Ha radici culturali profonde, ma molto eterogenee. Per questo la Cecenia, oggi, può essere considerata la sintesi perfetta di secoli di conflitti, conquiste e imposizioni. Tuttavia, la regione, che si è spaccata e ricomposta in molte circostanze della storia, ha raccolto i pezzi delle sue diverse identità e li ha sempre rimessi insieme. Si è separata, è stata dominata e, infine, ha cercato la sua indipendenza, maturando un forte sentimento anti-russo, che esiste ancora. Divide l’est dall’ovest e come accade per le zone di confine, qui si sono incrociate culture e religioni che hanno contribuito a forgiare quella che oggi è la personalità dei loro popoli.
La Cecenia è questo e molto altro: è stata (spesso) teatro di guerra, luogo di lotta, di reclutamento e di pluralità religiosa. Qui hanno vissuto (e vivono) musulmani sunniti, cristiani ortodossi e qualche minoranza. Da qui, migliaia di persone sono state deportate e confinate in Siberia alla fine degli anni Cinquanta. E, sempre qui sono scoppiate guerre. Le ultime due, contro la Russia, hanno avuto risvolti politici determinanti, che hanno lasciato il segno.
La prima guerra cecena, combattuta dal 1994 al 1996, terminò con la dichiarazione d’indipendenza della regione dalla Russia e la nascita della Repubblica cecena d’Ičkeria. Il conflitto iniziò nel 1994, quando le forze federali russe cercarono di prendere il controllo delle varie aree montuose della regione. In quella circostanza, nonostante la maggioranza di uomini e la superiorità in termini di armamenti, l’esercito russo venne respinto dalla guerriglia cecena e dai raid condotti in pianura. Fu un conflitto sanguinoso, difficile e lungo, che avvilì i soldati e che non fu mai del tutto accettato dall’opinione pubblica. Morirono migliaia di persone, tra militari russi, civili e guerriglieri. E rimasero città smembrate e rovine. La seconda guerra cecena, invece, combattuta tra il 1999 e il 2009 ebbe un esito diverso per i russi e vide scontrarsi l’esercito della Federazione contro i separatisti. Ma per comprendere come tutto ebbe origine, è necessario conoscere la storia di quella regione. Da sempre, un luogo (politicamente) incandescente.
Il Caucaso, nella sua totalità racchiude, in una superficie di territorio piuttosto ridotta, tradizioni ed etnie tutte diverse fra loro. La zona è delimitata dalle catene montuose del Grande Caucaso al nord (cioè il confine geografico simbolico tra mondo europeo-occidentale e l’Asia) e il Piccolo Caucaso al sud. Nella regione settentrionale, esiste un’estrema frammentarietà di idiomi, popoli e culture, che però hanno tutte un tratto comune: la tarda ma maggioritaria adesione all’islam sunnita, a differenza di quanto accade nella parte meridionale, dove la prevalenza è cristiana ortodossa (la stessa fede professata dalla quasi totalità delle popolazioni di etnia russa).
Il territorio che, oggi, è identificato come Cecenia ha subito, nel corso dei secoli, l’influenza e la dominazione di numerose popolazioni provenienti dalle steppe euroasiatiche. A partire dal VII° secolo a.C., infatti, l’invasione degli Sciti costrinse gli abitanti del Caucaso a trovare rifugio nelle valli montane. Successivamente, sui territori caucasici presero il potere i Sarmati e fra il III° e il VII° secolo dopo Cristo arrivarono Goti, Unni, Avari, Turchi e Khazari. Quando Genis Khan, nel XIII° secolo, guidò i mongoli alla conquista dell’area, la Cecenia era nota come principato di Simsir, luogo in cui l’islam si diffuse come religione ufficiale (anche se la completa islamizzazione dell’area si concretizzò nel XIX° secolo). Ma oltre all’influenza islamica, furono i russi a giocare un ruolo determinante in Caucaso. La loro penetrazione provocò profondi mutamenti nella regione, anche se servirono almeno due secoli perché questa si concretizzasse per davvero in una completa conquista. Islamizzazione e russificazione furono due elementi esplosivi e due facce della stessa medaglia. Nel 1722, rispondendo agli appelli delle popolazioni cristiane del Caucaso meridionale, che desideravano sottrarsi alla dominazione musulmana e porsi sotto il protettorato russo, Pietro il Grande effettuò la prima spedizione militare nella regione caucasica. Era la premessa delle guerre russo-caucasiche (le prime), destinate a durare più di un secolo e a sancire il predominio russo nell’area.
