Con il termine Guerra di Corea ci riferiamo al conflitto armato andato in scena nella penisola coreana tra il 1950 e il 1953 quando, in piena Guerra Fredda, si contrapposero gli eserciti nordcoreani e sudcoreani, supportati rispettivamente da cinesi e americani. Dopo tre anni di intensi combattimenti il braccio di ferro si concluse con un armistizio firmato nel villaggio di Panmunjom, situato al confine tra le due Coree.
Il numero delle vittime è stimato in due milioni di civili tra dispersi, morti e feriti, 500mila soldati uccisi per ciascuna delle due Coree, da uno a tre milioni di soldati cinesi, 54.246 americani e 3.194 militari di altra nazionalità. Dal momento che non è mai stato firmato un trattato di pace, formalmente la Guerra di Corea non è ancora terminata.
Al termine della Seconda Guerra Mondiale la penisola coreana era ancora una colonia dell’impero giapponese. Nel 1905 la Corea divenne infatti un protettorato nipponico e, cinque anni più tardi, nel 1910, fu definitivamente inglobata da Tokyo. Il dominio coloniale fu durissimo. Le risorse del Paese furono saccheggiate, l’uso della lingua coreana bandito. I giapponesi arrivarono persino a chiedere ai coreani di cambiare i loro nomi e cognomi, così da adattarli allo stile nipponico.
L’occupazione terminò nel 1945, con la sconfitta del Giappone nel secondo conflitto mondiale. A quel punto la Corea non si ritrovò libera. Al contrario, finì al centro di quella che sarebbe stata rinominata Guerra Fredda, incastonata tra gli interessi degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica.
Sovietici e americani sostituirono di fatto i giapponesi. I primi entrarono nella parte settentrionale della Corea nell’agosto 1945; i secondi arrivarono un mese più tardi nella parte meridionale, dove crearono un governo militare a Seul, senza modificare l’apparato amministrativo creato dai colonizzatori nipponici. Detto altrimenti, gli occupanti vincitori, che avevano costretto alla resa il Giappone, suddivisero la penisola coreana in due aree di influenza all’altezza del 38esimo parallelo.
Nonostante la separazione, nell’aria risuonavano le promesse di una ipotetica riunificazione. Nel 1943 Stati Uniti, Gran Bretagna e Cina presero parte alla Conferenza del Cairo. Fu stabilito che la Corea sarebbe dovuta diventare una nazione neutrale, con il tacito consenso dell’Unione Sovietica. Dopo un breve periodo di assestamento, inoltre, la penisola coreana avrebbe dovuto dotarsi di un proprio governo mediante consultazioni elettorali.
Gli interessi geopolitici in gioco erano tuttavia troppo grandi. Gli americani si opposero a qualsiasi compromesso istituzionale tra Nord e Sud e supportarono i militari sudcoreani. Nel 1946 nacquero due partiti comunisti: il Partito comunista della Corea del Nord, capitanato da Kim Il Sung, nonno dell’attuale leader Kim Jong Un, e quello della Corea del Sud, guidato da Pak Hong Yong. Quando i comunisti del Sud furono repressi dal governo provvisorio sudcoreano, fu evidente che la riunificazione pacifica non sarebbe stata una via possibile.
Nel 1948 una risoluzione dell’Onu impose libere elezioni in Corea. Al di sotto del 38esimo parallelo salì al potere Syngman Rhee, ex capo del governo provvisorio; al nord non si svolsero alcune elezioni, visto che l’Unione Sovietica non riconobbe la decisione internazionale. A quel punto, nel 1948, nacquero due Stati distinti: la Repubblica Popolare Democratica di Corea al Nord (19 luglio 1948) e la Repubblica di Corea al Sud (15 agosto 1948).
