La guerra civile in Afghanistan

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“I mujaheddin nel corso del conflitto difficilmente accettarono ruoli difensivi o statici che, tradizionalmente, erano alieni al loro temperamento e alla loro fama di combattenti. Similmente, essi rifiutavano di strisciare, sfruttando gli appigli tattici offerti dal terreno, anche in prossimità delle posizioni nemiche, non già per motivi riconducibili all’asprezza del suolo o alla presenza di mine, quanto piuttosto per una sorta di etica non codificata del combattente afghano che imponeva al massimo di camminare con circospezione o accovacciarsi, ma impediva di strisciare di fronte all’avversario”. Queste parole, del generale Mohammad Yousaf, capo dell’ufficio afghano dell’Isi, il potente servizio segreto del Pakistan, ci possono dare la chiave di lettura non solo del conflitto russo-afghano, ma anche del decennio di guerra civile che ne è seguito e dei vent’anni immediatamente successivi che hanno visto l’arrivo e la tragica dipartita delle forze armate statunitensi e della Nato.

I dieci anni di invasione sovietica, tra il 1979 ed il 1989, oltre a distruggere un Paese sin nelle più profonde radici, hanno avuto l’effetto di fondere l’ideologia islamica alla causa della liberazione nazionale nelle menti degli afghani, producendo una miscela esplosiva: i mujaheddin non combattevano per costruire un nuovo ordinamento statale, bensì per difendere la propria religione e le proprie famiglie da un’ideologia ostile e ateista quale fu il comunismo, totalmente estranea alla cultura locale, e contro un governo centrale oppressivo sostenuto da un invasore straniero.

Per capire l’Afghanistan di oggi bisogna conoscere la sua complessa storia. Ma bisogna anche tornare laddove le cose accadono.
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CAUSALE: Reportage Afghanistan
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Coi sovietici a occupare tutti gli snodi strategici, gli oppositori al governo di Kabul nel 1981 si rifugiarono in Pakistan, dove diedero vita all’Unità Islamica dei Mujhaeddin Afghani (Ittihad-i Islami-i Mujahidin-i Afghanistan – Iuam), ma in pochi mesi l’opposizione si divise in due fazioni: una dipendente da un nuovo Consiglio Islamico che riuniva tre gruppi (il Nifa di Ahmed Gailani, l’Anlf di Mojaddedi e l’Irma di Mohammed Nabi Mohammedi), mentre dalla parte opposta si trovavano quelle più estremiste, sotto il nome di Fronte Unito, facenti capo a Rabbani con quattro gruppi (Hig di Hekmatyar, la Jia di Rabbani, l’Hik di Khalis e la Iua di Sayyaf).

Nel 1985 le due formazioni si divisero ulteriormente nei loro sette gruppi dando vita al movimento chiamato “Peshawar 7” che si proponeva di creare uno Stato islamico. L’unità, anche questa volta, era una chimera in quanto ciascun gruppo aveva punti di vista troppo diversi e mancava una base comune. Il ritiro di Mosca, che pur continuava a sostenere il governo di Kabul, diede vita a una serie di attacchi che presero la forma di una vera e propria guerra civile: l’esercito regolare, e il Pdpa, il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, resistettero tre anni agli assalti dei mujaheddin.

In questo contesto sociale e politico, i ribelli al governo centrale sostenuto dall’Urss scatenarono la loro prima offensiva: il 5 marzo 1989, meno di un mese dopo il ritiro sovietico, le milizie di Gulbiddin Hekmatyar e Abdul Rasul Sayyaf attaccarono in forze Jalalabad. Dopo alcuni successi iniziali, le truppe governative, forti soprattutto del vitale appoggio aereo, riuscirono ad avere la meglio sui mujaheddin e a luglio, dopo tre mesi di scontri quasi ininterrotti, i ribelli furono costretti a ritirarsi. La battaglia di Jalalabad fu l’unica combattuta in campo aperto e l’ultima vittoria significativa delle forze governative.

