Storia e importanza della guerra civile spagnola

Per alcuni è stata l’anticamera della Seconda guerra mondiale. Per altri, invece, ne è stata la prima battaglia. Ha attratto combattenti volontari da tutto il mondo, segnando profondamente l’immaginario collettivo europeo degli anni Trenta, ed è stata soprattutto una “guerra delle idee”. Perché i soldati esperti e improvvisati che la combatterono non si fronteggiarono per ricevere una medaglia al valore, e neanche per questioni territoriali, ma per permettere alla propria visione del mondo di prevalere su tutte le altre.

Questa guerra, alla quale è stata dedicata una delle opere d’arte più struggenti della storia contemporanea – il Guernica di Pablo Picasso –, falcidiò la Spagna per tre anni, dal 1936 al 1939, e questa è la sua storia.

La guerra civile spagnola fu il parto inevitabile di quasi un secolo e mezzo di fermento popolare, diffuso malcontento interclasse e lotte tra poteri per il potere. Era dal 1812, anno della proclamazione della Costituzione di Cádiz, che tra conservatori e liberali vigeva uno stato di guerra fredda per il controllo del trono. Guerra che nell’arco di sessant’anni, dal 1814 al 1874, produsse ben dodici colpi di Stato e tre guerre civili su piccola scala.

Sarebbe sbagliato veicolare l’idea, però, che in Spagna esisteva un mero problema di contrapposizione ideologica. Perché la battaglia tra conservatori e liberali, via via più ideologizzata con il passare degli anni e dei colpi di Stato, non era che la punta di un iceberg costituito da un vasto malessere popolare provocato dal sistema latifondista, dalla perdita delle colonie e dall’inabilità dei governanti di trovare rimedi all’arretratezza dell’economia nazionale.

Quanto fosse profondo il problema, quanto divisa fosse la società spagnola, l’Europa poté comprenderlo fra gli anni Trenta e gli anni Settanta dell’Ottocento: quarantennio contrassegnato dall’esplosione di tre mini-guerre civili di natura politico-ideologica – conservatori contro liberali , altresì note come le “guerre carliste”. Preludio di ciò che sarebbe accaduto nel Novecento.

La Spagna fece ingresso nel XX secolo in qualità di ventre molle d’Europa. Reduce da tre episodi prodromici di guerra civile, in possesso di un record senza pari di colpi di stato riusciti o tentati e con uno stato di salute estremamente precario, emblematizzato dalle rivolte popolari a cadenza regolare; la Spagna era un paese in guerra con sé stesso. Lacerata dagli opposti estremismi, e sul perenne punto del tracollo economico, la Spagna non poté che optare per la neutralità durante la Grande guerra. Decisione saggia, data dalla consapevolezza dell’élite della situazione, ma non risolutiva: la detonazione della bomba fu rimandata, non impedita.

Il generale Miguel Primo de Rivera provò a ristabilire l’ordine nel 1923, consumando un golpe e attraendo a sé ogni potere. Per sette anni, dal 1923 al 1930, la Spagna visse sotto una dittatura militare, di carattere simil-fascista, governata col pugno di ferro e tenuta insieme dallo spauracchio della minaccia comunista. Ma quando, nel 1931, il re decise di porre fine all’esperienza dittatoriale, chiamando il popolo alle urne per scegliere il nome di colui che avrebbe dovuto guidare la rinata repubblica, l’odio, le divisioni e il malcontento riemersero con inaspettata celerità e con inaudita violenza.

Malcontento dei ceti bassi, divisioni ideologiche ai piani alti e inabilità dei governanti; la triade alla base dell’Ottocento dei golpe e della guerra civile del Novecento. E fu proprio uno di questi tre elementi, l’inabilità dei governanti, a gettare concretamente le fondamenta della guerra civile spagnola.

Il governo repubblicano di Manuel Azaña Diaz, formato nell’ottobre 1931, fu il catalizzatore (in)consapevole di una guerra civile da molto tempo in fermento. Sceneggiatore di una costituzione (il)liberale e anticattolica avente come modello quella del Messico postrivoluzionario – fonte, non a caso, della rivolta cristera –, Diaz fu l’iniziatore di una impopolare campagna inquisitoria nei confronti della Chiesa, privata di proprietà e perseguitata coi mezzi legali promananti dalla nuova carta fondamentale, che fu sapientemente sfruttata dai conservatori per paventare l’imminente arrivo del comunismo in Spagna. A fare da sfondo, agendo come benzina sul fuoco, l’abolizione della monarchia e la nascita della Seconda repubblica.

L’eco della chiamata alle armi dei conservatori, facilitata dalla nolontà di Diaz di dialogare con le forze sociali e con l’opposizione, fu sentita in ognidove: dalle campagne alle caserme. In molti avevano dei motivi per detronizzare Diaz: i chierici per il trattamento vessatorio e persecutorio subito – denunciato pubblicamente da Pio XI, i militari per le antipatiche riforme in seno l’esercito, i latifondisti per la riforma della terra, la gente comune per il modo di fare autoritario dell’esecutivo.