Nel 1950 la situazione era tesissima. Il 38esimo parallelo, concordato da Usa e Urss nel 1945 per impedire che scoppiassero incidenti tra americani e sovietici durante eventuali combattimenti contro i reparti giapponesi, prossimi alla capitolazione, si rivelò fragilissimo. Dopo vari incidenti, accadde l’irreparabile.
Il 23 e il 24 giugno del 1950 le truppe del Sud bombardarono le linee del Nord e occuparono la città di Haeju. Il 25 giugno i nordcoreani passarono al contrattacco. Migliaia di soldati, all’alba, varcarono il 38esimo parallelo a bordo di 150 carrarmati T-34 di fabbricazione sovietica. In appena tre giorni di combattimenti conquistarono Seul, la capitale sudcoreana.
L’Onu condannò l’attacco e inviò in Corea un contingente formato da militari provenienti da 16 Paesi differenti. Il comando delle operazioni fu affidato agli americani, che, per quanto riguarda l’area dell’Oceano Pacifico, potevano contare sul carisma del generale Douglas McArthur, colui che aveva vinto il Giappone. Partì così la controffensiva del Sud, che si caratterizzò per essere un intervento americano “mascherato” da operazione dell’Onu.
Il 7 ottobre le forze dell’Onu riuscirono a riconquistare il territorio perduto al Sud, e decisero di attraversare a loro volta il 38esimo parallelo. A quel punto fu la Corea del Nord a essere travolta dall’onda d’urto statunitense.
Gli americani penetrarono la Corea del Nord fino a raggiungere il confine cinese. La notizia sconvolse Pechino. La prospettiva di avere le truppe statunitensi a due passi dalla Città Proibita proprio non piaceva a Mao Zedong.
Il 2 ottobre 1950 il Grande Timoniere inviò un telegramma a Iosif Stalin in cui richiedeva l’aiuto sovietico per organizzare una risposta. In un primo momento Stalin sembrò essere favorevole al piano di Mao, salvo fare retromarcia il 10 ottobre.
Non c’era più tempo da perdere. ”Se permettiamo agli Stati Uniti di occupare tutta la Corea – scrisse Mao nel telegramma rivolto a Stalin – il potere rivoluzionario nel Paese subirà una dura sconfitta e gli americani diventeranno incontenibili in Estremo Oriente”. Nello stesso documento i leader cinesi avevano preso in considerazione l’ipotesi che un intervento della Cina nella Guerra di Corea avrebbe potuto comportare, come rappresaglia, il bombardamento americano su alcune città del Dragone.
Il 27 ottobre l’esercito cinese varcò il fiume Yalu ed entrò in Corea. Fino a quel momento oltre 100mila soldati appartenenti alla Trentottesima, Trentanovesima e Quarantesima armata della Cina si erano infiltrati tra le truppe del Nord. Altri sedici corpi d’armata erano pronti ad attaccare. Si trattava di qualcosa come 56 divisioni formate da 500mila uomini. I numeri sono tutt’ora discordanti. Basti sapere che anche la CIA, all’epoca, aveva sottostimato l’apporto cinese alla causa nordcoreana, stimando appena 60mila soldati al soldo di Pechino.
Fatto sta che con l’ingresso in campo dell’esercito cinese, le truppe nordcoreane rconquistarono il terreno perduto, aprendo una nuova fase della Guerra di Corea basata su un sostanziale equilibrio, tra disfatte e conquiste reciproche, fino alla firma dell’armistizio del 1953.
In realtà gli Stati Uniti avevano preventivato la mossa della Cina. McArthur non solo avrebbe voluto radere al suolo diverse città cinesi. Il generale aveva chiesto all’allora presidente Usa, Harry Truman, l’autorizzazione di rispondere con un attacco atomico di fronte all’avanzata cinese in Corea. Truman respinse la richiesta di McArthur, il quale, dopo aver pensato di usare l’atomica anche in Corea, scelse l’approccio della terra bruciata.
