La guerra (infinita) al terrore

Il Duemila avrebbe dovuto essere il secolo del trionfo della pace e della democrazia, ma così non è stato. Si è aperto con gli attentati dell’11 settembre, che per gli Stati Uniti sono stati vissuti come la Pearl Harbour del XXI secolo, ed è proseguito con lo scoppio della competizione tra grandi potenze.

Il 2001 è l’anno che ha inciso sulla traiettoria dell’intero secolo, innescando una serie di sommovimenti che non cessa di dispiegare effetti a decenni di distanza. Tutto il mondo, nessuna regione esclusa, ha subito le conseguenze dell’11/9.

Un nuovo sistema internazionale è lentamente sorto dalle ceneri delle Torri gemelle: un’Europa più insicura, un Medio Oriente più conflittuale, un’Africa in guerra civile, un’Asia in fermento. E il principale strumento che gli Stati Uniti hanno utilizzato per navigare le turbolente acque del nuovo ordine mondiale è stato un conflitto senza quartiere, globale, contro quel nemico deterritorializzato che è il jihadismo: la Guerra al Terrore.

16 settembre 2001. Sono passati esattamente cinque giorni dalla Pearl Harbour del XXI secolo, che ha privato New York dei suoi edifici-simbolo, ha sfigurato il Pentagono e ha lasciato a terra quasi tremila morti, quando il presidente in carica, George Walker Bush, annuncia il lancio di un’operazione Ira di Dio su larga scala: la Guerra al Terrore (War on Terror).

L’internazionale del jihadismo e dei vari fondamentalismi islamici era in guerra con l’Occidente dagli anni Ottanta, sicuramente da Beirut 1983, e Osama bin Laden aveva lanciato una fatwa contro la giudeocristianità nel 1998, l’anno degli attentati alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania. Il 2000 si era aperto con lo sventamento del “complotto del millennio” e si era concluso con l’attacco allo USS Cole. Ma si era trattato di attacchi in luoghi distanti da casa, lontani dagli occhi e dal cuore dell’opinione pubblica, che mai avevano avuto l’effetto di produrre qualcosa di più che delle ritorsioni limitate e selettive.

L’11/9 era diverso. Si trattava del più grave attentato avvenuto sul suolo americano dai tempi di Pearl Harbour. E soprattutto, quando si dice che non tutto il male vien per nuocere, aveva le credenziali per divenire quell'”evento catalizzatore e catastrofico, simile ad una nuova Pearl Harbour” che il Progetto per un nuovo secolo americano (PNAC, Project for the New American Century), solo qualche anno prima, aveva indicato come necessario per legittimare un cambio di regime in Iraq e, in esteso, per produrre una politica estera più assertiva e muscolare nel pivotale Medio Oriente.

La visione per un Duemila americano del PNAC era stata scritta in tempi non sospetti da un insieme di neoconservatori, in larga parte composto da allievi dell’American Enterprise Institute, fra i quali tre personaggi rispondenti ai nomi di Donald Rumsfeld, Dick Cheney e Paul Wolfowitz. Nel 2001, all’indomani dell11/9, il destino, o forse il caso, volle che Rumsfeld fosse segretario della difesa, Cheney vicepresidente e Wolfowitz vicesegretario della difesa. Inevitabile, e per certi versi prevedibile, dunque, l’inaugurazione di una guerra senza confini volta a riscrivere la geografia politica del mondo a favore degli Stati Uniti.

La presidenza Bush, influenzata dal trio del PNAC, avrebbe formulato un piano d’azione globale contro il terrorismo basato su alcuni obiettivi, tra i quali la ricerca di bin Laden e di Abū Mus’ab al-Zarqāwī, la formazione di coalizioni internazionali, la persuasione dei cosiddetti “stati riluttanti” e il contrasto ai loro cugini: gli “stati canaglia”. A fare da sfondo all’apertura di tanti fronti globali, dall’America Latina all’Asia meridionale, una riforma ex novo della legislazione sulla sicurezza nazionale, non esente da critiche, facilitante la compressione delle libertà civili e la sorveglianza di massa.

Nel 2008, alla vigilia del passaggio di scettro, la Guerra al Terrore aveva raggiunto alcuni degli scopi originari, dichiarati e non, a partire dalla detronizzazione manu militari di Saddam Hussein, “preventivamente” deposto in forza di accuse rivelatesi successivamente fraudolente, e continuando con la caduta del governo talebano in Afghanistan e con l’inglobamento dei riluttanti partner europei nella celebre “coalizione dei volenterosi”.

Nel 2008, dopo otto anni di attacchi con droni, omicidi mirati e operazioni militari, Bush lasciava a Barack Obama un secolo ad un passo, apparentemente, dall’essere (nuovamente) americano. Lo suggerivano i numeri sulle adesioni alla Guerra al Terrore – 168 paesi partecipanti, tra accordi di cooperazione, coinvolgimento in campagne militari, concessione in uso di spazio aereo e prigioni, scambio di intelligence, eccetera. Lo indicavano le cifre delle operazioni CIA – operatrice di oltre 100 siti neri in più di 50 paesi e autrice di 100 rapimenti di obiettivi di alto valore nella sola Unione Europea. E sembrava provarlo il clima internazionale acquiescentemente prono, a prima vista, a guerre dei droni, invasioni preventive ed extraordinary rendition.

