La seconda guerra del Golfo: il conflitto contro Saddam del 2003

La guerra del 2003 ha costituito l’operazione militare con la quale gli Stati Uniti hanno abbattuto il regime di Saddam Hussein in Iraq. Quest’ultimo era al potere dal 1979, da quando aveva sostituito Al Bakr alla guida del Partito Baath, nato dalla tradizione del socialismo e nazionalismo panarabo. I rapporti tra Saddam ed i vari governi americani sono stati altalenanti: negli anni ’80 Washington ha sostenuto Baghdad in funzione anti iraniana durante il conflitto tra Iraq ed Iran, mentre con l’avvento della presidenza di Bush senior le due parti sono entrate in lotta nel 1991 a seguito dell’invasione da parte irachena del vicino Kuwait. Da allora, tra Iraq e Stati Uniti il rapporto è andato sempre più a deteriorarsi. Il governo di Saddam Hussein dopo il 1991 è stato soggetto a pesanti sanzioni internazionali di natura economica e militare. Per cui, nel 2003 l’Iraq si presentava come un Paese molto povero e con l’impossibilità di potenziare il suo esercito. A scatenare il conflitto, è stato il sospetto da parte del presidente Usa, George W. Bush junior, di un ricorso da parte di Saddam Hussein ad un programma volto ad aumentare la dotazione di armi di distruzione di massa. Sospetto poi rivelatosi, negli anni, infondato.

 

Dal 1991 in poi, come detto in precedenza, i rapporti tra Iraq e Stati Uniti sono stati sempre sul filo della tensione. A dimostrazione di ciò, non solo le sanzioni economiche imposte dopo la sconfitta irachena in Kuwait, ma anche altri raid ordinati dagli Usa contro Saddam. Nel 1993 e nel 1998, l’amministrazione Clinton ha lanciato due operazioni aeree volte a colpire l’esercito iracheno. L’ultima, in particolare, è stata denominata “Desert Fox” ed ha avuto come obiettivo quello di reagire all’inadempimento da parte del governo iracheno circa una risoluzione Onu inerente le ispezioni da parte del personale del Palazzo di Vetro. Dopo due giorni di tensione, l’operazione è stata poi conclusa con il via libera di Saddam agli ispettori Onu.

Ma la situazione è diventata ulteriormente precaria con l’avvento alla Casa Bianca di George W. Bush, figlio del presidente che nel 1991 ha lanciato la guerra contro l’Iraq per l’annessione del Kuwait. Il nuovo capo di Stato americano infatti, ha promosso una nuova dottrina volta ad individuare i cosiddetti “Stati canaglia“, definiti tali perché non democratici od in quanto sostenitori del terrorismo. Una linea, quella di Bush, che è diventata sempre più stringente a seguito dell’attentato terroristico dell’11 settembre 2001. Dopo la guerra lanciata in Afghanistan per cacciare i Talebani da Kabul, rei di difendere Osama Bin Laden e dunque l’autore dell’attacco alle Torri Gemelle, si è subito capito che il prossimo bersaglio americano sarebbe stato Saddam Hussein.

Già nella primavera del 2002 infatti, iniziavano a circolare voci su un possibile piano Usa per attaccare l’Iraq. Secondo Casa Bianca e Pentagono infatti, Saddam Hussein rappresentava un pericolo per la stabilità globale per via dei suoi presunti rapporti con il terrorismo islamico e per possibili corse agli armamenti nucleari.

La questione è diventata politica nell’ottobre del 2002, quando Bush è riuscito a far approvare dal Congresso l’autorizzazione della forza per “difendere la sicurezza nazionale degli USA contro la continua minaccia posta dall’Iraq; e per attuare tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a questo riguardo”. Da questo momento in poi, l’opzione militare contro Saddam diventava quindi sempre più concreta.

Tuttavia, Washington alle Nazioni Unite non ha avuto gioco semplice. L’8 novembre 2002 il Consiglio di Sicurezza al Palazzo di Vetro ha approvato la risoluzione 1441, con la quale si intimava all’Iraq di rispettare i propri obblighi in materia di disarmo. Tale risoluzione è stata accettata da Baghdad, con il governo di Saddam Hussein che ha quindi autorizzato l’ingresso degli ispettori Onu in Iraq. Il primo rapporto da parte delle Nazioni Unite, reso pubblico nel gennaio 2003, sosteneva che il governo iracheno non aveva del tutto adempiuto ai propri obblighi, tuttavia si sottolineava che le autorità locali non avevano posto alcun ostacolo al lavoro degli ispettori.

