Qual è ruolo di Israele nella guerra in Siria

Non si può comprendere la guerra in Siria senza analizzare l’impegno di Israele. Israele considera la Siria il terreno di scontro privilegiato nella sua guerra all’Iran. Un nemico che unisce la strategia dello Stato ebraico con quella degli Stati Uniti e delle monarchie del Golfo.

Per Israele, la guerra in Siria è un fronte unico in cui combatte tutti suoi nemici e dove sta regolando sfere d’influenza e alleanze. Per questo motivo, l’impatto delle decisioni dello Stato ebraico nel conflitto è enorme, a tal punto da essere diventato, inseme alle altre potenze, il vero ago della bilancia della guerra.

 

Dall’inizio delle rivolte, Israele vedeva nella fine di Bashar Al Assad la rimozione di un governo nemico. Ma era soprattutto il passaggio necessario per rimuovere un governo alleato dell’Iran. Colpire Damasco significa colpire una pedina fondamentale della cosiddetta mezzaluna sciita. Per l’Iran, la meta ideale della sua politica. Per Israele, il vero incubo.

All’inizio, l’interventismo israeliano in Siria era più che altro rivolto a sostenere i gruppi ribelli del Sud per evitare che al confine con Israele si avvicinassero le forze alleate della Siria, cioè Hezbollah e Iran.

Questo supporto è stato documentato anche Wall Street Journal . Il motivo era chiaro da subito. Nella guerra in Siria, Israele si è trovato di fronte a due scenari contrapposti: o un Paese  completamente in mano all’Iran oppure una situazione altrettanto pericolosa, ma paradossalmente più gestibile per gli israeliani, con una galassia jihadista in mano alle monarchie del Golfo.

È in questa fase che nascono le cosiddette “linee rosse” imposte da Israele. In caso di loro superamento, Israele sarebbe intervenuto.

Come descritto da International Crisis Group, queste linee rosse sono così sisntetizzabili:

Hezbollah non deve ricevere armi o sostegno in Libano da parte delle forze iraniane presenti in Siria;Hezbollah e tutta la galassia sciita legata all’Iran non devono avvicinarsi al Golan;Nessun attacco, neanche minimo in territori israeliani. E questi comprendono anche il Golan occupato;La difesa della popolazione drusa vicino alla linea dell’armistizio

L’intervento della Russia in Siria ha cambiato i piani di Israele. Lo Stato islamico ha iniziato a subire colpi importantissimi e l’intervento dell’aviazione di Mosca (insieme alle truppe di terra siriane e della galassia sciita) ha reso impossibile all’Isis continuare la sua avanzata.

L’esercito siriano, da quel momento, ha potuto riprendere il controllo di molte aree. Assad oggi non sembra più sull’orlo della resa. Ma la riconquista della Siria significa anche una stabilizzazione dell’Iran e di Hezbollah all’interno del Paese.

Gli alleati di Damasco hanno dato e continuano a dare un contributo essenziale alla sconfitta del Califfato. Ma questo comporta anche una sconfitta strategica per Israele che sperava nella fine del pericolo e invece ha scoperto che la minaccia era cresciuta in maniera esponenziale.

Benjamin Netanyahu ha capito di aver sbagliato previsioni. L’esercito siriano risultava vittorioso e l’Iran ed Hezbollah principali artefici della vittoria sul campo insieme alla Russia di Vladimir Putin. Per Tel Aviv, lo scenario indubbiamente peggiore perché significava ammettere una sconfitta su tutti i fronti.

La nascita delle de-escalation zone, decise dal cosiddetto blocco di Astana con l’accordo degli Stati Uniti, ha cambiato i piani e i metodi israeliani. Le de-escalation zone servivano proprio a regolare i conti fra potenze coinvolte puntando su una gestione delle maggiori aree di crisi. Ma costituire aree dove non si poteva combattere, per Israele significava permettere ai suoi nemici di rafforzarsi non lontano dal confine.

Una di queste aree, non lontana dalle alture del Golan, è stata affidata alla Russia. E Israele ha sempre considerato un problema avere un’area di “tregua” vicino al suo confine dove Iran ed Hezbollah potessero muovere liberamente le loro forze con la scudo di Mosca. Netanyahu  lo fece presente già nell’estate del 2017 a Putin, anche nel loro incontro a Sochi.

Ma la Russia, pur garantendo a Israele la massima sicurezza dei suoi confini, ha sempre garantito anche gli alleati. Perché il nemico restava l’Isis e bisognava sconfiggerlo. E Assad non è ancora sicuro di rimanere alla guida della Siria.

Tuttavia, Netanyahu e il suo governo non sembrano intenzionati a cedere di fronte a un compromesso. Israele pretende il ritiro completo delle forze iraniane e di tutte le milizie sciite dalla Siria. È questa l’unica garanzia che vogliono a Tel Aviv. E per farlo, sono disposti a qualunque tipo di azione.