Ma per tutta la durata dei conflitti, a sabotare l’espansionismo russo furono proprio le popolazioni musulmane del Caucaso settentrionale, che trovarono nella religione un importante elemento di coesione. Ed è a partire da questo momento che prese forma l’idea della “guerra santa” contro l’invasore straniero (non una vera e propria jihad ma, per influenza del pensiero delle numerose confraternite sufi, una ghazawat, parola araba che si traduce come “razzia”). Individuata una base ideologica, ciò che mancava per la nascita di un vero e proprio movimento insurrezionalista anti-russo era il riconoscimento di un leader incisivo e autorevole, capace di unire attorno a sé le popolazioni del Caucaso nord-orientale, indipendentemente dalle divisioni etniche. Nel 1785, i popoli che risiedevano nelle aree di montagna si riunirono intorno al proclamato sceicco Ušuma al-Mansur, che con il supporto degli ottomani, riuscì per sei anni a prevalere sull’impero russo. E nemmeno la sconfitta finale scalfì la sua immagine leggendaria, destinata a ispirare anche le insurrezioni ottocentesche e la resistenza cecena contemporanea. Mansur dimostrò, infatti, un’effettiva superiorità nella tattica, attraverso la tecnica della guerriglia rapida condotta sulle montagne (elemento che si conservò nel tempo, visto che la conoscenza dei territori permise una resistenza prolungata alle azioni degli eserciti stranieri).
Nella prima metà dell’Ottocento, la resistenza nell’area riprese vigore e le varie etnie si ritrovarono, ancora una volta, unite sotto l’egida dell’islam, grazie all’imam Šamil’ che, a partire dal 1834, tentò la fondazione di uno Stato relativamente moderno, nella forma di un imamato ceceno-daghestano, cercando di imporre un ordine basato sull’applicazione della šaria, cioè la legge islamica. Con il suo contributo, l’islamizzazione della Cecenia si compì in quel periodo, facendo scomparire i culti pagani dalla regione. Sostenuto dai ceceni, dalle popolazioni del Daghestan e da una parte dei sunniti azeri, Šamil’ riuscì a contrastare i russi, i quali, per cercare di estenuare la resistenza, colpirono la popolazione civile. La fine della guerra di Crimea, nel 1856, consentì ai russi di impegnarsi maggiormente nel Caucaso, dove la cattura di Šamil’ segnò la fine della resistenza unita e organizzata di quelle aree. Nel 1864, la guerra per il Caucaso finì e il consolidamento del potere russo incise fortemente sulla composizione etnica del territorio (meno musulmani e più sudditi russi insediati nella zona).
Dopo una serie di conflitti e resistenze, la Cecenia fu sconfitta e annessa all’impero russo nel 1870. E i successivi tentativi ceceni di riprendersi l’indipendenza fallirono. All’inizio del Novecento, la situazione nell’area appariva complessa a causa di due fattori determinanti: l’attivismo della componente cosacca e quello dei musulmani più radicali, i quali, nell’agosto del 1917, proclamarono l’imamato ceceno-daghestano, propugnando l’instaurazione di un regime monarchico e teocratico (che si sarebbe dovuto collocare sotto l’impero ottomano), che comprendeva la Cecenia, parti del Daghestan e dell’Inguscezia. Parallelamente, nacque anche la Repubblica delle Montagne del Caucaso settentrionale e nel 1919, le operazioni militari guidate dallo sceicco Uzun Hagi portarono alla liberazione completa della Cecenia, del Daghestan, dell’Ossezia e della Kabarda e alla sconfitta di Denikin. Così fu proclamata l’indipendenza del Caucaso del Nord e l’istituzione dell’emirato. Il 20 gennaio del 1921, Stalin propose la creazione di una Repubblica sovietica autonoma del Caucaso del Nord. Per permettere la sua nascita, i sovietici accettarono formalmente le tre condizioni poste dai popoli di montagna, ovvero il riconoscimento della šaria e dell’adat come leggi costituzionali della Repubblica, la rinuncia a qualsiasi ingerenza del governo centrale e la restituzione delle terre confiscate durante il periodo zarista.
