La guerra in Siria riassunta

La guerra in Siria ha inizio ufficialmente il 15 marzo 2011, anche se i veri combattimenti tra le diverse forze in campo avranno luogo soltanto nei mesi successivi. La data in questione è puramente convenzionale: in quel giorno, infatti, si registrano le prime vittime durante alcune manifestazioni tenutesi a Daraa, nel sud del Paese. Ma ancora, in quella giornata, la Siria è un Paese unito e sotto il pieno controllo del governo di Damasco.

Tra il dicembre del 2010 e l’inizio del 2011, il mondo arabo è scosso da quella che, sui libri di storia, è passata con il nome di “primavera araba“. Prima la Tunisia, poi l’Egitto e quindi la Libia, passando anche per lo Yemen: i tumulti originatisi nelle piazze di molti Paesi arabi determinano la fine di alcuni governi apparentemente ben saldi, a partire da quelli di Ben Alì a Tunisi e Hosni Mubarack al Cairo. A marzo del 2011 le tensioni in Libia trasformano le proteste in vera e propria guerra, con l’intervento della Nato che, nel giro di pochi mesi, provocherà il drammatico crollo di Gheddafi.

La Siria non rimane immune da tutto ciò. Dal 2000, il Paese è retto da Bashar al Assad, figlio del predecessore Hafez al Assad ed appartenente alla minoranza sciita-alauita. Il sistema di governo è sostanzialmente monopartitico ed è retto dal Partito Baath. Contro il Baath ed Assad, a febbraio vengono organizzati i primi sit in di protesta ma, a differenza di Egitto e Tunisia, la partecipazione popolare appare inizialmente bassa.

L’eco di quanto accade negli altri Paesi arabi, influenza anche la Siria. A marzo le manifestazioni appaiono più importanti, con la polizia costretta ad intervenire. Se Damasco ed Aleppo appaiono filo governative, ad Homs ed Hama invece si registrano importanti scontri. Il 15 marzo alcuni manifestanti muoiono a Daraa. Dal canto suo, il presidente Assad da un lato cerca sempre di mantenere sotto controllo le manifestazioni, dall’altro concede alcune riforme costituzionali in senso multipartitico.

La situazione, fino al maggio del 2011, appare sì carica di tensione ma sotto controllo: le istituzioni statali in tutti i territori sono ben salde nella guida della macchina amministrativa. Il 23 aprile inoltre, in segno di ulteriore distensione, il governo toglie lo stato d’emergenza fissato diversi anni prima. A sorpresa, però, le manifestazioni riprendono e coinvolgono anche le roccaforti sciite costiere di Latakia e Tartus.

Il contesto complessivo inizia a cambiare il 4 giugno del 2011, quando per la prima volta viene ufficialmente registrata un’incursione armata da parte di un gruppo di manifestanti. Il tutto avviene nella cittadina di Jisr ash-Shugur, nella provincia di Idlib: per una settimana, l’esercito deve combattere per ristabilire il controllo.

L’episodio non è isolato. Al contrario, la nascita dell’Esercito siriano libero, meglio noto con l’acronimo inglese di Fsa, è preludio a maggiori azioni di questo tipo. Costituito da disertori e miliziani, l’Fsa inizia una serie di scontri a fuoco diretti contro l’esercito regolare in località di varie aree del Paese. La nascita ufficiale di questo gruppo viene annunciata il 29 luglio 2011, un mese dopo ad Istanbul viene invece costituito il “Consiglio Nazionale Siriano“, formato da vertici dell’opposizione all’estero: entrambi gli organismi adottano la bandiera siriana utilizzata durante il periodo coloniale francese.

Nel mese di luglio, gli occhi sono puntati su Hama. Quarta città del Paese, qui l’opposizione è ben radicata. É forte al suo interno il risentimento per i bombardamenti ordinati nel 1982 da Hafez al Assad. Un’azione volta a stroncare un principio di rivolta organizzata dai Fratelli Musulmani. Le manifestazioni ad Hama sono cariche di tensioni. Per oltre un mese, l’esercito è costretto a continui interventi. Il controllo della città è conservato al prezzo di decine di caduti.

Da Hama, la tensione si sposta ad Homs: ad Al Rastan, importante cittadina nei pressi della terza metropoli siriana, vengono inscenate numerose battaglie. A fine settembre l’esercito viene anche espulso dalla città per quattro giorni. Nella provincia di Idlib, al contempo, proseguono combattimenti in numerose comunità e villaggi.

Ma la sensazione di essere in guerra, la Siria l’assume con quanto inizia ad accadere ad Homs a fine anno. In una serie di attacchi coordinati, l’Fsa uccide 38 soldati siriani e l’esercito inviato da Assad non riesce a riprendere in mano la situazione. La terza città del Paese inizia a vedere la presenza di trincee e filo spinato lungo le proprie strade, la situazione precipita verso il conflitto aperto. Homs già ad inizio 2012 viene chiamata la “capitale della rivoluzione”. Da qui partono anche le offensive verso la zona nord della Siria, in cui la provincia di Idlib inizia lentamente a vedere il ritiro delle truppe governative.

I primi bombardamenti effettuati dall’aviazione rimasta fedele ad Assad ad inizio febbraio, certificano oramai l’ingresso della Siria nel buco nero della guerra civile. La popolazione, in tutto il Paese, inizia a convivere con una quotidianità contrassegnata dal conflitto.