A marzo 1991 il presidente Mohammad Najibullah, non più sostenuto dall’Urss che si stava sgretolando, perse il controllo di importanti posizioni al confine col Pakistan sotto i colpi dei ribelli che ancora erano sostenuti in massima parte dall’Arabia Saudita e, in tono minore rispetto al conflitto precedente, dagli Stati Uniti. In questa fase Islamabad assunse un ruolo centrale nel sostegno ai mujaheddin: l’Isi continuò l’addestramento dei ribelli afghani fornendo loro armi e munizioni.

Il nemico comune catalizzò, ancora una volta, il fronte della ribellione seppur in modo effimero: il generale Abdul Rashid Dostum, ad esempio, che pure era stato dalla parte sovietica durante l’invasione, si aggregò agli insorti, in particolare alle forze di Ahmad Shah Massoud, per cercare di realizzare un’offensiva che desse la spallata finale al governo di Kabul. A marzo del 1992 cominciò l’attacco generalizzato e le forze di Najibullah si sgretolarono in poco meno di un mese: Kunduz cadde il 17 aprile insieme a Shindand e alla provincia di Helmand, Kandahar il 21, Gardez il 22 e infine il 27 aprile 1992 i ribelli entrarono a Kabul. Najibullah si rifugiò nel comprensorio fortificato delle Nazioni Unite, Sibghatullah Mojaddedi divenne nuovo presidente dell’Afghanistan e Massoud ministro della Difesa, ma le tensioni, per il contesto socio/politico già esaminato, crebbero una volta che il nemico comune venne sconfitto.

L’annosa rivalità tra l’estremista Hekmatyar e il comandante Massoud si rifece viva e degenerò in uno scontro diretto: tra il 4 e il 5 maggio 1992 le forze di Hekmatyar bombardarono Kabul, costringendo Mojaddedi a lasciare la presidenza all’integralista Burhanuddin Rabbani, che assunse la carica ufficialmente a luglio.

L’Afghanistan però, per la sua società di stampo tribale, non riuscì a trovare pace: i “signori della guerra” stringevano e disfacevano alleanze ovunque nel Paese. Ad agosto le milizie di Hekmatyar, che non intendeva pacificarsi con Massoud nonostante il cambio al vertice di governo, continuarono i bombardamenti su Kabul. A questo punto fece la sua comparsa Osama Bin Laden, un guerrigliero di origine saudita, che cercò di mediare nonostante il suo odio verso Massoud. Bin Laden aveva fondato, nel 1988, al-Qaeda al-Askariya (“la base militare”), una nuova organizzazione islamica integralista che avrebbe dovuto dedicarsi “al trionfo della religione di Allah” nel mondo. I

l 7 marzo 1993 Rabbani firmò, a Islamabad, un accordo tra i vari rappresentati della resistenza che prevedeva che Hekmatyar diventasse primo ministro, ma questi rifiutò mentre Massoud si dimise dalla carica. Le tensioni e gli attacchi aumentarono di frequenza e intensità fino a quando, il primo gennaio 1994, esplosero in guerra aperta: questa volta da una parte si trovarono Rabbani e Massoud, mentre dall’altra Hekmatyar, il generale Dostum (che nel frattempo aveva ancora una volta cambiato fronte) e Mojaddedi. Rabbani, poco dopo, venne deposto e il 26 giugno le milizie di Hekmatyar occuparono la capitale scatenando un furioso contrattacco da parte dei mujaheddin fedeli all’ex presidente che mise a ferro e fuoco la città: si calcola che circa 34mila civili morirono durante i combattimenti.