Il 14 febbraio ed il 7 marzo, sono stati pubblicati altri rapporti che hanno messo in evidenza la collaborazione irachena ed in cui si sosteneva, tra le altre cose, come il pericolo di uno sviluppo di un programma atomico da parte di Saddam fosse remoto. Ma nonostante questi esiti, gli Usa hanno continuato a sostenere la propria linea secondo cui l’Iraq avesse rapporti con il terrorismo e l’ambizione di costruire armi di distruzione di massa. Il 5 febbraio, nel corso di una tesa seduta al consiglio di sicurezza, il Segretario di Stato Colin Powell ha mostrato quelle che, secondo Washington, erano le prove dell’esistenza di un programma di arricchimento di uranio da parte dell’Iraq. 

Si è dunque ben intuito come gli Usa oramai fossero pronti soltanto all’opzione militare, nonostante il consiglio di sicurezza dell’Onu sulla base dei rapporti degli ispettori fosse di parere opposto. Secondo Bush, l’andamento del dibattito in seno alle Nazioni Unite rappresentava il fallimento della diplomazia. Gli Stati Uniti hanno quindi lavorato tra febbraio e marzo 2003 per la costituzione di un’alleanza, definita poi “coalizione dei volenterosi“: al fianco di Washington, vi era il governo britannico di Tony Blair, così come l’Australia ed alcuni Paesi centro asiatici che hanno concesso basi agli Usa. La Turchia ha concesso il proprio spazio aereo, ma non invece il transito della fanteria, cosa invece autorizzata dal Kuwait. Per cui, Washington a metà marzo del 2003 si preparava ad attaccare da sud l’Iraq. In un discorso tenuto alla Casa Bianca, Bush ha concesso tempo fino al 20 marzo a Saddam Hussein per abbandonare l’Iraq ed andare in esilio. Una proposta ovviamente rifiutata dal presidente iracheno.

Nella notte tra il 19 ed il 20 marzo, prime sirene anti aeree attivate a Baghdad hanno preannunciato le prime incursioni dei bombardieri Usa sulla capitale irachena. È stato quello il segnale dell’inizio della guerra: gli americani nelle prime ore di ostilità hanno bersagliato i più importanti obiettivi militari, quali caserme e depositi di munizioni, sia a Baghdad che nelle altre città più importanti dell’Iraq. Poche ore dopo i primi bombardamenti, il presidente statunitense Bush ha annunciato dalla Casa Bianca l’avvio della guerra. Poco prima dell’alba, a parlare in un discorso televisivo rivolto alla nazione, è stato lo stesso Saddam Hussein il quale ha invitato gli iracheni alla resistenza. 

A differenza che nel 1991, quando le operazioni di terra sono iniziate dopo quasi un mese di campagne aeree, nella guerra del 2003 raid ed incursioni via terra hanno preso il via contemporaneamente. Ed infatti dopo la prima notte di bombardamenti, truppe americane ed inglesi sono entrate dal Kuwait nell’Iraq meridionale occupando il porto di Umm Qasr.

La coalizione anglo americana ha da subito mostrato una netta superiorità in termini di quantità di uomini e mezzi, oltre che sotto il profilo tecnologico. Dall’altro lato, Saddam Hussein aveva tra le mani un esercito la cui unica forza d’élite era rappresentata dalla Guardia Repubblicana, mentre per il resto molti battaglioni e diversi reparti, come prevedibile, si sono disciolti dopo i primi bombardamenti. Inoltre, 12 anni di embargo non hanno permesso l’arrivo di nuovi mezzi o pezzi di ricambio, per cui le attrezzature delle truppe irachene risultava obsoleta. E questo riguardava sia gli effettivi che i cosiddetti “Fedayn“, milizie di volontari paramilitari guidati dal primogenito di Saddam, Uday Hussein.