In un contesto di guerra generalizzata, gli scontri si allargano in tutto il Paese: da Idlib, fino ad Homs, passando per la periferia di Damasco e Daraa. Anche se diviso al suo interno e con una sempre più influente pericolosa influenza islamista, nella primavera del 2012 l’Esercito siriano libero prepara il terreno per quello che sembra essere il colpo finale contro il governo di Assad.

L’ora X scatta a luglio: dopo l’attentato nella capitale che decima i responsabili della difesa siriana, il 18 parte la cosiddetta “operazione Vulcano“, con l’obiettivo di prendere Damasco. Il 19 invece si cerca di strappare Aleppo dalle mani governative. Con regioni come il Qalamoun e la Ghouta in mano ai ribelli e con le province di Idlib e Daraaa, oltre che la stessa città di Homs, fuori o quasi dal controllo governativo, le offensive sopra citate fanno già parlare di prossimo “regime change” in Siria.

La situazione in realtà entra in una fase di stallo: a Damasco l’esercito respinge l’Fsa fuori dal centro storico e dal cuore politico della città, permettendo ad Assad di rimanere in sella. Ad Aleppo le sortite ribelli permettono la conquista di gran parte della città, ma diversi quartieri resistono e rimangono in mano governativa. La popolazione oramai, soprattutto nei principali centri, vive situazioni drammatiche ed al limite: energia elettrica ed acqua vengono razionalizzate, il prezzo dei viveri aumenta enormemente, i medicinali scarseggiano. La guerra appare sempre più nefasta.

Sempre nel luglio del 2012, si assiste ad un’altra situazione che contribuisce a disgregare ancora di più il Paese. Nelle regioni settentrionali a maggioranza curda si assiste al rafforzamento delle milizie filo curde. Vengono costituite, in particolare, le brigate della Ypg che avanzano nel cantone aleppino di Afrin ed in quelli della provincia di Al Hasakah.

L’esercito siriano si ritira e preferisce concentrarsi nel recupero delle aree a maggioranza araba. Nel giro di poche settimane, il nord est della Siria entra nelle mani dei curdi che però, al contrario dell’Fsa, non mirano alla destituzione di Assad ma ad una più ampia autonomia dei loro territori.

Due episodi significativi danno l’idea di quello che accade all’interno delle sigle ribelli nel 2012: sia a Damasco che nelle province costiere manca fin da subito l’appoggio popolare all’Esercito siriano libero. Ciò determina la nascita di gruppi che compiono violenze settarie contro sciiti, in primo luogo, e contro altre minoranze. In parole povere, la sigla dell’Fsa vede al suo interno il rafforzamento sempre più drastico dei gruppi jihadisti. Fronte Al Nusra ed Isil prendono il sopravvento, portando ideologie e metodologie di Al Qaeda in Siria e nei territori occupati dall’Esercito siriano libero nei mesi precedenti.

Il 2012 non a caso è l’anno della cosiddetta “autostrada della jihad“, ossia del transito di migliaia di combattenti jihadisti stranieri dal confine settentrionale con la Turchia, i quali rimpolpano le file dei gruppi terroristici. Dalla stessa Turchia, ma anche dall’Arabia Saudita, dal Qatar e da altri paesi del Golfo arrivano soldi, armi e munizioni. A livello politico, l’occidente dà ampio supporto all’opposizione siriana, nonostante l’emergere delle sigle jihadiste al suo interno. Ciò consente ai terroristi di guadagnare terreno espellendo di fatto l’Esercito siriano libero e conquistare altri territori governativi: nel 2013 Raqqa cade in mano ad Al Nusra, al pari di buona parte delle province di Deir Ezzor e di Idlib.

Sfruttando le divisioni interne ad un’opposizione sempre più islamista, al pari del fallimento dei progetti di prendere interamente le città di Damasco e Aleppo, il fronte governativo ad inizio 2013 riesce ad organizzare una controffensiva. La prima vera svolta del conflitto, si ha tra l’aprile e il giugno del 2013 ad al-Qusayr, strategico distretto della provincia di Homs. Qui l’esercito avvia un’azione coordinata di aviazione e forze di terra, in grado di avanzare in tutto il distretto e di cingere d’assedio le principali località.

Il 5 giugno Al Qusayr viene dichiarata completamente libera, consentendo in un colpo solo al governo di Assad di raggiungere numerosi obiettivi: la dimostrazione di avere le forze per poter contrattaccare, la liberazione di uno strategico distretto al confine con il Libano, la chiusura della possibilità per i terroristi di giungere verso le province costiere, così come l’inizio delle ostilità per poter riprendere Homs e la regione del Qalamoun. Non secondario anche un altro aspetto: per la prima volta in questa battaglia, fanno la loro comparsa gli uomini di Hezbollah.

Mentre l’esercito avanza anche nella periferia di Damasco, in un quartiere della capitale ancora occupato dai ribelli il 21 agosto 2013 ha luogo un bombardamento che causa numerose vittime. Il tutto avviene, in particolare, nella zona di Jobar: i media riportano subito la notizia secondo cui nel raid sarebbero state utilizzate armi chimiche. Il governo di Assad smentisce subito l’accaduto, mentre gli Usa, con in testa il presidente Barack Obama, iniziano a mettere sul tavolo la possibilità di un intervento militare.

