Qual è il ruolo dei curdi nella guerra in Siria

I curdi in Siria costituiscono una comunità minoritaria che risiede soprattutto nelle zone settentrionali del Paese. Il “Kurdistan storico” – quello cioè che comprende le regioni abitate da questa popolazione in Medio Oriente – si estende infatti per alcuni tratti anche in Siria. Le sue dimensioni, però, all’interno del contesto siriano, sono di gran lunga inferiori per estensione e popolazione rispetto al Kurdistan turco ed iracheno.

In Siria, i curdi si trovano soprattutto in due province: quella di Al Hasakah e quella di Aleppo. La prima si trova nell’estremità nordorientale del Paese e comprende, oltre che l’omonimo capoluogo, anche la città di Qamishli. Quest’ultima è forse il centro di riferimento sociale ed economico dei curdi in Siria. Nella provincia di Aleppo, invece, la presenza curda è numerosa soprattutto nel cantone di Afrin e nel distretto di Kobane. La zone storicamente abitate dai curdi in Siria vengono indicate dalla stessa popolazione come province del “Rojava“, un termine che significa “occidente”.

Così come nei Paesi vicini, anche in Siria la presenza di una numerosa minoranza curda non manca di essere oggetto di tensioni politiche e sociali sia con lo Stato che con la popolazione araba. Rispetto a Turchia ed Iraq, la situazione in Siria appare sempre generalmente sotto controllo. Damasco ed i curdi si guardano con sospetto sin dalla fondazione dello Stato siriano. Il timore di un “contagio” indipendentista proveniente dai curdi turchi o dai curdi iracheni, fa sì che i governi siriani non incoraggino la formazione di partiti o la promozione della lingua locale nelle regioni del nord del paese.

Come detto, però, la questione del Kurdistan appare più centrale in Turchia ed Iraq e molto meno in Siria. Questo però non implica automaticamente che nel Rojava la causa curda non sia sentita. Anche da queste parti non mancano episodi di attivismo politico e di richiesta di maggiori diritti. Basti pensare che in queste lande curdo – siriane ha avuto inizio l’attività di Abdullah Ocalan, lo storico leader del Pkk e nemico numero uno per tanti anni di Ankara.

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Il leader curdo è nato in una provincia curda della Turchia a pochi passi dalla frontiera siriana. Ocalan conosce dunque già dagli anni di gioventù la situazione del Rojava e qui trova humus fertile per la sua lotta a favore del popolo curdo. Il numero uno del Pkk vive per vent’anni in queste regioni, da qui di fatto parte la sua esperienza che nel giro di pochi anni lo porta ad essere punto di riferimento per gran parte dei curdi. La presenza di Ocalan nel Rojava è forse l’indice più importante di come, tra Damasco ed i curdi siriani, il rapporto sia ambiguo. Da un lato governo centrale e comunità curda si temono a vicenda, dall’altro però collaborano. Le due parti hanno un nemico comune: la Turchia. Per Hafez al Assad, padre e predecessore dell’attuale presidente Bashar Al Assad, la questione curda viene vista come un’importante occasione per mettere pressione su Ankara. Fino al 1998 la Siria ha dato protezione ad Ocalan e  nel Rojava sono state presenti fino alla fine degli anni Novanta vere e proprie basi di addestramento del Pkk.

L’attrito tra Damasco e curdi siriani si acuisce invece dopo la deposizione di Saddam Hussein in Iraq, avvenuta nel 2003. La formazione di una regione autonoma curda nel Paese confinante fa temere il governo siriano circa la volontà anche dei curdi siriani di avere una propria regione. E i curdi infatti iniziano ad organizzarsi, come testimonia la fondazione, sempre nel 2003, del Pyd (Partito dell’Unità Democratica), destinato ad essere formazione di riferimento per i curdi siriani. L’anno seguente si ha forse l’episodio di sangue prebellico più grave di sempre, che vede coinvolti curdi ed autorità di Damasco. A Qamishli infatti, durante un incontro di calcio tra la locale squadra e quella di Deir Ez Zour, tifosi ospiti tirano fuori gigantografie di Saddam Hussein e vessilli del partito Baath iracheno.