Gli Stati Uniti sganciarono 635mila tonnellate di bombe convenzionali, più delle 503mila usate nel Pacifico nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Pyongyang, la capitale della Corea del Nord, fu travolta da una pioggia di bombe: 200mila, una per ogni abitante. Praticamente ogni città nordcoreana era stata ridotta in cenere. Terminati gli obiettivi civili, gli americani distrussero centrali idroelettriche e dighe, danneggiando i raccolti del Paese. Eppure i nordcoreani avevano ancora la forza di combattere.
Secondo una stima sovietica effettuata al termine della guerra, l’85% delle strutture nordcoreane era stato ridotto in cenere. A un certo punto, sostengono gli storici, l’aviazione Usa arrivò a lamentarsi perché non c’era più niente da bombardare. Al termine del conflitto, calcolatrice alla mano, morirono, rimasero feriti o dispersi circa 3 milioni di coreani, ovvero il 10% della popolazione della penisola
Nel 1953 la situazione è in una fase di stallo. Nessuno dei due schieramenti riesce più ad avere la meglio sull’avversario. Si arriva così all’armistizio. L’accordo viene firmato il 27 luglio 1953, senza vincitori né vinti. Tutto è congelato, in attesa di un accordo politico ancora lontano da venire.
Ancora oggi gli americani considerano la Guerra di Corea una sorta di sconfitta mentre per i cinesi si tratta di una vittoria importantissima, una chiara dimostrazione che il fronte comunista aveva resistito per 33 mesi alle avanzatissime armi delle truppe statunitensi.
In Corea del Nord la Guerra di Corea viene chiamata Guerra patriottica di liberazione mentre in Corea del Sud 6.25, in riferimento alla data d’inizio del conflitto. Negli Stati Uniti si parla invece di Korean conflict, anche per sottolineare l’assenza di una dichiarazione di guerra del congresso Usa (che in effetti non è mai stata proclamata). In Cina, infine, si usa il termine Guerra di resistenza all’America e in aiuto della Corea.
Nel settembre 2021, Moon Jae-in è tornato a proporre che le due Coree, assieme a Stati Uniti e Cina, proclamino formalmente la conclusione della Guerra di Corea come incentivo a rilanciare il dialogo per la denuclearizzazione della Penisola coreana. “Propongo che le Coree e gli Stati Unti, o Coree Stati Uniti e Cina proclamino congiuntamente che la guerra nella Penisola coreana è finita”, ha detto Moon, in un discorso presso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. “Quando le parti coinvolte nella Guerra di corea si uniranno nel proclamare la fine del conflitto, credo sarà possibile conseguire progressi irreversibili verso la denuclearizzazione e inaugurare una nuova era di pace”, ha aggiunto il presidente sudcoreano.
La replica della Corea del Nord non si è fatta attendere. Kim Yo Jong, sorella di Kim Jong Un, ha definito quella di Moon “un’idea interessante e lodevole”. “La dichiarazione di fine della guerra è un’idea interessante e lodevole dal momento che punta a porre concretamente fine allo stato instabile di cessate il fuoco”, ha aggiunto. Miss Kim ha tuttavia anche accusato la Corea del Sud di “pregiudizio e politiche ostili” e posto come condizione a colloqui la fine “degli atteggiamenti da doppio gioco” e delle “cattive abitudini”.
Intervenuto sulla stessa proposta sudcoreana, il vice ministro degli Esteri della Corea del Nord, Ri Thae Song, ha considerato che sarebbe tutto “prematuro” dal momento che “non c’è alcuna garanzia” che questo “porti al ritiro della politica ostile degli Usa verso Pyongyang”.
Negli ultimi mesi la tensione tra le due Coree è salita alle stelle. Citiamo due episodi per sottolineare gli enormi rischi che corre l’intera penisola. Nel luglio 2022, la Corea del Nord, al termine di una sessione di tre giorni, ha approvato due concetti chiave, tra cui un “rapido rafforzamento della capacità di difesa nazionale” e la definizione di un “importante piano d’azione militare”.