Secondo l’allora numero uno della Casa Bianca, l’utilizzo di armi chimiche costituisce una linea rossa invalicabile, dunque Washington deve prepararsi a bombardare la Siria in funzione anti Assad. Contro questa eventualità si muove però la Russia di Vladimir Putin. Per la prima volta Mosca scende direttamente in campo a favore di Damasco, con il cui governo ha contatti fin dall’epoca dell’Unione sovietica per via della presenza della base navale russa di Tartus.

Il braccio di ferro tra Usa e Russia va avanti per tutto il mese di settembre, con Putin che invia nel Mediterraneo alcune navi militari per proteggere le coste siriane. Alla fine Obama fa un passo indietro. Gli Stati Uniti rinunciano a bombardare la Siria. Le Nazioni unite, dal canto loro, promuovono invece un’inchiesta per accertare la dinamica dell’attacco di Jobar.

Il 2014 si apre con importanti tensioni all’interno del fronte islamista e jihadista. In particolare, emerge preponderante la figura del terrorista iracheno Abu Bakr Al Baghdadi, capo dell’Isil e stratega di una fusione tra il suo gruppo ed il Fronte al Nusra. I vertici però della filiale siriana di Al Qaeda non gradiscono questo progetto e tra i due gruppi inizia ad essere vera e propria guerra. L’Isil, nel frattempo denominato Isis (Stato islamico dell’Iraq e della Siria), inizia ad attaccare le altre sigle islamiste, conquistando Raqqa ed avanzando nella provincia di Deir Ezzor, lì dove soltanto il capoluogo resiste assediato agli attacchi dei miliziani (Che cos’è e dove si trova lo Stato islamico).

Al Nusra e gli altri gruppi estremisti tengono soltanto a nord di Aleppo e ad Idlib, oltre che nella Ghouta ed a Daraa, ma nei restanti territori fuori dal controllo governativo è l’Isis ad avere nettamente la meglio. L’avanzata dei miliziani fedeli ad Al Baghdadi, che iniziano ad issare vessilli neri nelle città conquistate, è fulminea e repentina.

L’Isis conquista terreno in tutta la fascia orientale del Paese lungo l’Eufrate, si spinge verso la periferia di Aleppo e verso il deserto centrale della Siria. Ma anche in Iraq i miliziani iniziano ad avere un proprio territorio: è così che, nel luglio del 2014, Al Baghdadi può pronunciare dalla moschea di una Mosul appena conquistata la nascita del califfato. Lo Stato islamico, come verrà da adesso in poi chiamato, si estende dall’Iraq alla Siria e, durante l’estate del 2014, espande i propri confini. Desta particolare attenzione l’avanzata dello Stato islamico nei territori curdi: diversi media internazionali infatti, raccontano dell’assedio di Kobane, cittadina curda al confine con la Turchia, dove la popolazione e le milizie curde riescono a difendere il territorio dopo cinque mesi di sanguinosa battaglia.

Desta impressione in occidente l’efferatezza del comportamento dei miliziani dello Stato islamico: uccisioni mirate, esecuzioni plateali, violenze contro le minoranze, devastazione di beni monumentali e video dove vengono mostrate decapitazioni. Sulla scia di tutto ciò, viene costituita una coalizione guidata dagli Usa ed a cui prendono parte anche alcuni Paesi arabi, quali Bahrein, Giordania, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

Ad agosto la coalizione bombarda obiettivi dello Stato islamico in Iraq, mentre il 22 settembre iniziano anche le operazioni in territorio siriano. I bombardamenti in Siria non vengono concordati con il governo di Assad e Damasco viene soltanto informata dei raid tramite la mediazione dell’Iran.

I territori controllati dall'Isis in Siria e in Iraq nel maggio del 2015
I territori controllati dall’Isis in Siria e in Iraq nel maggio del 2015

Le operazioni però non sortiscono particolari effetti: l’Isis avanza in Siria in tutto il 2014 e raggiunge il suo apice nel maggio 2015, quando i miliziani pongono i vessilli neri nella città di Palmira. Famosa per i suoi resti di epoca romana, la sconfitta dell’esercito siriano in questa zona del Paese è un duro colpo a livello tanto militare, con l’Isis oramai spinto verso il centro della Siria, quanto psicologico.

Sono questi forse i momenti più difficili per l’esercito siriano dal 2012, da quando cioè l’Esercito siriano libero sembra poter prendere il controllo di Damasco ed Aleppo. Eppure la ripresa totale di Homs, avvenuta l’8 aprile 2014 dopo l’evacuazione degli insorti ancora asserragliati all’interno del centro storico, sembra dare ad Assad il vantaggio decisivo per la ripresa di tutti gli altri territori della Siria.

L’avanzata dell’Isis, le sconfitte a vantaggio dei miliziani di Al Baghdadi, unite forse ad una stanchezza generale di truppe sfinite e sfiancate da quattro anni di guerra, fanno nuovamente temere i vertici della Repubblica araba siriana circa una fine del governo di Assad.

Anche l’ingresso dei miliziani vicini ad Al Nusra ad Idlib, nel marzo 2015, ed una loro prima avanzata tra i monti a nord di Latakia, roccaforte costiera filo Assad, dà un duro colpo al morale dell’esercito e della popolazione siriana. Nell’agosto 2015, di fatto il governo di Damasco controlla soltanto il 30% del territorio.