Con l’arrivo del 2018, Israele ha iniziato a bombardare ripetutamente non più clandestinamente la Siria. Se a livello politico, l’Iran stava per essere colpito dalla scelta di Donald Trump di uscire dall’accordo sul nucleare, a livello militare serviva colpire il suo potenziale in Siria e spezzare l’asse con la Russia.

Sia chiaro: Israele colpiva il territorio siriano dall’inizio delle rivolte. Come ha detto  Zvi Magen, ex ambasciatore israeliano a Mosca, sono stati almeno 150 i bombardamenti israeliani in territorio siriano dal 2011.

Ma è dal 2018 che sono iniziati i bombardamenti “ufficiali” e semi-ufficiali. Un’escalation che ha visto agli inizi anche l’abbattimento di un jet della Fionda di Davide dopo il presunto volo di un drone iraniano in territorio israeliano. Quello stesso drone sarà poi presentato da Netanyahu in un teatrale intervento durante la Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera.

La differenza rispetto ai primi anni è che, fino al 2018, l’aviazione di Tel Aviv, colpiva obiettivi più dinamici e chirurgici, come appunto i convogli di Hezbollah o anche posti di comando o direttamente perosnalità importanti legate alle forze iraniane.

Ma nell’ultima fase del conflitto, Israele ha iniziato a colpire obiettivi statici considerati basi operative dell’Iran in territorio siriano. La base T-4, in prima istanza, ma anche altri centri tra Damasco, Homs e Palmira. Poi il raid di giugno (ancora non riconosciuto) su Abu Kamal, che fonti del Pentagono confermano sia stato condotto da un drone di Israele.

Infine, il bombardamento di Damasco del 26 giugno. Le agenzie si stampa siriane hanno accusato direttamente Israele di aver compiuto un raid vicino all’aeroporto internazionale di Damasco con due missili lanciati dal territorio israeliano.

I raid israeliani sono aumentati con l’aumento delle pressioni politiche di Netanyahu. Garantito dall’asse con Trump, il premier israeliano vuole la certezza che Putin non intervenga in difesa dell’Iran. L’obiettivo israeliano è sempre stato quello di mettere la Russia all’angolo, costringendo il Cremlino a una scelta di campo tra Iran e Israele.

Putin per ora ha giocato le sue carte in via intermedia, da stratega. Sa che Israele vuole il completo ritiro iraniano dalla Siria. Ma sa anche che questo significa dare ragione a uno Stato che ha indebolito i suoi alleati e che ha messo a repentaglio la strategia russa in tutto il conflitto.

Ed è quello il vero secondo obiettivo di Israele oltre al ritiro dell’Iran, fare in modo che i russi e i siriani mettano l’Iran all’angolo per evitare che Israele e Stati Uniti scatenino la loro offensiva contro Assad e distruggano quanto guadagnato in sanguinosi anni di guerra al terrorismo.

Dal punto di vista israeliano, l’azione in Siria è considerata una guerra preventiva. Israele non vuole l’Iran e le forze ad esso collegate al suo confine. Non parliamo di poche unità, ma di decine migliaia di uomini ben addestrati e in grado di combattere e vincere una guerra (come dimostrato in Siria).

Un obiettivo che il governo israeliano ha già detto di essere disposto a raggiungere “pagando qualsiasi prezzo“. In altri termini, la guerra non è un’opzione secondaria. Anzi, come sostenuto da Netanyahu, se deve accadere, meglio che accada “prima che dopo“.

Il problema è che quello che sta avvenendo in Siria corre su un duplice binario. Non c’è solo prevenzione, ma anche provocazione. Israele, in questa fase cruciale del conflitto, si è guadagnato una posizione di netto vantaggio. Può colpire dichiarando di prevenire, ma al contempo può reagire in caso di risposta iraniana e siriana dicendo di essere stato attaccato. Come è avvenuto, del resto, dopo i 20 missili caduti sulle alture del Golan.

La speranza è che la Russia giochi, ancora una volta, un ruolo di dominus del conflitto riuscendo a fermare i raid israeliani. Ma, da parte israeliana, non sembra che si voglia giungere a un accordo che faccia contenti tutti. Per Israele, la presenza di qualunque forza legata all’Iran, in Siria, è considerata una minaccia esistenziale. E non sono disposti a contrattare: anche se questo significa scatenare un conflitto dalle dimensioni regionali.

La notte tra il 17 e il 18 settembre del 2018, quattro F-16 israeliani attaccano l’area intorno Latakia, sede di una delle principali basi russe in Siria. Il bombardamento distrugge alcuni siti ritenuti parte dell’arsenale iraniano in Siria. Ma avviene un fatto ancora più importante: un aereo russo, un Ilyushin-20, scompare dai radar. Dopo alcune ore, Mosca darà la versione definitiva: l’aereo è stato abbattuto da un missile della contraerea siriana.

Questo attacco rappresenta uno degli episodi più importanti dei rapporti fra Israele e Russia per quanto riguarda la guerra in Siria. Putin e Netanyahu parlano al telefono per capire le responsabilità, mentre la Difesa russa accusa quella israeliana di aver usato l’aereo spia come copertura.

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