Nel 1922 la Cecenia venne incorporata all’Unione Sovietica, ma gran parte degli accordi che Mosca aveva preso con la Repubblica delle Montagne non venne rispettata. Già dall’anno successivo, nel 1923, i tribunali islamici vennero chiusi, diversi leader locali furono posti agli arresti e si aggiunse il divieto di portare il kinzal, il pugnale simbolo dei popoli di quella regione. Nel 1929 la popolazione di Cecenia, Daghestan e di altre repubbliche vicine scelse di ribellarsi al dominio sovietico, fatto che costrinse Mosca a fare un passo indietro e a moderare le sue ingerenze. Il 25 dicembre del 1936 venne istituita la Repubblica socialista sovietica autonoma della Ceceno-Inguscezia, che aveva il suo centro amministrativo a Groznyj.
L’anno dopo, l’avvio delle purghe staliniane cambiò il profilo sociale della regione: in Cecenia, le persecuzioni decapitarono l’élite culturale e soffocarono l’identità islamica: le moschee vennero distrutte o riconvertite in granai (così come accadde a molti luoghi di culto cristiani) e la sola conoscenza della lingua araba poteva essere motivo di detenzione. Inoltre, furono diversi i tentativi di introdurre l’allevamento di suini nell’area, a sfregio della dottrina musulmana (che vieta il consumo di quel tipo di carne). All’inizio del 1944, il governo centrale sovietico avviò (in segreto) l’operazione čečevica, che prevedeva la deportazione dell’intero popolo ceceno entro una settimana: il 23 febbraio di quell’anno, con il pretesto di festeggiare il 26° anniversario della fondazione dell’Armata rossa, in tutti i villaggi fu radunata la popolazione e venne letto il comunicato del Comitato governativo di difesa, che annunciava il trasferimento dei cittadini. Più di un milione di ceceni, ingusci e altri popoli caucasici settentrionali furono mandati in Siberia e in Asia centrale, stipati in treni merci, senza cibo o acqua. La motivazione ufficiale era l’accusa di aver collaborato e appoggiato l’invasione della Germania nazista (che, in effetti, tra la popolazione, negli anni Quaranta aveva fatto proseliti anti-russi), ma il motivo reale era una questione etnica. La politica sovietica (e, in particolare, quella staliniana) schiacciò l’identità cecena, trasformandola, di fatto, in una “non entità”.
Nel 1956, la condanna degli eccessi dello stalinismo al XX° Congresso del Pcus riabilitò e fece tornare in patria i cosiddetti “popoli puniti“. Nel 1957, grazie all’intervento del nuovo leader sovietico, Nikita Cruščev, la re-istituzione della Repubblica Ceceno-Inguscezia aveva permesso l’immediato rientro nella regione dei cittadini ceceni deportati. Ma negli anni della loro assenza, la composizione etnica dell’area era profondamente mutata. Le occupazioni, per esempio, avevano letteralmente invaso le zone abbandonate e avevano contribuito a rendere la situazione particolarmente tesa. Gli ingusci trovarono una parte consistente dei propri territori occupati da popolazioni di etnia osseta, i quali si rifiutarono di lasciarli (uno degli elementi ricorrenti nei conflitti degli anni Novanta). I ceceni, al loro rientro, trovarono invece gran parte delle proprie abitazioni occupate da russi e ucraini e per riaverle furono costretti a ricomprarle. Molti di loro, per essere maggiormente controllati, vennero inviati dalle autorità sovietiche a vivere in pianura e la crescente tensione fra popolazione russa e cecena nella regione portò comprensibilmente a un aumento dei crimini violenti. I russi lasciarono le campagne e si trasferirono in massa a Groznyj, dove potevano fornire le competenze tecniche necessarie alla nascente industria di cui solo loro disponevano. Il fenomeno contribuì alla marginalizzazione della popolazione cecena rispetto al mercato del lavoro nelle aree in via di sviluppo: i giovani, in particolare, vennero completamente tagliati fuori, fatto che contribuì a radicalizzarli e a incasellarli nelle dinamiche più violente del separatismo.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, nel dicembre del 1991, la Russia divenne una nazione indipendente, percepita come lo Stato successore dell’URSS (anche se perse la maggior parte della sua forza militare e, soprattutto, economica). E mentre l’etnia russa componeva più del 70% della popolazione della Repubblica socialista sovietica federata russa, alla caduta di questo sistema le differenze etniche e religiose in molte regioni dell’ex orbita sovietica costituirono una minaccia per l’integrità politica del nuovo Stato. E fu proprio poco prima del crollo, all’inizio del 1990, che le diversità etniche ruppero con il governo federale, chiedendo autonomia e (vera) indipendenza. I conflitti ceceni furono l’elemento più evidente di questo malcontento diffuso (che esisteva da secoli).