Per questo motivo, sul finire dell’estate del 2015 l’esecutivo siriano chiede formalmente a Mosca di intervenire in suo sostegno. Il 30 settembre, poco dopo l’approvazione della Duma, la Russia entra ufficialmente in campo nella guerra in Siria. Viene creata una base militare a Latakia, vengono dispiegati diversi militari tra aviazione e forze speciali. I primi raid hanno di mira i jihadisti dell’Isis e del fronte Al Nusra.

Sul campo, i governativi riescono a trarre immediato giovamento della situazione: le truppe avanzano a sud di Aleppo e ad est della seconda città siriana, il 10 novembre viene rotto l’assedio presso la base militare di Kuwayris, circondata da due anni dall’Isis. Anche nella zona di Damasco, i governativi riprendono ad avanzare nei quartieri periferici occupati dal 2012 dai ribelli. Inoltre, un’importante avanzata è da registrare a nord di Latakia, con villaggi e cittadine strappate agli islamisti vicino il confine turco. Proprio lungo la frontiera con la Turchia il 25 novembre avviene uno degli episodi più gravi dall’inizio dell’intervento russo: un aereo militare di Mosca viene abbattuto da due caccia turchi. Secondo Ankara, il mezzo ha oltrepassato lo spazio aereo turco ma per i russi tale notizia è infondata e, in ogni caso, l’aereo non avrebbe mai costituito una reale minaccia per la Turchia. Tra i due Paesi cala un pericoloso gelo diplomatico.

Il califfato, dopo aver raggiunto la sua massima estensione, inizia non solo a non avanzare ma anche a perdere alcuni dei suoi guadagni effettuati tra il 2014 e l’inizio del 2015. Particolare attenzione desta la situazione nel nord della Siria: qui le milizie curde dello  Ypg guadagno terreno.

Ciò però inizia, al contempo, anche a creare alcuni problemi che potrebbero essere importanti a lungo termine: in particolare, la spinta dei curdi si ha anche lì dove la popolazione è a maggioranza araba. Le forze Ypg non avanzano infatti soltanto ad Al Hasakah, bensì si spingono fino ai confini con le province di Raqqa e Deir Ezzor a sud ed inoltre, a nord, unificano il cantone di Kobane con quelli della provincia di Al Hasakah. Questo crea di fatto una maxi regione curda, che inizia ad indispettire anche Ankara.

Nell’ottobre del 2015, dopo aver guadagnato diverse porzioni di territorio contro lo Stato islamico, viene annunciata la nascita di una nuova coalizione militare: le Syrian Democratic Forces (Sdf). Al suo interno confluiscono le milizie curde Ypg e diverse tribù arabe ma, è questo il sospetto di Mosca e Damasco, non è da escludere anche l’ingresso di ex miliziani islamisti ed altri gruppi legati all’Esercito siriano libero. Questa coalizione è appoggiata dagli Usa, che inviano uomini e mezzi nei territori controllati dall’Sdf e pongono lì anche le prime basi americane in Siria.

Il 15 luglio 2016 un altro evento internazionale è destinato ad avere importanti ripercussioni anche sulla guerra in Siria: quella sera infatti, in Turchia un gruppo di militari prova a rovesciare il presidente Erdogan con un colpo di Stato. Il golpe non riesce e viene stroncato nella notte dalle forze rimaste fedeli all’ex sindaco di Istanbul, ma dall’occidente in quelle ore non arrivano verso Ankara dimostrazioni di solidarietà al governo turco. La prima chiamata ricevuta da Erdogan è invece quella di Vladimir Putin.

Da questo momento in poi, l’atteggiamento della Turchia nei confronti sia della Russia e sia all’interno del conflitto in Siria è radicalmente diverso. Erdogan sospetta un tradimento dell’occidente. Ma non solo: il presidente turco prende la palla al balzo e vede nella Russia un interlocutore in cui poter esprimere l’insofferenza per la nascente maxi regione curda in Siria e per l’appoggio americano dato alle forze Sdf.

Dopo essere arrivati ai ferri corti per via dell’abbattimento dell’aereo militare nel novembre 2015, Russia e Turchia tornano ad avere rapporti più distesi e la Siria è il primo vero grande elemento di contatto tra Mosca ed Ankara. Erdogan, dopo aver contribuito a destabilizzare il Paese permettendo nel 2012 l’afflusso massiccio di jihadisti dal suo confine, adesso diventa un attore in grado da poter fare come mediatore all’interno della guerra.

Tutto ciò verrà messo nero su bianco ad Astana il 20 dicembre 2016: nella capitale kazaka, i governi di Siria, Russia, Turchia ed Iran, Paese che sul campo ha posto centinaia di soldati e volontari, si incontrano per la prima volta cercando di iniziare un percorso volto a riportare stabilità nel Paese in conflitto.

Ad Astana di fatto viene ufficialmente ribadito ciò che da mesi sta accadendo sul campo: la Turchia, in cambio del suo ruolo di mediatore con diverse sigle islamiste da lei stessa finanziate, ha il silente via libera per intervenire militarmente in Siria in funzione anti curda.