L’emersione di un governo di destra all’indomani delle elezioni del 1933, paradossalmente, non avrebbe inciso minimamente, in nessun modo, sulla traiettoria ormai seguita dalla Spagna. Al contrario, i ripetuti tentativi del blocco di potere repubblicano/socialista di boicottare l’agenda della destra avrebbero alimentato la tensione dalle aule parlamentari alle strade.

Alcuni movimenti di resistenza all’egemonia politico-culturale del variegato fronte di sinistra (anarchici, repubblicani, socialisti), con la Falange in prima fila, cominciarono ad applicare la legge dell’occhio per occhio, a rispondere pan per focaccia a vessazioni, violenze e persecuzioni. Un circolo vizioso di scontri in strada, rivolte nei sobborghi e assalti organizzati di alto livello contro obiettivi istituzionali.

Eventi realmente antesignani della guerra civile furono la tentata rivoluzione del fronte di sinistra del 1934, sedata soltanto dall’intervento delle forze armate, e i gravi disordini post-elettorali del 1936. Questi ultimi, innescati dal ritorno al potere della sinistra (e di Diaz) e caratterizzati da un’epidemia di chiese bruciate e attivisti conservatori assassinati, avrebbero traghettato la nazione nella guerra civile entro l’estate. Perché in luglio, invero, il tentativo di un manipolo di militari di esautorare il governo avrebbe liberato gli opposti estremismi da ogni freno inibitorio e portato il mondo a Madrid.

La guerra civile spagnola viene universalmente ricordata come l’evento precorritore della Seconda guerra mondiale. E lo fu. Perché un conflitto domestico, apparentemente e originariamente circoscritto alla lotta di potere tra liberali e conservatori, nell’arco di breve tempo catalizzò un afflusso abnorme di combattenti da ogni parte del Vecchio Continente – e non solo.

I liberali, cioè i repubblicani e la sinistra, presentarono lo scontro come una questione di libertà contro tirannide. I conservatori, dai cattolici ai nazionalisti di destra, lo dipinsero in termini di resistenza dell’Europa cristiana contro l’anarco-comunismo giudeo-sovietico. Entrambi i fronti, le cui voci furono amplificate dalla grande stampa dell’epoca, magnetizzarono combattenti volontari, denaro e consiglieri militari dall’estero.

All’interno della Spagna, dilaniata dal fratricidio, la chiamata alle armi ebbe come effetto una mobilitazione (ed una polarizzazione) pressoché totale della popolazione. Nei primi mesi di guerra civile, stando alle stime degli storici, il fronte repubblicano spalancò le porte a circa 120mila combattenti volontari connazionali e quello nazionalista a circa 100mila. Numeri che sarebbero aumentati di pari passo con l’avanzare della guerra, affiancati dall’afflusso di volontari dall’estero.

A migliaia, da tutta Europa e (anche) dal resto del mondo, si calamitarono nell’Iberia insanguinata dalla guerra civile per assistere l’una o l’altra parte. A migliaia, dai giovani idealisti ai “divi”, come George Orwell – che tramutò l’esperienza in loco nel libro Omaggio alla Catalogna – e il padre della guerra irregolare Yank Levy.

Entro la metà del 1937, complice l’afflusso incessante di volontari dalla patria e dall’estero, la guerra civile spagnola sarebbe diventata una “guerra mondiale di volontari”. Oltre 35mila, provenienti da più di 52 Paesi – dalla Francia al Messico, passando per l’Unione Sovietica –, soltanto quelli arruolatisi nella Brigata Internazionale affiliata ai repubblicani. Più del doppio, grosso modo di origine europea – con in testa Italia, Germania, Portogallo –, quelli partiti per dare manforte ai nazionalisti capeggiati da un giovane e carismatico generale rispondente al nome di Francisco Franco.

Senza il supporto dell’asse italo-tedesco, appoggiato pubblicamente dall’internazionale fascista e velatamente dall’Anglosfera, è altamente probabile, o meglio è certo, che la guerra civile sarebbe terminata a favore dei repubblicani. Ma la pioggia di armi, mezzi, consiglieri e volontari, alla fine, giocò un ruolo determinante nel ribaltamento delle sorti del conflitto e nell’ascesa di Franco.

La disparità di forze sul campo, data dal rovesciamento della supremazia numerica trainato dagli ingressi di volontari – iniziale rapporto di 10 a 1 a favore dei repubblicani diventato di 4 a 1 a favore dei monarchici in un anno e mezzo di ostilità –, avrebbe permesso a Franco di avanzare dalle campagne ai centri urbani, conquistando il principale ed ultimo fortino repubblicano, la rossa Catalogna, ai primordi del 1939.

Il mese seguente, in febbraio, senza attendere la fine della campagna di reconquista e a dimostrazione delle simpatie riscosse dalla causa conservatrice nei circoli angloamericani – da leggere in chiave anticomunista –, il Regno Unito avrebbe riconosciuto la neonata giunta franchista. Il resto è storia.

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