La differenza nelle varie forze in campo, era ben visibile già dopo i primi giorni di guerra. I raid dal cielo avevano creato gravi danni alle infrastrutture militari irachene, mentre via terra americani ed inglesi hanno iniziato ad avanzare nel sud del Paese. Tuttavia, almeno fino alla fine di marzo, la coalizione a guida Usa non ha occupato in modo integrale le città in cui era riuscita a rompere la fragile resistenza irachena. La strategia era quella di prendere soltanto i luoghi più strategici, soprattutto da un punto di vista viario, e procedere verso Baghdad. A Bassora ad esempio, gli inglesi dopo aver circondato la città già il 22 di marzo, hanno avanzato di pochi chilometri al giorno fino alla prima decade di aprile attuando piccole incursioni volte a logorare la resistenza delle forze locali.

Nonostante la Turchia non avesse dato il suo benestare per lo stanziamento della fanteria Usa, da Washington hanno sfruttato l’astio dei curdi nei confronti di Saddam Hussein per penetrare ugualmente nel nord dell’Iraq. La minoranza curda infatti, da anni era impegnata nella rivendicazione di autonomia da Baghdad, negata da sempre dal governo centrale iracheno guidato dal partito Baath. Per questo, gli americani sono riusciti ad instaurare un’alleanza politica con le forze curde ed hanno stretto accordi militari con i peshmerga, i combattenti curdo – iracheni.

Le forze Usa, paracadutate nella regione pochi giorni dopo lo scoppio della guerra, hanno avuto quindi gioco facile ad entrare nel nord dell’Iraq. La resistenza delle forze legate a Saddam Hussein nel Kurdistan iracheno è stata nulla, con i marines che nel giro di pochi giorni hanno occupato con l’aiuto dei peshmerga città importanti quali Erbil e Sulaymaniyya, lambendo già a fine marzo Kirkuk e Mosul.

Ma è comunque da sud che statunitensi e britannici hanno principalmente puntato per entrare a Baghdad. Se a nord la coalizione a guida Usa ha trovato i curdi, nella parte meridionale dell’Iraq invece si è puntato sulle divisioni tra sciiti e sunniti. Questi ultimi costituiscono una minoranza nel Paese, ma al potere in quanto lo stesso Saddam Hussein era sunnita. Gli sciiti invece compongono la maggioranza, invisa in parte al governo di allora di Baghdad e risiedente prevalentemente nelle province meridionali dell’Iraq. Per questo in molti casi il passaggio delle truppe Usa è stato accolto in modo positivo dalla popolazione.

Tuttavia la risalita verso Baghdad non è stata semplice, anche perché come detto in precedenza gli americani hanno preferito conquistare solo porzioni di territorio. Dal canto suo, Saddam Hussein a fine marzo ha deciso di puntare tutto sulla difesa della capitale. E questo da un lato sia perché convinto di avere all’interno di Baghdad i suoi principali sostenitori e sia perché, dall’altro lato, persuaso della possibilità di trascinare gli americani in una logorante guerra urbana.

I primi giorni di aprile però, l’avanzata Usa verso la capitale irachena ha preso definitivamente slancio anche per via del consolidamento delle posizioni conquistate a sud. Intorno al 6 aprile, prime avanguardie di truppe americane hanno iniziato ad imperversare nella periferia sud di Baghdad, ingaggiando una cruenta battaglia per la presa dell’aeroporto. La difesa della capitale da parte degli iracheni, contrariamente alle aspettative di Saddam Hussein, è però durata molto poco. L’8 aprile carri armati americani sono ben visibili non lontani dal centro della città: le telecamere della stampa internazionale, hanno immortalato in quelle ore le ultime azioni di resistenza da parte dei fedelissimi di Saddam nei pressi delle rive del Tigri.

Il 9 aprile invece, i mezzi dell’esercito Usa sono entrati definitivamente a Baghdad. Nel primo pomeriggio, i primi marines sono stati ripresi dai mezzi della stampa alloggiata all’interno dell’Hotel Palestine. Poco dopo, un carro armato Usa ha tirato giù la statua di Saddam Hussein posta al centro della piazza dirimpettaia l’albergo, simboleggiando in tal modo la fine dei 23 anni di governo da parte del rais.