Il 6 settembre del 1991, alcuni militanti del partito del Congresso nazionale del popolo ceceno, creato dall’ex generale sovietico, Džokhar Dudaev, convocarono una sessione del Soviet supremo (con l’obiettivo di dichiarare l’indipendenza della regione) e uccisero a Groznyj il rappresentante del partito comunista dell’Unione Sovietica, tramite defenestrazione. Poi linciarono altri membri del partito e ufficialmente dissolsero il governo della Repubblica autonoma dell’Unione Sovietica Ceceno-Inguscia. A ottobre dello stesso anno, Dudaev ottenne il sostegno popolare con largo margine e spodestò l’amministrazione ad interim appoggiata dal governo federale. Presa la carica presidenziale, decretò l’indipendenza dall’URSS e, dopo qualche settimana, l’allora presidente russo in carica, Boris El’cin, inviò delle truppe a Groznyj, costrette a ritirarsi dalle forze di Dudaev. Dopo che la Cecenia pronunciò l’iniziale dichiarazione di sovranità, nel giugno del 1992, la Repubblica autonoma Ceceno-Inguscia si divise in due. La Repubblica dell’Inguscezia, in seguito, confluì all’interno della Federazione russa, mentre la Cecenia dichiarò la sua piena indipendenza nel 1993 (con il nome, appunto, di Repubblica cecena di Ičkeria).
Nei primi anni Novanta, decine di migliaia di russi, ucraini e armeni lasciarono l’area, dichiarando di essere oggetto di violenze da parte dei ceceni. Nella prima fase della guerra civile (non del tutto dichiarata), le fazioni contro o a favore di Dudaev si scontrarono per ottenere più potere. Nel marzo del 1992, l’opposizione tentò un colpo di Stato, ma le forze presidenziali soffocarono l’azione. Nell’aprile dello stesso anno, Dudaev prese i poteri e a giugno sciolse il parlamento. Così, le forze federali inviate per un altro conflitto, quello che coinvolse Ossezia-Inguscezia, vennero mandate sul confine ceceno alla fine dell’ottobre del 1992. Dudaev definì l’azione “un atto di aggressione contro la Repubblica cecena” e dichiarò lo stato d’emergenza (minacciando una sommossa totale se la Russia non si fosse ritirata subito). Il tentativo di un altro golpe si consumò nel 1993, quando l’opposizione chiese l’assistenza di Mosca, che arrivò nell’agosto del 1994, tramite supporto finanziario, equipaggiamento militare e forze mercenarie, quando la coalizione delle forze d’opposizione lanciò una campagna armata per deporre Dudaev. La Russia scelse di interrompere tutti i voli civili per Groznyj, mentre l’aviazione militare e le truppe di confine pianificavano l’embargo della regione. Il 30 ottobre del 1994, i primi bombardamenti si abbatterono sulla capitale della Repubblica. Tra il 26 e il 27 novembre, venne lanciato un potente attacco alla città, ma ancora le forze cecene riuscirono a respingere l’azione. Il 29 novembre El’cin emise un ultimatum a tutte le fazioni coinvolte in Cecenia, ordinando il disarmo e la resa. Ma il no di Groznyj scatenò un altro attacco russo, per ristabilire il cosiddetto ordine costituzionale. I bombardamenti delle unità federali continuarono a colpire l’area (e la sua capitale) e qualche giorno dopo, l’11 dicembre del 1994, dopo che il presidente Dudaev e il ministro della Difesa russo, Pavel Gračev, avevano concordato di evitare l’uso della forza, le unità russe entrarono in Cecenia con il fine di ricostituire l’ordine e di preservare l’integrità territoriale della Russia.