Il 16 agosto 2016 le forze dell’Sdf conquistano Manbij, cittadina a maggioranza araba a nord di Aleppo occupata da tre anni dall’Isis. Secondo Ankara l’evento è propedeutico alla creazione di una maxi regione amministrata dai curdi ai confini con la Turchia. Per scongiurare tutto ciò, il 24 agosto Erdogan dà il via libera all’operazione “Scudo nell’Eufrate“, con la quale i soldati turchi penetrano in territorio siriano affiancando alcune sigle finanziate da Ankara.

Questa operazione porta all’occupazione di zone ancora in mano all’Isis a nord di Aleppo, distanziando di fatto definitivamente le due distinte regioni in mano ai filo curdi. L’intervento denominato Scudo nell’Eufrate termina soltanto nel marzo del 2017, non senza difficoltà. La Turchia tornerà a mettere gli scarponi in territorio siriano nel gennaio 2018, con l’operazione “Ramoscello d’ulivo”, con la quale conquista il cantone curdo di Afrin. Anche in questo caso, i turchi vengono aiutati da sigle anti Assad da loro stessi finanziate.

L’estate del 2016 non è soltanto quella dei grandi cambiamenti diplomatici attorno al conflitto in Siria. In quei mesi roventi Assad inizia la battaglia finale per chiudere i conti con gli islamisti ad Aleppo. Aiutato dalle forze russe, l’esercito siriano inizia a martellare con bombardamenti le postazioni dei rivali poste soprattutto nella parte orientale della città.

Avanzando lungo la cosiddetta “Castillo Road“, la tangenziale di Aleppo, le forze filo governative riescono a riconquistare numerosi quartieri e ad entrare in zone dove le bandiere siriane mancavano dal 2012. La svolta della battaglia di Aleppo si ha nel luglio 2016, quando l’esercito riesce a chiudere in un assedio i quartieri ancora in mano agli insorti. Di fatto, dopo quattro anni di stallo, i filo governativi riescono a trasformarsi da forza assediata a forza assediante. Da questo momento in poi, pur tra mille difficoltà, l’esercito siriano conduce una graduale ma decisiva avanzata in tutte le zone di Aleppo.

La battaglia urbana ha un prezzo altissimo per soldati e civili. Dopo l’offensiva del 2012 è la prima volta che si intravede un importante margine per la fine della guerra nella seconda città della Siria. L’avanzata governativa va avanti durante l’intera stagione autunnale e la svolta definitiva si ha con la divisione della sacca islamista di Aleppo in due tronconi. A fine novembre l’esercito siriano riesce a penetrare fino in fondo in diversi quartieri orientali. Il 12 dicembre cadono in mano lealista i distretti di Bustan Al-Qasr e di Sheikh Saeed, roccaforti dell’opposizione. Quest’ultima avanzata dà il colpo di grazia nel morale degli assediati: il 15 dicembre, grazie alla mediazione di Russia e Turchia, viene raggiunto un accordo per l’evacuazione degli ultimi islamisti presenti in città, trasportati con bus verdi ad Idlib. Il 22 dicembre l’evacuazione è completa e, in serata, Damasco annuncia la fine della battaglia di Aleppo dopo quattro anni e mezzo di combattimenti.

La seconda città siriana alla vigilia di Natale si risveglia distrutta, quasi del tutto rasa al suolo ma, allo stesso tempo, senza più barriere e divisioni interne: la vita ad Aleppo, da quel momento in poi, inizia nuovamente a riprendersi.

Ad inizio 2017 la situazione in Siria è radicalmente cambiata rispetto ai dodici mesi precedenti. Assad ha adesso tutte e tre le principali città in mano, con numerose conquiste territoriali fatte anche nell’area di Damasco e con la prospettiva di poter utilizzare le centinaia di uomini liberatisi dalla battaglia di Aleppo. Ma non solo: il vertice di Astana ed il cambio di passo della Turchia hanno in qualche modo puntellato l’impressione secondo cui la vittoria di Assad è solo questione di tempo.

Dagli Usa invece arrivano importanti novità: nel novembre 2016 l’imprenditore newyorkese Donald Trump batte la sfidante Hillary Clinton nelle presidenziali e il 20 gennaio il nuovo capo di Stato si insedia alla Casa Bianca. Inizialmente, la maggiore vicinanza con la Russia di Putin annunciata da Trump in campagna elettorale fa sperare anche in positive novità per la Siria. A Damasco inoltre, vedono nell’eventuale elezione di Hillary Clinton, sostenitrice della Fratellanza musulmana durante le primavere araba in qualità di Segretario di Stato, un ostacolo in più nei rapporti con Washington.

Ad aprile lo scenario è però destinato a cambiare: viene diffusa la notizia secondo cui nella cittadina di Khan Shaykhun, nella provincia di Idlib occupata dagli islamisti. Anche in questo caso, come in quello di Jobar del 2013, si attribuisce alle forze di Assad la responsabilità dell’attacco con armi chimiche. Da Washington Donald Trump promette immediate conseguenze, affermando di non fare passi indietro.

Il 7 aprile 2017 un raid compiuto con missili lanciati da alcune navi militari americane piazzate nel Mediterraneo colpisce la base militare di Al Shayrat, nella provincia di Homs. Secondo gli americani, il presunto raid chimico sarebbe partito proprio da questa base. Sembra l’inizio di una nuova grave escalation: già durante quella stessa giornata, però, gli Usa rilasciano dichiarazioni distensive in cui si intuisce come quel raid sarebbe rimasto, almeno in quel momento, un caso isolato. La base colpita dai missili Usa, dopo due giorni è già operativa. Per di più, dopo qualche settimana, si apprende che gli Usa, prima del raid, avrebbero informato il Cremlino.