Ne nasce una colluttazione prima tra tifosi locali ed ospiti, poi tra manifestanti di Qamishli (nel frattempo accorsi allo stadio) e poliziotti che lascia sul campo trenta vittime tra la popolazione curda. Nei giorni seguenti Qamishli ha l’aspetto di un campo di battaglia: manifestanti assaltano sedi del partito Baath e rappresentanze del governo, da Damasco si decide per l’uso del pugno di ferro e la situazione viene riportata sotto controllo con l’uso dell’esercito. Anche negli anni successivi non sono mancati episodi di violenze da una parte e dall’altra. Non è un caso che risale al 2004 la fondazione di prime brigate di autodifesa del Rojava, le quali nel 2012 saranno note poi con il nome di Ypg e saranno parte attiva della guerra civile siriana.

Nel marzo 2011 la cosiddetta “primavera araba” approda in Siria. Le proteste che in quei mesi infiammano l’intero mondo arabo e che portano, tra gli altri, alla caduta dei governi di Ben Alì in Tunisia e Mubarack in Egitto, iniziano ad infiammare le strade siriane. Il governo del presidente Bashar Al Assad, dal canto suo, prova a dare concessioni ai manifestanti e a promettere future riforme. Ma l’ingresso di diversi combattenti dall’estero e la formazione dell’Esercito Siriano Libero (Fsa), fanno sì che tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 la Siria scivoli nell’abisso della guerra.

Homs e la provincia di Idlib, al pari di quella di Daraa, appaiono quasi fuori controllo da parte dell’esercito siriano. Il governo di Damasco è quindi sempre più debole e questo porta i curdi a prendere la palla al balzo, con la popolazione del nord della Siria che rivendica maggiore spazio e maggiore potere decisionale sugli affari locali. I curdi dunque entrano nell’estate 2012 nella guerra siriana ma, al contrario delle sigle che confluiscono nell’Esercito Siriano Libero, non hanno come obiettivo primario il rovesciamento del governo di Assad. Allo scoppio delle prime proteste nelle aree curde, la reazione della polizia e dell’esercito siriano non appare repressiva per come ci si aspettava.

Dal canto loro, i curdi iniziano ad organizzarsi: viene fondato un Comitato Supremo Curdo e le milizie Ypg assumono le funzioni di un vero e proprio esercito delle province a maggioranza curda. L’obiettivo appare quello della formazione di un’entità autonoma da Damasco. Nel luglio 2012 le forze Ypg iniziano ad avanzare nelle principali città curdo – siriane: Kobane, Afrin, Qamishli, Al Hasakah sono prese dai curdi senza che l’esercito reagisca in maniera decisiva. Al contrario, le forze fedeli ad Assad si ritirano ed in molti casi lasciano le caserme senza combattere. In quelle settimane Aleppo e Damasco sono pesantemente attaccate da islamisti ed Esercito siriano libero, dunque per l’esercito siriano appare prioritario orientare mezzi e uomini a difesa delle principali città del paese. I curdi approfittano di questa situazione ed iniziano a creare unità territoriale tra le province da loro controllate.

Come detto, le milizie Ypg iniziano a diventare forze di sicurezza nelle zone a maggioranza curda da dove l’esercito siriano si è ritirato. Lo Ypg viene fondato nel 2004, ma è soltanto agli inizi del 2012 che viene riorganizzato in funzione del suo nuovo ruolo all’interno dei territori curdi.

Di fatto lo Ypg già nell’estate del 2012 è un altro attore impegnato nel difficile campo di guerra siriano. Munizioni ed armamenti sono in parte proventi da quanto abbandonato dall’esercito siriano, ma lo Ypg è finanziato e supportato anche dall’estero. In particolare, pesano gli agganci con altri gruppi curdi in altri paesi vicini e dal 2014 in poi la lotta contro il califfato dell’Isis attira investimenti e rifornimenti anche da Usa ed occidente.

Tra il 2012 ed il 2013, lo Ypg controlla i cantoni curdi situati tra Kobane e la provincia di Jazira/Al Hasakah, oltre che l’enclave curda di Afrin posta a nord di Aleppo.