Con la caduta di Baghdad, nel resto dell’Iraq è venuta meno ogni resistenza da parte dell’esercito rimasto fedele a Saddam Hussein. Le truppe regolari irachene di fatto si sono frettolosamente sciolte, lasciando campo libero ai soldati avversari. Il 10 aprile curdi ed americani sono entrati nell’importante città petrolifera di Kirkuk, il 12 aprile invece a cadere è stata Mosul, terza città più grande del Paese. A sud, gli inglesi sono entrati definitivamente a Bassora. L’ultima importante città a cadere è stata Tikrit, centro natale di Saddam, da cui le forze irachene sono andate via il 15 aprile.

Il 1 maggio il presidente americano George W. Bush, atterrato sulla portaerei Abraham Lincoln, ha dichiarato ufficialmente la fine delle operazioni di guerra su larga scala in Iraq. Oramai l’intero Paese era in mano americana, con Saddam Hussein messo definitivamente fuori dai giochi.

Ma se la guerra a maggio è stata dichiarata conclusa, la pace in Iraq non risulterà in futuro mai destinata ad iniziare. Prima del conflitto, nonostante molti problemi e la presenza ingombrante delle sanzioni, l’Iraq era comunque un Paese stabile e con strutture di potere consolidate. La fine repentina del regime di Saddam, ha comportato anche e soprattutto il totale collasso delle istituzioni creando un vuoto di potere che ha prodotto, nel corso dei mesi successivi, più vittime che della guerra stessa.

Anche perché da Washington si è deciso di attuare la strategia della totale liquidazione del Partito Baath e di quel che rimaneva dell’esercito iracheno. Nel sud del Paese, ben presto gli sciiti hanno iniziato una ribellione contro la presenza delle truppe americane che ha portato ad attacchi contro gli stessi soldati Usa ed i vari alleati. A farne le spese è stata anche l’Italia, che in autunno ha inviato un contingente a supporto della coalizione internazionale in una missione cosiddetta di peace keeping. Il 12 novembre 2003, la base degli italiani stanziata nella città di Nassiriya è stata attaccata da un camion bomba uccidendo 19 nostri connazionale tra Carabinieri, soldati dell’esercito ed anche due civili.

Tra i leader della ribellione sciita, è emerso tra gli altri Moqtad Al Sadr, il quale ha fondato l’esercito del Mahdi ed è diventato tra i volti più popolari tra gli sciiti iracheni. Ma anche sul fronte sunnita la resistenza alla presenza americana è diventata subito molto forte. In particolare, scontri sono stati registrati nella città di Falluja, nell’ovest del Paese. Quest’ultima località è destinata, negli anni successivi, ad essere teatro di altre battaglie tra insorti ed esercito Usa.

Il caos dell’immediato dopoguerra, ha trasformato un potenziale conflitto lampo in un’operazione lunga 8 anni: soltanto nel 2011 infatti gli americani stabiliranno un definitivo ritiro dal Paese, lasciando il potere militare in mano agli iracheni. Tuttavia, l’esercito Usa non è mai andato via del tutto dall’Iraq: soldati americani sono rimasti in alcune basi del Paese e dal 2014 in poi, anno dell’avanzata dell’Isis, truppe a stelle e strisce sono tornate ad attuare operazioni militari in territorio iracheno. I postumi di quel conflitto dunque, sono ben presenti ancora oggi.

L’impressione della fine definitiva dei 23 anni di potere di Saddam Hussein, si è avuta il 13 dicembre 2003: in un blitz operato alle prime luci dell’alba in un casolare nei pressi di Tikrit, sua città natale, forze speciali Usa hanno catturato il rais. Saddam era nascosto dentro una botola, a pochi passi dalle rive del fiume Tigri. L’ex presidente iracheno si era rifugiato nel territorio in cui aveva ancora alleati, specialmente tra le tribù locali.

I soldati lo hanno trovato con la barba incolta e provato da un punto di vista fisico. L’esame del Dna ha poi confermato la sua identità. Alcuni mesi prima, precisamente il 22 luglio, i suoi due figli Uday e Qusay erano stati scovati ed uccisi nella città di Mosul. Saddam Hussein è stato trasferito in un carcere di massima sicurezza, dove ha trascorso gli ultimi anni della sua vita. Condannato nel 2006 alla pena di morte per la strage di Dujail, cittadina a maggioranza sciita rastrellata nel 1982 dalle forze speciali irachene, il rais è stato impiccato a Baghdad il 30 dicembre del 2006.