Alla fine di quella sanguinosa estate fece la sua comparsa un nuovo movimento: i talebani, guidati dal mullah Muhammad Omar. I talebani nacquero nelle madrase (le scuole coraniche) del Pakistan: furono il tentativo (riuscito) di Islamabad di trovare un modo di coalizzare la resistenza afghana oltre le differenze etniche usando come collante l’integralismo religioso anche grazie al flusso di denaro proveniente dall’Arabia Saudita. La leadership talebana, come la maggior parte di essi, è formata da pashtun (sia afghani sia pakistani), l’etnia maggioritaria nel Paese che occupa grossomodo la fascia che va dal confine col Pakistan sino a quello con l’Iran, fatta esclusione per i baluchi che si possono trovare nell’Afghanistan meridionale.

Il 12 ottobre 1994 i talebani occuparono, con un colpo di mano, la cittadina di Spin Boldak, alla frontiera pakistana: quasi tutti i mujaheddin che la presidiavano, del gruppo di Hekmatyar, disertarono e passarono dalla loro parte, lasciando presagire quella che sarebbe diventata una consuetudine espletata nei mesi (e anni) successivi. A fine ottobre conquistarono, quasi senza combattere, la base aerea di Hindu Kotai, alla periferia di Kandahar proprio grazie alla defezione del mullah Naqib, a capo della tribù degli Alikozai, catturando alcuni carri armati, pezzi di artiglieria, blindati e una dozzina di caccia Mig-21 oltre a vari elicotteri. Questo rappresenta il vero punto di svolta a favore dei talebani nella guerra civile.

Il 2 novembre attaccarono Kandahar che cadde dopo soli quattro giorni di combattimenti. A questo punto i talebani diventarono la principale forza militare del Paese e cominciarono ad avanzare lungo la “Ring Road” (o HW1), la strada ad anello che collega i maggiori centri afghani, verso Herat, che cadde a settembre del 1995. Gli “studenti” di Allah trovarono, almeno in principio, terreno fertile tra la popolazione, stanca di anni di guerra, che pensava che tramite loro si sarebbe giunti a pace e stabilità. I talebani erano caratterizzati da una natura ambivalente, data proprio dalla sintesi tra le tradizioni tribali pashtun e l’estremismo religioso: da un lato identificavano il diritto islamico nelle consuetudini tribali radicate nei secoli, dall’altro esprimevano tutto l’integralismo religioso appreso nelle madrase di stampo wahabita, improntato a un rigido formalismo e a una distorta interpretazione della shari’ah.

Il mullah Omar, il 4 aprile del 1996, mostrò pubblicamente il “mantello del Profeta” conservato a Kandahar e si fece proclamare amir al-mu’minin (condottiero dei credenti) venendo subito riconosciuto da un altro personaggio fondamentale della storia di quegli anni e dei successivi: Ayman al-Zawahiri, numero due e teorico di al-Qaeda.

Omar diede ordine di riprendere l’offensiva verso Kabul, forte delle defezioni tra le milizie rivali e grazie alla compera dei “signori della guerra” per mezzo dei soldi sauditi. La capitale dell’Afghanistan cadde il 26 settembre 1996, l’ex presidente Najibullah venne prelevato dal suo rifugio presso la struttura dell’Onu e passato per le armi: il 27 il suo cadavere, insieme a quello del fratello minore, venne appeso a un lampione della città. I talebani proclamano l’Emirato Islamico dell’Afghanistan controllando la maggior parte del Paese: entro due anni i tre quarti dell’Afghanistan finirono sotto il loro giogo fatte esclusione per il Panjshir, dove si rifugia Massoud, la zone dell’Hazarajat e quella intorno a Mazar-i-Sharif controllata dal generale Dostum, che con l’ennesimo giro di valzer, era tornato a più miti consigli.

A ottobre lui, Massoud, Rabbani, il leader sciita Mohammad Karim Khalili insieme ad Abdul Rasul Sayyaf e Asif Muhsini, fecero sorgere il Fronte Unito Nazionale Islamico per la Salvezza dell’Afghanistan, detto anche Alleanza del Nord.