Tutto questo significa che Kim Jong Un ha ordinato il potenziamento delle capacità militari del Paese, e assegnato compiti aggiuntivi alle unità dell’esercito schierate in prima linea, ovvero lungo il 38esimo parallelo, al confine con la Corea del Sud. C’è però ancora molta incertezza su quanto effettivamente deciso dal presidente nordcoreano. La sensazione è che Pyongyang, non solo si stia preparando ad effettuare un nuovo test nucleare – che sarebbe il settimo – ma anche a schierare armi nucleari sul confine intercoreano.
Nel settembre 2022, inoltre, Kim ha fatto sapere che Pyongyang non intratterrà mai più colloqui di denuclearizzazione con potenze straniere e “non rinuncerà mai” alle armi nucleari. L’Assemblea popolare suprema – la Camera legislativa nordcoreana – ha poi concordato di approvare una nuova legge. Tra gli altri punti, questa chiarisce anche le condizioni di utilizzo delle armi nucleari. Ebbene, secondo la nuova disposizione, un attacco nucleare da parte di Pyongyang può adesso essere eseguito automaticamente e immediatamente per distruggere l’origine di una provocazione esterna, qualora il sistema di comando e di controllo delle forze nucleari nordcoreane dovesse essere in pericolo a causa di un attacco di forze ostili.
Una delle tristi eredità della Guerra di Corea coincide con la separazione di decine di migliaia di famiglie. Molti membri vivono al Nord, altri al Sud, impossibilitati sia ad incontrarsi che a comunicare tra loro con regolarità. Il ministro dell’Unificazione sudcoreano, Kwon Young Se, ha recentemente proposto colloqui con Pyongyang per risolvere la questione.
Kwon ha esortato il dialogo intercoreano alla vigilia della festa di Chuseok, una festa celebrata in entrambe le Coree. Ricordiamo che i due Paesi hanno tenuto 21 tornate di riunioni familiari, dallo storico vertice del 2000 tra l’allora presidente sudcoreano Kim Dae-jung e l’allora leader nordcoreano Kim Jong Il. Non sono tuttavia più avvenute riunioni familiari dal 2018, quando 89 anziani separati della famiglia accompagnati da 197 parenti più giovani e aiutanti del Sud si sono incontrati con 185 parenti nordcoreani nella località di Mount Kumgang, nel Nord.
Secondo il Ministero dell’Unificazione di Seoul, quasi il 70% dei 133.391 familiari divisi di prima generazione registrati per il programma di ricongiungimento con la Croce Rossa sudcoreana sono morti in attesa di ricongiungersi con i loro parenti nel nord. Solo 20.604 sudcoreani hanno incontrato i loro parenti nordcoreani durante le 21 riunioni tenutesi fino ad oggi. Lo stesso Ministero ha sottolineato che circa 400 persone sono morte da sole nell’ultimo mese senza vedere i loro parenti, lasciando solo 40.000 persone tra gli 80 e i 90 anni.
È impossibile capire che cosa accadrà da qui ai prossimi mesi. La Corea del Sud ha teso la mano al Nord proponendo un piano “audace” di aiuti per migliorare in modo significativo l’economia e la vita delle persone della Corea del Nord, nel caso in cui Pyongyang sospendesse lo sviluppo nucleare.
Secca la replica di Pyongyang, che ha respinto l’assist del neo presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol. Kim Yo Jong, sorella di Kim Jong Un, ha replicato al leader sudcoreano dichiarando che la sua ultima proposta mostra “la portata dell’assurdità”. “I cani abbaiano sempre, da cuccioli o da adulti, lo stesso vale per chi ha il titolo di presidente”, ha aggiunto, specificando che “è semplicistico e infantile” pensare di poter barattare la cooperazione economica con le armi nucleari.