principio ribellato al creatore, salvo poi redimersi e favorire la vittoria del bene. Le lacrime del pianto di Melek Ṭāʾūs seguito poi dal suo pentimento avrebbero, secondo gli yazidi, spento le fiamme dell’inferno: questa credenza è ritenuta all’origine del complesso sistema della “vita dopo la morte” della religione yazida, che prevede per i giusti l’ascesa al Paradiso e per gli operatori d’iniquità la reincarnazione in esseri inferiori secondo il meccanismo della metempsicosi.
La somiglianza superficiale tra Melek Ṭāʾūs e l’angelo ribelle per antonomasia della tradizione biblica e coranica, Lucifero, ha più volte portato gli osservatori occidentali e islamici a definire gli yazidi come “adoratori del diavolo”. Tale equivoco è stato amplificato dalla ritrosia di queste genti alla pronuncia del nome di Satana (in arabo shaytan), che secondo quanto scrive Russell “è proibito loro proferire nella maniera più assoluta ed è coperta da un rigoroso tabù”. Tale equivoco ha avuto risvolti tragici in occasione delle diverse persecuzioni subite dagli yazidi nel corso della loro storia, come i fatti del 2014 hanno tristemente dimostrato.
Nel 2014 la furia dell’Isis si è abbattuta sulle poche centinaia di migliaia di yazidi travolti dall’avanzata delle bandiere nere. La conquista di Sinjar da parte dell’Isis, il 3 agosto 2014, aprì la breve ma brutale fase della persecuzione dei terroristi contro gli “adoratori del Demonio“, che secondo stime elaborate nel 2017 portò a un numero di assassini compresi tra i 2.100 e i 4.400 e al rapimento di circa 10.000 persone, per la maggior parte giovani donne costrette a essere sfruttate come schiave negli harem dei signori della guerra dell’Isis. Tali numeri, confrontati con una popolazione di circa 600.000 persone, appaiono a dir poco impressionanti.
[Best_Wordpress_Gallery id=”1128″ gal_title=”yazidi 2″]
La rivista ufficiale dell’Isis, Dabiq, ha più volte citato esplicitamente le motivazioni religiose per giustificare quello che è stato un vero e proprio tentativo di genocidio verso gli yazidi: questi ultimi trovarono sostegno nella fiera resistenza delle forze curdo-irachene, nel ponte aereo organizzato dagli Stati Uniti per evacuare oltre 30mila membri della loro comunità e nei contemporanei raid contro le postazioni delle bandiere nere. Dopo la cacciata definitiva dell’Isis nel 2017, gli yazidi stanno tornando nelle loro terre segnate ancora dalle ferite delle persecuzioni, in cui troppo spesso capita di scoprire nuove fosse comuni colme di cadaveri. Il futuro per gli yazidi appare misterioso come il loro passato: solo se l’Iraq del dopoguerra saprà finalmente ricostruirsi come nazione tollerante della diversità religiosa essi potranno continuare a venerare l’angelo-pavone nelle loro remote roccaforti.