L’Emirato Islamico talebano, in questa fase, sembrò godere del consenso internazionale in quanto venne visto come l’elemento stabilizzante dell’Afghanistan. Perfino gli Stati Uniti approvarono la presa del potere da parte dei talebani: a novembre 1996 il vicesegretario di Stato americano Robin Raphael affermò che essi sono “il male minore” e che “non è nell’interesse dell’Afghanistan, o di nessuno di noi, che i talebani vengano isolati”.

La presenza di al-Qaeda cambierà ben presto questa postura: i talebani infatti avevano dato ospitalità a Bin Laden, un punto chiave per il futuro del Paese e della guerra, che, di lì a poco, sconvolgerà ancora l’Afghanistan. L’ospite. per l’afghano, è infatti sacro in quanto l’ospitalità è un precetto religioso.

A group of Afghan northern alliance Mujahideen leave the city of Herat, Afghanistan on an armoured vehicle towards Ghowr and Helmand provinces in central Afghanistan to replace Taliban forces which have left the areas, Sunday Dec. 9, 2001. (AP Photo/Kamran Jebreili)

Ma la guerra civile andò avanti. A maggio del 1997 i talebani, partendo da Herat, organizzarono un’offensiva verso nord che però fu respinta. Ci riprovarono l’anno successivo riuscendo a entrare a Mazar-i-Sharif ad agosto mettendo in fuga il generale Dostum. I talebani si abbandonano a massacri ed esecuzioni sommarie, per lo più verso gli appartenenti all’etnia hazara.

Il Fronte Unito, guidato da Massoud, rimase sempre attivo nel contrasto dalla valle del Panjshir nonostante i continui attacchi dei talebani che assunsero il tono di una pulizia etnica come avvenne ad agosto del 1999 della valle di Shomali. Il 20 agosto di quell’anno il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton dà ordine di bombardare i campi di addestramento afghani di al-Qaeda a seguito degli attentati di Nairobi e Dar es Salaam. Questa operazione, coronata da successo anche se Bin Laden riuscì a mettersi in salvo fuggendo (forse avvisato dall’Isi) segna il primo intervento ufficiale statunitense in Afghansitan.

Il Fronte Unito, che poteva contare sul supporto internazionale di Russia, Cina, India, Iran e da parte delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, però non riuscì a ottenere i successi sperati, fondamentalmente perché tra l’élite del Paese non ci fu mai un’opposizione organizzata in grado di bloccare i talebani e perché una parte del clero li sostenne sempre, anche considerando che nelle aree non a maggioranza pashtun essi furono in grado di stringere alleanze pagate con denaro sonante proveniente, ancora una volta, da Pakistan e Arabia Saudita.

I talebani, nonostante cerchino di sottrarsi ai finanziamenti esterni – soprattutto grazie al narcotraffico – accettarono, verso la fine degli anni ’90, una maggiore influenza economica e culturale da parte di al-Qaeda: il 12 marzo 2001, ad esempio, distrussero a Bamiyan, nell’Hazarajat, le famose statue di Buddha considerate patrimonio mondiale dell’umanità dall’Unesco.

Il 9 settembre del 2001 Ahmad Shah Massoud, comandante dell’Alleanza del Nord, viene assassinato da due tunisini in un attentato suicida. Aveva 48 anni e sei figli. I mandanti non sono mai stati stabiliti con chiarezza, del resto sia i talebani sia al-Qaeda avevano entrambi validi motivi per eliminarlo, ma la sua morte avrebbe dovuto rappresentare un sinistro presagio per gli Stati Uniti e l’Occidente: due giorni dopo, infatti, 19 terroristi sauditi appartenenti ad al-Qaeda compirono attacchi alle Torri Gemelle e al Pentagono. Washington reagì quasi immediatamente, invocando l’articolo cinque del Trattato del Nord Atlantico e l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Cominciava l’operazione Enduring Freedom, l’inizio del ventennale intervento armato occidentale in Afghanistan.