Quella che avrebbe dovuto essere una “sanguinosa guerra lampo“, come la definì Gračev, destinata cioè a terminare in un lasso di tempo molto breve, invece, si trasformò in una ferita mai chiusa. Perché se il conflitto appariva controverso all’opinione pubblica, era totalmente osteggiato da alcuni vertici militari russi. Molti di loro rassegnarono le dimissioni e più di 800 soldati professionisti e ufficiali si rifiutarono di prendere parte all’operazione. In ogni caso, nelle prime ore di guerra, l’aeronautica cecena venne completamente distrutta, ma tutte le aspettative di una sorta di attacco chirurgico, seguito dalla cancellazione dell’indipendenza cecena, non si concretizzarono. Alcune unità federali, già poco motivate alla partenza per la guerra, si rifiutarono di avanzare in quei territori e in Inguscezia alcuni civili riuscirono a fermare i soldati russi. La resistenza cecena, che si mostrava sicuramente più risoluta, riuscì a inibire le colonne inviate da Mosca (che in alcune circostanze si arresero). El’cin ordinò ai militari russi di mostrare forza e determinazione, ma le perdite tra i civili spinsero anche i più convinti detrattori di Dudaev che il conflitto non rappresentava una soluzione al problema. La scelta di inviare sul campo soldati giovanissimi e addestrati da poco, invece che professionisti della tattica, peggiorò una situazione già tesa. Se la resistenza cecena, infatti, sul territorio complicava le cose ai soldati federali, Mosca rispondeva con feroci bombardamenti a tappeto (che uccisero non solo ceceni, ma anche russi).
Quando le forze russe assediarono Groznyj, migliaia di civili persero la vita a causa dei raid aerei e dei bombardamenti. L’assalto iniziò la notte di capodanno del 1995 e finì con una pesante perdita: morirono tra i mille e i 2mila soldati russi. Fu una guerra urbana pesantissima e nonostante l’iniziale vittoria cecena, fu Mosca a conquistare la città. La Russia accusò i ceceni di utilizzare i civili come scudi umani, ma il conflitto non si fermò. Il 19 gennaio del 1995, non tra poche difficoltà, i soldati russi conquistarono il Palazzo presidenziale ceceno, collocato al centro della città. Sergej Kovalev, consigliere del presidente El’cin per i diritti umani, stimò la perdita di 27mila civili solo nelle prime cinque settimane di combattimenti, ma per alcuni vertici militari russi i decessi furono circa 35mila (compresi 5mila bambini) , composti in maggioranza da cittadini di etnia russa. Ciò che rimase dell’assedio della capitale fu descritto come una catastrofe e l’ex presidente sovietico, Michail Gorbacev, definì il conflitto “una vergognosa avventura sanguinaria”. Dopo la caduta della capitale, le forze russe allargarono il controllo nelle zone rurali e in quelle di montagna. Ne conseguì il massacro di 103 civili nel villaggio di frontiera di Samaski e altre offensive russe. I separatisti ceceni (che, in alcuni casi, si nascosero tra i profughi di guerra) risposero ai russi con frequenti prese di ostaggi e il 6 marzo 1996, in migliaia, si infiltrarono nella capitale. Per tre giorni lanciarono attacchi a sorpresa in molte aree della città, riuscendo a impossessarsi di armi e munizioni. Le perdite e l’impopolarità di questa guerra convinsero El’cin a cercare una veloce via d’uscita dal conflitto (vista anche la vicinanza con le elezioni presidenziali). E nonostante l’uccisione di Dudaev, il 21 aprile 1996, il movimento separatista rimase unito. A maggio, El’cin dichiarò la vittoria, ma le forze armate, in realtà, continuarono a combattere. Tre giorni prima dalla seconda nomina di El’cin alla presidenza e quando le truppe russe vennero spostate a sud, i ribelli ceceni lanciarono un attacco a sorpresa a Groznyj. Assediate basi e postazioni russe (in due gigantesche operazioni denominate “Operazione zero” e “Operazione jihad”), i separatisti immobilizzarono la città. Migliaia di soldati furono presi in ostaggio, disarmati e uccisi. Il 19 agosto del 1996, nonostante la presenza di migliaia di civili (ceceni e russi), il comandante russo Konstantin Pulikovskij intimò ai ceceni di lasciare la città in 48 ore, altrimenti sarebbe partito un massiccio attacco aereo. Iniziarono i bombardamenti, fermati in qualche ora dal cessate il fuoco, deciso dal consigliere nazionale per la Sicurezza di El’cin, Aleksandr Lebed’. Il 31 agosto 1996 fu firmato l’accordo di Chasav-Jurt, che prevedeva il ritiro di entrambe le forze da Groznyj, la creazione di un quartier generale congiunto volto a evitare altri combattimenti in città, ma soprattutto il ritiro delle forze armate russe dalla Cecenia, con effetto immediato. Il trattato preparò il terreno alla firma di altri due importanti patti tra Russia e Cecenia: a metà novembre dello stesso anno, El’cin firmò un accordo riguardante le relazioni economiche con la regione e i risarcimenti per i ceceni colpiti dal conflitto. Nel 1997, la Russia approvò un’amnistia per i soldati russi e i separatisti ceceni che avevano commesso azioni illegali nel corso della guerra.