Barack Obama avrebbe voluto terminare la Guerra al Terrore all’indomani dell’eliminazione di bin Laden, trovato ed eliminato il 2 maggio 2011, ma l’inaspettata resistenza dell’Internazionale jihadista alla potenza di fuoco delle coalizioni internazionali non glielo ha consentito. Ad un anno di distanza dalla chiusura ufficiale della Guerra al Terrore, comunicata al grande pubblico il 23 maggio 2013, la presidenza Obama si sarebbe infatti ritrovata alle prese con un nuovo mostro: lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante.

L’ascesa globale del Daesh, la resilienza di Al-Qāʿida e al-Shaabab, la comparsa di nuove e temibili organizzazioni terroristiche, come Boko Haram, e la progressiva espansione dell’insorgenza jihadistica nell’Africa nera e nell’Asia centromeridionale, senza dimenticare l’affiorare della questione del radicalizzazione religiosa in Europa, erano la prova che l’anziano Zbigniew Brzezinski, il neocon atipico, aveva visto lungo. Aveva avvertito i decisori della nuova generazione che il ritorno di fiamma della Guerra al Terrore sarebbe stato ustionante – era stato lui, del resto, a intuire le potenzialità della “bomba islamista” negli anni Ottanta. Non era stato ascoltato. E la Guerra al Terrore, ad un certo punto, è diventata infinita.

Il jihadismo come un Idra di Lerna: teste che cadono, teste che ricrescono. Nel tentativo di accelerare la chiusura del fascicolo terrorismo, o perlomeno di ridimensionarne significativamente lo spessore data la necessità di focalizzarsi sul revisionismo della Russia e sull’Indo-Pacifico, Obama avrebbe alterato radicalmente la sostanza della Guerra al Terrore. Riduzione e specificazione degli obiettivi – meno ambiguità e più realismo. Esternalizzazione. Posteroismo – droni in luogo di uomini, con l’eccezione degli interventi in Libia e in Siria.

Se Bush Jr è stato colui che ha inaugurato le guerre dei droni, con 57 attacchi in Pakistan, Somalia e Yemen dal 2001 al 2008, Obama è stato colui che ha cristallizzato la pratica della “guerra da remoto“, autorizzando la conduzione di 563 operazioni negli stessi paesi dal 2009 al 2015. Pratica che è stata proseguita da Donald Trump, che ad un attacco con drone si è affidato per assassinare Qasem Soleimani, e da Joe Biden, che per eliminare Ayman al-Ẓawāhirī ha preferito utilizzare un drone anziché un commando di Navy SEALs.

Forse la Terza guerra mondiale in frammenti è iniziata nel 1999 in quel di Belgrado. O forse è cominciata l’11 settembre 2001, come operazione di polizia globale contro il terrorismo divenuta pretesto per sponsorizzare cambi di regime e politiche domestiche ed estere altrimenti ingiustificabili.

Tra il 2001 e il 2021, cioè nell’arco di un ventennio esatto, il Watson Institute della Brown University ha stimato che la Guerra al Terrore sia costata agli Stati Uniti 6-8 trilioni di dollari, che abbia causato lo sfollamento di 38-60 milioni di persone – un record battuto soltanto dalla Seconda guerra mondiale – e che abbia provocato quasi un milione di morti, un terzo dei quali civili.

Sfortunata come la Guerra alle Droghe, altra operazione di polizia degenerata in pantano, la Guerra al Terrore ha raggiunto soltanto una parte degli obiettivi tattici e strategici delle origini. Vero è che la minaccia del terrorismo islamista è scemata nelle Americhe, ma altrettanto lo è che l’Africa subsahariana si trova in una situazione peggiore rispetto al 2001 e che l’Asia centromeridionale è una polveriera pronta a esplodere. Vero è che degli acerrimi rivali sono scomparsi per sempre, ma altrettanto lo è che, come si suol dire, dopo di loro è venuto il diluvio: la Libia diventata un calderone incontrollabile, l’Iraq inglobato nelle sfere di influenza russa e iraniana, l’Afghanistan riconquistato dai talebani.

Dai sei agli otto trilioni di dollari per creare una geografia del potere di breve durata e per sostenere degli interventi dettati dall’impulsività, o dalla miopia, che, non tenendo in considerazione gli scenari più remoti, si sono rivelati controproducenti e hanno inavvertitamente dato una spinta all’avvio della transizione multipolare. Il Terrore non è stato vinto perché non è mai stato un nemico fisico, ma un’idea. Ed è un’idea che ha trovato supporto vitale negli errori degli Stati Uniti, dai crimini di guerra alle troppe vittime collaterali, e che ha galvanizzato un’ondata di antiamericanismo a uso e consumo di tutte quelle forze a loro avversi – dai terroristi dalle infinite vite alle potenze revisioniste.

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