Superata la crisi dettata dal presunto attacco chimico di aprile, l’esercito siriano può riprendere le campagne per strappare i territori ai ribelli. Con Aleppo oramai totalmente riconquistata, i governativi puntano al deserto ancora occupato dallo Stato islamico. La svolta si ha nel mese di giugno del 2017, quando l’esercito siriano conquista la città di Rusafa, l’antica Sergiopoli. L’avanzata apre di fatto la strada alle riconquista del deserto.

Per tutta l’estate del 2017, i siriani assistono al crollo delle difese dello Stato islamico nella parte centrale del Paese: con Palmira ripresa già a marzo, Assad può rimettere le mani sui giacimenti di gas nell’est della provincia di Homs, nella cittadina di Sukhnah, spingendosi verso la parte rurale della provincia di Deir Ezzor. Sono queste zone dove la bandiera siriana mancava dal 2013. Sempre nell’estate del 2017, i filo governativi raggiungono  e blindano anche gran parte dei confini con l’Iraq, eccezion fatta per la zona di Al Tanf la quale risulta ancora occupata dalle forze appoggiate dagli Usa. Nell’offensiva estiva che, di fatto, cancella più della metà del territorio conquistato dall’Isis tra il 2014 ed il 2015, determinante è anche il ruolo delle milizie sciite libanesi degli Hezbollah.

La parte antica di Palmira (LaPresse)
La parte antica di Palmira (LaPresse)

Contemporaneamente, ad est dell’Eufrate, le milizie Sdf avanzano nelle province di Al Hasakah e Raqqa. Proprio la capitale del califfato è oggetto dell’operazione che, partita ad inizio 2017, porta nel luglio di questo stesso anno all’assedio da parte degli uomini delle milizie filo curde. La conquista di Raqqa avviene però soltanto nel mese di ottobre, con l’aviazione americana che si rivela decisiva per le forze sul campo, inesperte nella lotta urbana.

Con i governativi in grado di recuperare in tre mesi gran parte del deserto e con Raqqa caduta nelle mani delle Sdf, di fatto lo Stato islamico in Siria viene cancellato. Permangono ancora due sacche nella provincia di Deir Ezzor ed al confine con l’Iraq.

Una menzione particolare merita il capoluogo più orientale del paese: Deir Ezzor, città di più di centocinquantamila abitanti sull’Eufrate, assediata prima da al Nusra e poi, a partire dal 2013, dall’Isis. Per quattro lunghi anni, abitanti e soldati governativi presenti al suo interno convivono fianco a fianco per respingere quotidiani attacchi dei terroristi.

Prima dell’estate del 2017, il fronte dove sono attestati i governativi è distante più di 250 chilometri: la città vive come una piccola enclave pro Assad nel cuore di un deserto controllato dall’Isis. Guidati dal generale Issam Zahradine, i governativi riescono a difendere questa sacca e a permettere ai cittadini di non vivere sotto le insegne del califfato. Cibo, acqua, medicinali e munizioni vengono dal cielo.

Con l’avanzata governativa nel deserto, Deir Ezzor vede avvicinarsi il momento della liberazione dall’assedio dell’Isis. L’evento tanto atteso si ha nel settembre 2017, quando le Tiger Force, unità d’élite dell’esercito di Damasco, incontrano le postazioni degli uomini di Zahradine. Deir Ezzor, dopo quattro anni, si riunisce con il resto del Paese: in nessun luogo, come in questa città, si può ben capire cosa voglia dire convivere fianco a fianco con i terroristi dell’Isis.

Nell’ottobre del 2017 però, dopo circa un mese la fine dell’assedio, il generale Zahradine muore saltando su una mina durante un giro di perlustrazione sulle rive dell’Eufrate. É lui, senza ombra di dubbio, il simbolo della resistenza di questa città martire della Siria contro il califfato (Le battaglie che hanno portato alla liberazione di Deir Ezzor).

A maggio del 2018 Damasco viene messa in sicurezza: la capitale siriana, dopo quasi sei anni, è ora completamente libera da sacche islamiste eredi dell’operazione Vulcano del luglio 2012. Tra marzo ed aprile, l’esercito riprende il controllo della regione della Ghouta orientale e, in particolare, di Jobar e della città di Douma. Subito dopo, le forze di Assad assaltano e riconquistano il campo profughi palestinese di Yarmouk, ultima sacca islamista presente a sud Damasco. La capitale dunque è libera dalla guerra e non ha più fronti interni a cui badare: per Assad questo significa, in un colpo solo, maggiore sicurezza e maggiore autorità sotto il profilo politico.

Ma proprio durante l’evacuazione di Douma, con i terroristi portati nei territori occupati dagli islamisti filo turchi, un’altra notizia su un altro presunto attacco chimico prende il sopravvento. A distanza di un anno esatto dal raid americano ordinato da Trump, nella cittadina di Douma un attacco chimico avrebbe provocato più di cento vittime. Anche in questo caso non si attende l’esito delle indagini per appurare le responsabilità: Usa, Francia e Gran Bretagna puntano il dito contro Assad e il 14 aprile lanciano un raid contro alcune basi militari. Come dodici mesi prima, si tratta però di un’azione isolata: del resto, la Russia non avrebbe acconsentito un’operazione di vasta scala anti Assad.