Il 12 maggio del 1997, il nazionalista Aslan Maskhadov, eletto presidente della Cecenia indipendente, firmò insieme al presidente russo un trattato sulla pace e sui principi delle relazioni russo-cecene. Nel 1999, però, il conflitto riprese, quando alcuni ex comandanti, guidati da Samil Basaev e Ibn al-Khattab, invasero il Daghestan, dando inizio alla seconda guerra russo-cecena.
Il massiccio attacco russo, che durò anni, convinse diversi oppositori di Dudaev a schierarsi dalla sua parte. Le città smembrate, l’assedio di Groznyj, i massacri e i numerosi episodi di violenza convinsero molti volontari ad arruolarsi tra i ribelli. Come riportato da un rapporto delle Nazioni Unite del 26 marzo 1996, i ribelli ceceni disponevano di numerosi bambini-soldato (anche sotto gli 11 anni di età). E più il territorio controllato dalle forze ribelli e dai separatisti diminuiva, più la resistenza si mostrava nella sua capacità tattica, con la disposizione di ordigni esplosivi e imboscate. Nel febbraio del 1996, le truppe federali e alcuni gruppi ceceni vicini a Mosca spararono su una manifestazione a Groznyj per l’indipendenza (circostanza in cui persero la vita numerosi dimostranti). Il palazzo presidenziale ceceno, da dove Dudaev aveva amministrato tutto il suo potere, provato da anni di guerriglia, venne distrutto. Con la caduta del simbolo della prima indipendenza cecena, anche la guerra mutò il suo profilo. Diverse organizzazioni per i diritti umani accusarono la Russia di aver causato un alto numero di vittime, per l’uso sproporzionato della forza. Inoltre, soprattutto nelle città, un alto numero di morti, causati dagli attacchi dell’esercito federale, era di etnia russa e non cecena. Fatto che sconvolse l’opinione pubblica di Mosca. Inoltre, le truppe russe impedirono più di una volta ai civili di lasciare le zone sotto attacco e non consentirono l’attività di organizzazioni umanitarie nella zona, che prestavano assistenza alle popolazioni locali. Notizie di violenze, abusi ed episodi di tortura, da parte dei russi, sono stati denunciati da diverse organizzazioni non governative. Allo stesso modo, anche i separatisti ceceni vennero accusati di diversi crimini, tra cui la presa in ostaggio di molte persone, maltrattamenti, violenze e l’uccisione di tutti i civili considerati dei collaboratori di Mosca. Il primo conflitto ceceno contribuì a ridimensionare la popolarità di El’cin e nei russi insinuò l’idea che le altre etnie della federazione fossero dei nemici da combattere.
Il secondo conflitto tra Russia e Cecenia durò dieci anni, dal 1999 al 2009. Al termine della prima guerra cecena, il controllo politico e militare dei separatisti sulla regione risultava piuttosto debole (in particolare al di fuori di Groznyj): l’area, infatti, subiva le aggressioni di bande paramilitari, mercenari ed estremisti islamici, che aggravarono la situazione già così precaria. Gruppi armati e veri e propri signori della guerra si opposero apertamente all’autorità del governo centrale, scatenando un conflitto interno molto violento. Per fronteggiare la già tesa situazione politica, il governo ceceno dichiarò lo stato d’emergenza, cercando di attenuare le azioni di guerriglia attraverso l’intervento delle autorità. Ancora una volta, però, alla base del conflitto tra la Russia e la piccola repubblica caucasica c’erano delle ragioni storiche e tensioni religiose. Si aggiunse, poi, il malcontento russo dovuto alla sconfitta subita qualche anno prima e i problemi legati al fondamentalismo islamico, che in quella zona reclutava miliziani e diffondeva radicalismo. I fondamentalisti, infatti, riuscirono a sfruttare l’esteso sentimento separatista e nazionalista in funzione di un’inedita forma di jihad islamica. Dall’altra parte, c’era il timore di Mosca che il concedere troppa autonomia alla Cecenia avrebbe causato un effetto domino, incoraggiando altre repubbliche della Federazione russa alla secessione.