Ma quella dei curdi non è soltanto una lotta militare. La guerra che imperversa nel resto del paese, un governo siriano traballante ed una Siria complessivamente destabilizzata, creano le condizioni per i curdi di allargare progressivamente sia i propri territori che le proprie prospettive politiche.

Lo Ypg, riorganizzato come un vero e proprio esercito, è garante anche della costituzione politica della regione autonoma dei curdi. Dopo quindi il controllo militare, l’obiettivo è quello di creare anche un corpo politico ed amministrativo in grado di governare la regione. Il modello a cui si ispira lo Ypg è quello del cosiddetto “confederalismo democratico” di Ocalan, il fondatore del Pkk che ha vissuto per vent’anni proprio nel Kurdistan siriano. Dopo circa un anno di dibattito interno allo Ypg, il 20 gennaio 2014 viene promulgato il cosiddetto “contratto sociale del Rojava“, con cui si sancisce la nascita della federazione cantonalistica di regioni autonome del Rojava.

Da questo momento in poi in pratica, de facto il Kurdistan siriano diventa una regione autonoma interna alla Siria. Damasco dal canto suo, pur non entrando in conflitto con lo Ypg, non riconosce né l’autonomia e né l’indipendenza al Rojava. La regione, secondo il contratto sociale, si presenta amministrativamente divisa in tre regioni: quella di Afrin, quella dell’Eufrate e quella di Jazira. La prima coincide con il cantone di Afrin, la seconda invece con la zona di Kobane ed infine la terza con la provincia di Al Hasakah. Vengono stabilite le istituzioni poste a governo della regione: vi è un’assemblea nazionale, un consiglio esecutivo, una suprema corte e poi i vari enti locali e municipali. È istituita anche un’alta commissione per le elezioni, che dovrebbe portare al voto il Rojava entro il 2018. Lo scorso anno si sono tenute le elezioni locali, ma di fatto l’unico partito in grado di ottenere seggi è stato quello collegato alla lista della Nazione Democratica, ossia gli eredi del Pyd fondato nel 2003.

L’estate 2014 è quella caratterizzata dall’avanzata dell’Isis tra Iraq e Siria. Nei primi di luglio di quello stesso anno, Al Baghdadi proclama la nascita dello Stato Islamico e chiede di intensificare la lotta per la costituzione di un grande califfato in medio oriente. Le bandiere nere dell’Isis in quelle settimane iniziano a minacciare anche i territori curdi e l’auto proclamata regione del Rojava.

Analogamente con quanto accaduto nel Kurdistan iracheno, i curdi nel nord della Siria iniziano la propria battaglia contro le avanzate dell’Isis. Da questo momento in poi, le milizie Ypg diventano di fatto tra gli attori protagonisti della lotta contro lo Stato Islamico. A partire dall’estate 2014 i curdi siriani iniziano a ricevere sempre più finanziamenti ed armamenti dall’estero, oltre che sostegno dalla coalizione internazionale anti Isis a guida Usa. Bombardamenti e raid della coalizione statunitense, iniziati nel settembre 2014, diventano i principali aiuti di natura militare ai curdi siriani.

Come emblema della lotta dei curdi contro l’Isis, c’è la città di Kobane. Fondata nel XX secolo, essa prende il nome di una società tedesca impegnata nella costruzione della ferrovia Berlino – Baghdad. Tale progetto ferroviario per alcuni chilometri costituisce il confine tra Siria e Turchia ed infatti Kobane è una cittadina al confine tra i due paesi. La fondazione è avvenuta non solo per mano dei curdi, ma anche per alcuni armeni emigrati e scampati alle persecuzioni del 1915. Ad oggi, Kobane si presenta come una città di sessantamila abitanti in gran parte curdi.

Questo piccolo centro nell’estate del 2014 sale agli onori della cronaca per via dell’assedio intrapreso dall’Isis. L’attenzione mediatica sul califfato, dopo la proclamazione da parte di Al Baghdadi, in quelle settimane è massima e si concentra soprattutto sulle atrocità inferte a militari e civili da parte degli islamisti. Per tal motivo, l’assedio che l’Isis inizia su Kobane assume un significato particolare e la battaglia viene seguita da vicino dai più importanti network internazionali.