La situazione di maggior tensione riguarda invece il riflesso del braccio di ferro tra Israele ed Iran: Tel Aviv non vuole mezzi e uomini di Teheran a ridosso del proprio confine e, per tal motivo, soltanto negli ultimi due mesi sono stati almeno quattro i raid dello Stato ebraico in territorio siriano contro obiettivi iraniani.

Assad, nel maggio 2018, controlla più del 60% del paese: rimangono fuori soltanto le province di Daraa a sud ed Idlib a nord mentre, nella parte orientale della Siria, persistono piccole sacche di resistenza dell’Isis lungo il deserto. Diversa la situazione invece per quanto concerne i territori in mano alle Sdf, sostenute dagli Usa, ed ai filo turchi a nord di Aleppo: l’impressione è che, per lo status di queste zone, dovrà servire un processo di natura maggiormente politica e diplomatica.

Complessivamente comunque, a partire dal 2018 la sicurezza nel paese e soprattutto nelle aree governative appare essere aumentata e, da più parti, si inizia a parlare anche di ricostruzione.

Il Califfato dopo le offensive del 2017 sia da parte del governo che delle forze filo curde, risulta confinato, ad inizio 2019, a pochi chilometri quadrati di territorio della provincia di Deir Ezzor. Le forze Sdf premono, già a partire da gennaio, per la caduta definitiva dello Stato Islamico. 

Dopo le ultime avanzate, nel mese di marzo solo una città rimane nelle mani dell’Isis: è quella di Baghouz, poco oltre le sponde orientali dell’Eufrate. Qui va in scena l’ultima e decisiva battaglia: alla fine, il 23 marzo 2019, le forze curde entrano a Baghouz e dopo 6 anni di guerra il Califfato si può dire definitivamente sconfitto. 

Dopo un periodo di relativa quiete, a partire dall’inizio del mese di ottobre del 2019 torna alla ribalta il fronte nord orientale della Siria e, in particolare, la zona dove le forze curde del Ypg hanno costituito la regione autonoma del Rojava. Dalla Turchia infatti, il presidente Erdogan annuncia l’intenzione di colpire le milizie filo curde, considerate una vera e propria costola del Pkk e dunque da annoverare nella lista delle organizzazioni terroristiche. Contestualmente, da Washington il presidente Donald Trump annuncia il ritiro delle forze Usa in questa regione della Siria nell’ottica di un ridimensionamento dell’impegno americano nel paese. 

Secondo la Casa Bianca, la caduta del califfato non giustifica il grande dispiegamento dei soldati statunitensi nel nord della Siria. La decisione espone però i curdi alle intenzioni bellicose di Erdogan, il quale il 9 ottobre 2019 lancia l’operazione “Primavera di Pace”. Così come avvenuto a Jarabulus e ad Afrin, la Turchia bombarda le postazioni nemiche ed aiuta l’ingresso dei miliziani Fsa in territorio siriano. Si tratta di formazioni islamiste, addestrate e finanziate da Ankara per prendere possesso dei territori in mano ai curdi. 

La situazione in tutto il nord est della Siria diventa subito tesa. Molti cittadini scappano dalle proprie case, gli scontri tra le forze Ypg e quelle filo turche appaiono cruenti ed aspri, per di più nelle zone occupate dall’Fsa si assiste in alcuni casi ad uccisioni e torture verso la popolazione civile. L’episodio più grave da questo punto di vista è dato dalla morte della giornalista curda Hevrin Khalaf, raggiunta ed uccisa da miliziani islamisti mentre si trovava in viaggio con la sua auto non lontano dal confine turco. 

Donald Trump, dopo aver ritirato le sue truppe dando indirettamente appoggio ad Erdogan sull’avanzata nel nord della Siria, invia una lettera al presidente turco chiedendogli di non attaccare i curdi. L’offensiva di Ankara va però avanti per diversi giorni, con un primo cessate il fuoco raggiunto a metà ottobre dopo la visita del vice presidente Usa Mike Pence in Turchia. La vera svolta però, si ha con l’incontro tenuto a Sochi tra Putin e lo stesso Erdogan: Russia e Turchia concordano un piano per stabilire un più duraturo cessate il fuoco.

In particolare, viene dato il via libera alle truppe dell’esercito siriano di posizionarsi lungo il confine e nelle città precedentemente occupate dalle forze curde. Queste ultime, si ritirano da una fascia di sicurezza profonda 30 km, mentre in una più stretta di 10 km vengono concordati pattugliamenti congiunti tra russi e turchi. Viene infine stabilito che le milizie filo turche possono rimanere in una piccola porzione di territorio al confine con la Turchia. 

Tutt’ora la situazione viene regolata da questi accordi. Erdogan ritiene che sussistano le necessarie condizioni di sicurezza per non continuare l’intervento armato, mentre Putin riesce a far riappropriare Assad di città importanti quali Manbji, Kobane, Hasakah, Qamishli, Raqqa e Taba. In tal modo inoltre, si sancisce la fine definitiva della regione del Rojava.