La tensione tra le due parti aumentò anche a causa del terrorismo e dopo alcuni scontri al confine russo-ceceno. Il 16 novembre del 1996, nella cittadina di Kaspijsk, nel Daghestan, un attacco terroristico fece esplodere una palazzina che ospitava alcuni militari russi, causando decine di vittime. Origini, cause e autori dell’attentato non furono mai chiarite, ma Mosca individuò nei separatisti ceceni i diretti responsabili. Nell’aprile del 1997, altre persone morirono in un altro attacco dinamitardo nella stazione ferroviaria di Armavir e a maggio un altro attentato causò altri morti in una stazione nel territorio di Stavropol’. A dicembre, un contingente di milizie daghestane, insieme a un gruppo di guerriglieri ceceni guidati al signore della guerra arabo, Ibn al-Khattab, assalirono una base militare russa. Nella primavera del 1998, un convoglio militare russo subì un duro colpo. L’imboscata, da parte di miliziani ingusci, al confine tra Cecenia e Inguscezia, provocò la morte di tre alti ufficiali russi e altre vittime. Il 7 aprile del 1999, l’assassinio di quattro poliziotti russi di confine a Stavropol’ fu l’ennesimo colpo e alla fine di maggio Mosca annunciò pubblicamente che, con lo scopo di combattere il terrorismo e l’estremismo islamico, i militari avrebbero ricevuto l’ordine di sparare a vista su qualsiasi individuo (o movimento) sospetto. I primi a morire, dopo questo ordine, furono quattro miliziani ceceni, uccisi durante l’assalto a un posto di blocco il 18 giugno 1999. Contemporaneamente all’invasione in territorio daghe stano da parte dei fondamentalisti islamici e delle milizie di al-Khattab, una serie di attentati dinamitardi colpirono alcune abitazioni di Mosca, di Volgodonsk e nella cittadina daghestana di Bujnaksk. Di tutti gli attentati (com’era prevedibile che fosse), l’allora presidente El’cin accusò i separatisti ceceni, ma in molti si generò il sospetto che dietro quelle azioni ci fossero i servizi segreti russi, con lo scopo di scatenare una campagna denigratoria contro i ceceni per giustificare la seconda invasione della regione. Il 29 settembre del 1999, Mosca chiese alla Cecenia l’estradizione dei responsabili materiali degli attentati e il giorno successivo le forze di terra iniziarono l’invasione dell’area. Quello fu l’inizio della seconda guerra russo-cecena.
Il secondo conflitto risultò molto più lungo del primo e con più implicazioni politiche e sociali. Nel settembre del 1999 la Russia attuò una pesante campagna di bombardamenti aerei sulla Cecenia, con l’obiettivo di eliminare gran parte dei movimenti di guerriglieri che minacciavano i confini con il Daghestan. I raid di Mosca provocarono centinaia di vittime (soprattutto tra i civili), elemento che acuì il sentimento anti-russo nella popolazione. Fu, anche in questo caso, una guerra complessa e difficile, soprattutto dal punto di vista della tattica militare. Il panorama cambiò con l’arrivo alla presidenza di Vladimir Putin. Il 1° ottobre, infatti, dichiarò illegittima l’autorità del presidente Maskhadov, così come quella del parlamento ceceno. Almeno all’inizio, le intenzioni di Putin sembravano quelle di isolare la regione settentrionale della Cecenia e creare un cordone sanitario che proteggesse il confine russo dalle incursioni dei separatisti, ma nei mesi successivi la strategia risultò insufficiente. La campagna russa, quindi, divenne più massiccia. Il 10 ottobre, il presidente ceceno Maskhadov presentò un piano di pace, offrendo a Mosca la rottura con i signori della guerra, responsabili di incursioni e attentati, e fece appello alla Nato affinché si opponesse al conflitto.