Il primo tentativo dell’Isis di infiltrarsi a Kobane è del luglio 2014, ma il primo respingimento ad opera delle forze Ypg vanifica gli sforzi dei miliziani jihadisti ed intensifica l’attenzione internazionale su Kobane. Ma è a settembre che quello di Kobane assume le sembianze di un vero e proprio assedio. Il 13 settembre, in particolare, l’Isis lancia in forze diversi attacchi contro la città ed i villaggi limitrofi. L’avanzata è repentina e questo provoca la fuga di almeno 300.000 civili in gran parte curdi verso la Turchia. In città, così come nei villaggi circostanti, la situazione è disperata anche sotto il profilo umanitario mentre ai primi di ottobre l’Isis è attestato nell’80% dei perimetro urbano di Kobane. Il territorio sembra perduto per i curdi, ma le milizie Ypg riescono a difendere i lembi di città ancora nelle proprie mani e ricevono rinforzi dal Kurdistan iracheno, oltre ad usufruire dei raid della coalizione a guida Usa.

La controffensiva dello Ypg è decisiva: i curdi riescono a riguadagnare terreno, ma la battaglia è di fatto casa per casa. Soltanto il 27 gennaio 2015 le milizie curde riescono ad espellere l’Isis da Kobane, mentre nel mese di aprile lo Ypg mette in fuga gli islamisti anche dalle zone circostanti. L’ultimo tentativo di assalto dell’Isis a Kobane è del giugno 2015, ma viene respinto dopo poche ore. La vittoria dei curdi a Kobane viene considerata come la prima sconfitta dell’Isis in Siria.

Il conflitto siriano nel corso degli anni si trasforma sempre più in un vero scontro a distanza tra le principali potenze. La Russia è vicina ad Assad ed appoggia dunque il presidente siriano nella lotta ad Isis ed Al Qaeda. Dall’altro lato gli Usa considerano il governo di Assad come “dittatoriale” ed anche se Washington si dice pronta a combattere l’Isis in Siria, l’allora presidente Obama sceglie di non “riabilitare” l’esecutivo centrale di Damasco. Per questo motivo, gli Usa si appoggiano sempre di più ai curdi.

Lo Ypg nel 2015 appare sempre più armato e finanziato dagli Stati Uniti, che del resto anche in Iraq non mancano di finanziare i curdi iracheni e le milizie peshmerga. A pochi giorni dall’ingresso ufficiale della Russia sul campo siriano, conclamato con il via all’operazione militare il 30 settembre 2015, ad Al Hasakah viene presentata una nuova formazione militare. Si tratta delle cosiddette milizie Sdf, anagramma di Syrian Democratic Forces. Di fatto, è una coalizione guidata dai curdi e quindi dallo Ypg, in cui confluiscono però numerose sigle ex Esercito Siriano Libero e tribù arabe della zona più orientale del paese.

Le forze Sdf iniziano a conquistare terreno ai danni del califfato nel nord est della Siria, con i curdi che occupano anche zone a maggioranza araba. Si crea una Siria de facto divisa in due: da un lato la zona d’influenza russa, dove le forze di Mosca aiutano Assad a riprendere il territorio, dall’altro quella americana dove ad intervenire sono i curdi e le forze aree della coalizione internazionale. In mezzo, il fiume Eufrate a dividere le due sponde.

Dopo la costituzione della Sdf, i curdi dilagano e sforano anche il territorio dell’autoproclamata regione del Rojava. All’inizio del 2016 le milizie Ypg unite alle altre forze della coalizione Sdf, guadagnano tanti territori ai danni del califfato dell’Isis. In molti casi si tratta di territori “periferici” dello Stato Islamico, che lo stesso Al Baghdadi non ha la ferma intenzione di mantenere a tutti i costi. Anche per questo motivo i guadagni territoriali della Sdf appaiono costanti e sempre più importanti.