Nel 2019 la guerra si riattiva, dopo un periodo di calma successivo agli accordi del settembre 2018 tra Russia e Turchia per la costituzione delle cosiddette “de escalation zone“, anche nella provincia di Idlib.

In particolare, il governo di Damasco nell’agosto del 2019 inizia a premere lungo il fronte posto pochi chilometri più a nord della città di Hama, al confine tra l’omonima provincia e quella per l’appunto di Idlib. In quell’occasione, le truppe dell’esercito siriano conquistano la strategica cittadina di Khan Shaykhun, a sud di Idlib e lungo l’autostrada M5.

Si tratta del preludio di quanto poi accaduto all’inizio del 2020. A metà del mese di gennaio infatti, l’esercito avanza sempre da sud andando a riprendere, dopo diverse settimane di bombardamenti operati sia dall’aviazione russa che da quella siriana, la città di Maarat Al Numan. Quest’ultima è la seconda località più grande della provincia di Idlib dopo il capoluogo, anch’essa posta lungo lungo la M5. Il 7 febbraio invece, dopo una veloce avanzata verso nord, le truppe siriane riconquistano anche Saraqib, posta a pochi chilometri da Idlib.

Durante queste operazioni, si registrano pericolosi episodi di tensione soprattutto con l’esercito turco. Ankara, preoccupata dalle avanzate siriane, posiziona nella provincia di Idlib nuovi check point e continua a supportare le milizie a sé fedeli. Lo spostamento repentino di truppe turche, provoca in almeno due occasioni scontri diretti a colpi di artiglieria tra l’esercito di Damasco e quello di Ankara. Almeno 12 soldati turchi vengono uccisi all’inizio di febbraio. Il presidente turco Erdogan minaccia interventi contro la Siria in caso di nuove avanzate, tuttavia le truppe di Damasco sono riuscite a riprendere per intero l’autostrada M5 e ad avanzare, contestualmente, anche nella provincia di Aleppo.

E proprio nella seconda città siriana, il 16 febbraio 2020 l’esercito è in grado di riprendere definitivamente le periferie occidentali. Qui erano presenti, anche dopo la definitiva liberazione di Aleppo del dicembre 2016, diversi gruppi islamisti che in più occasioni hanno minacciato di colpire i quartieri ad ovest del centro storico.

L’avanzata dell’esercito nelle province di Idlib e nell’hinterland di Aleppo, permette sia la messa in sicurezza della capitale economica siriana, così come la riconquista integrale dell’autostrada M5.

Nel marzo del 2020 un nuovo incontro tra il presidente russo Vladimir Putin ed il suo omologo turco Recep Tayyip Erdogan, permette di stabilire un nuovo cessate il fuoco tra le parti. In particolare, è riconosciuta al governo siriano la possibilità di rimanere all’interno della riconquistata Saraqib, così come in tutte le località recuperate durante l’avanzata di inizio anno. Inoltre, viene tracciata nuova linea di confine in cui dar vita a pattugliamenti congiunti tra soldati russi e siriani e che ha nell’autostrada M4 il proprio riferimento. Nelle settimane successive, questo accordo viene grossomodo rispettato. Gli screzi e gli scontri tra le varie parti impegnate sul campo sono quasi del tutto terminati, ad eccezione di alcuni episodi che hanno richiesto l’intervento dell’aviazione russa e siriana soprattutto a ridosso delle nuove linee del cessate il fuoco e dell’autostrada M4.

A distanza di alcuni mesi dall’accordo di marzo, i casi realmente di rilievo di violazione delle intese riguardano l’attacco, operato soprattutto da gruppi affiliati all’ex Fronte Al Nusra, contro convogli russi e turchi che pattugliano la M4. A destare maggiore preoccupazione in questi mesi è invece la situazione sotto il profilo economico. Il rinnovo delle sanzioni, unite alle difficoltà di approvvigionamento energetico acuite dal prolungarsi del conflitto, iniziano a creare seri problemi per la tenuta della già provata società siriana.

Nella primavera del 2020, la Lira Siriana subisce un deprezzamento con pochi precedenti, l’inflazione riprende a galoppare, il commercio non da segnali di ripresa. Questo nonostante gran parte delle principali città adesso sono nuovamente collegate direttamente dopo le avanzate dei governativi. Il problema riguarda anche la ricostruzione, mai avviata del tutto lì dove le armi tacciono da diverso tempo. In tanti, a Damasco come all’estero, puntano il dito contro la corruzione. E non è un caso che il presidente Bashar Al Assad avvia una campagna contro il cugino Rami Makhlouf, l’uomo più ricco di Siria e principale azionista di Syriatel. Per lui scattano confische dei beni, sequestri e provvedimenti giudiziari. Un modo per mostrare la lotta senza quartiere alla corruzione, ma anche una saga che ha sullo sfondo una lotta per la supremazia nel campo della telefonia siriana.

A complicare ulteriormente il quadro è anche la crisi generata dal coronavirus: per prevenire il dilagare dell’epidemia in Siria, il governo predispone misure di contenimento che comportano la chiusura di molte attività e di industrie che già a fatica provavano a riprendersi dal conflitto. Ad oggi, tra disoccupazione e mancanza di prospettive future il rischio di un collasso dell’economia rappresenta per la Siria il peggiore spauracchio per il post guerra.

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