La Russia proseguì la sua offensiva, avanzando molto lentamente, facendo uso di artiglieria e supporto aereo, con il fine di indebolire le difese cecene. Maskhadov proclamò la guerra santa contro le truppe di Mosca e dichiarò la legge marziale. In pochi giorni, l’esercito russo conquistò altri punti strategici per l’assalto a Groznyj. Il 21 ottobre del 1999, un missile balistico lanciato dai russi nel centro della capitale causò il decesso di 140 persone e centinaia di altri feriti. I russi motivarono l’azione spiegando che il mercato cittadino veniva spesso utilizzato da ribelli e separatisti come base clandestina per l’acquisto e lo scambio di armamenti. Attacchi, offensive e controffensive proseguirono, almeno fino al gennaio del 2000. Groznyj fu assediata per una seconda volta, nel febbraio di quell’anno. La riconquista della città da parte dei russi provocò una distruzione tale che, come riportato da un articolo della Bbc, nel 2003, le Nazioni Unite la definirono il luogo più devastato al mondo. Tuttavia, dalla presa della capitale, Mosca ricominciò a soffrire di gravi perdite, perché gli attacchi e gli agguati ceceni si fecero sempre più insistenti. Così come le rappresaglie russe. Ciò che seguì fu un intenso bombardamento dell’area montuosa della regione, nel sud della Cecenia.
Putin riuscì a ottenere il controllo diretto del territorio ceceno nel maggio del 2000 e a giugno nominò il leader ceceno, Akhmad Kadyrov, capo ad interim del nuovo governo filo-russo. Come accadde durante il primo conflitto russo-ceceno, anche in questo caso, l’ingente perdita di vite umane convinse gran parte dell’opinione pubblica a osteggiare la campagna. Il 23 marzo 2003 venne proclamata una nuova costituzione, frutto di un referendum popolare ritenuto controverso da diversi analisti internazionali (tra le criticità segnalate, anche l’ammissione al voto dei soldati russi che occupavano il territorio ceceno). La nuova costituzione lasciava alla Cecenia un certo grado di autonomia, mantenendo comunque un forte legame con Mosca e con le decisioni del suo parlamento. Il 9 maggio del 2004, Kadyrov morì in seguito a un attentato esplosivo, che distrusse il settore vip dello stadio Sultan Bilimchanov di Groznyj, dove si sta svolgendo una parata per celebrare la Giornata della vittoria. Nel 2004, le forze lealiste di Ramzan Kadyrov, figlio di Akhmad e leader del gruppo paramilitare filo-russo “Kadyrovtsky”, presero il controllo sulle operazioni di polizia e nel dicembre 2005, sempre Kadyrov figlio divenne, di fatto, il governatore della Repubblica Cecena e nel 2007 presidente.
Il 2 febbraio del 2005, Maskhadov inviò a Putin un appello per un cessate il fuoco. L’8 marzo, però, il presidente ceceno rimase ucciso durante un’operazione delle truppe speciali russe a nord-est della capitale. Dopo il suo decesso, il consiglio dei ribelli ceceni annunciò che la guida del gruppo era stata affidata a Abdul-Halim Sadualyev, azione approvata da Samil Basaev. Anche il nuovo leader, che apportò diversi cambiamenti all’interno del governo, venne ucciso nel 2006 e a capo della guerriglia venne eletto Doku Umarov. Con la morte di Maskhadov si spense anche l’ultimo baluardo indipendentista laico nella zona. Da quel momento, progressivamente, si fece spazio una fazione ultra-religiosa che monopolizzò il movimento separatista, promuovendo un’interpretazione confessionale del nazionalismo ceceno. Lo hanno dimostrato, nel tempo, i leader dei ribelli, che hanno chiesto di farsi definire come imam o emiri. Il fondamentalismo islamico, infatti, è rimasto un elemento fondamentale nella violenta contesa russo-cecena. Tra il giugno del 2000 e il settembre del 2004, per esempio, la tattica dell’attacco suicida si è aggiunta alla lotta dei separatisti (dentro e fuori dai confini ceceni). La fine delle ostilità venne annunciata dal presidente ceceno Kadyrov (figlio) nel marzo del 2009.