Nel luglio 2016 i curdi e gli alleati interni alla Sdf conquistano Manbij, importante centro della provincia di Aleppo ad ovest del fiume Eufrate. Si tratta di fatto della prima grande città a maggioranza araba dove i curdi sono riusciti a scalzare l’Isis. Proprio in relazione alla battaglia per la presa di Manbij, vi è uno degli episodi meno chiari nel rapporto tra le forze combattenti filo curde ed i miliziani dello Stato Islamico. Infatti, le forze Sdf hanno guadagnato terreno in quelle settimane di inizio estate senza sparare molti colpi. La resistenza dell’Isis appare molto debole, specie in relazione agli accesi combattimenti di poche settimane prima contro le forze governative a Palmyra.

Soltanto all’interno di Manbij i curdi trovano alcune difficoltà poste in essere dalla battaglia urbana portata avanti da gruppi rimasti isolati dell’Isis, con diverse vittime tra i propri reparti. Ma con l’ingresso della Sdf a Manbij risalta agli occhi un altro particolare di non poco conto: diversi scatti infatti immortalano una ritirata ordinata dell’Isis dalla città. Secondo diversi analisti, sarebbe questa una prova di come, una volta accertata l’impossibilità di continuare la battaglia, potrebbe essere stato offerto ai miliziani islamisti la possibilità di un vero e proprio salvacondotto. Una circostanza su cui ancora risultano non poche perplessità, visto che la conquista di Manbij in larga parte potrebbe essersi rivelata soltanto un riposizionamento dell’Isis in altre parti della Siria.

I curdi liberano la città di Manbij (LaPresse)
I curdi liberano la città di Manbij (LaPresse)

Al di là dell’Eufrate le forze Sdf intanto riescono a spingersi in tutta la provincia di Al Hasakah, verso il confine con l’Iraq ed alcuni punti della provincia di Raqqa. Importante appare il sostegno della coalizione a guida Usa, con Washington che si installa in alcune basi siriane posizionate all’interno dei territori controllati dai curdi. Le avanzate curde creano alcuni grattacapi sia alle milizie Ypg che all’estero. Ai curdi infatti iniziano i problemi relativi alla gestione dei territori conquistati, specie quelli a maggioranza araba. Non mancano accuse alle stesse Ypg circa presunte violazioni dei diritti umani contro la popolazione araba: in particolare, secondo Amnesty International ed altre organizzazioni umanitarie, parti delle Ypg avrebbero sfollato famiglie e tribù arabe per unificare territorialmente il Rojava e creare una vasta regione a maggioranza curda.

All’estero è proprio questo spauracchio a destare preoccupazione, specie alla Turchia. Ankara teme la creazione di una vasta regione autonoma curda da Afrin fino al confine con l’Iraq. In poche parole, il Rojava curdo potrebbe essere realtà, secondo i timori turchi, e potrebbe quindi creare una testa di ponte per il Pkk. Da evidenziare poi come proprio il Pkk ha ottimi rapporti con le milizie curde siriane. Ecco perchè dopo il fallito golpe anti Erdogan nel luglio 2016, il presidente turco inizia a cambiare atteggiamento e strategia all’interno del contesto siriano. Dopo aver per anni finanziato gruppi islamisti anti Assad, la Turchia adesso dialoga con la Russia e, in cambio di un suo ruolo nel processo di stabilizzazione della Siria, chiede il via libera per agire militarmente contro i curdi.

La prima operazione di Ankara nel nord della Siria è dell’estate 2016. Carri armati turchi varcano la frontiera ed accedono nella regione di Jarabulus, a nord di Aleppo. L’operazione, denominata “Scudo nell’Eufrate“, ufficialmente è contro l’Isis visto che penetra in territori ancora in mano al califfato. In realtà però Ankara si assicura il controllo del territorio tra i cantoni di Afrin e Manbij ed in tal modo evita la continuità territoriale del Rojava. Al timone di queste regioni la Turchia pone milizie ex Esercito Siriano Libero, armate e finanziate nei primi anni di guerra. Ma ancora oggi truppe di Ankara sono ben presenti e controllano anche parte dell’amministrazione politica.

Il vero attacco diretto e mirato contro i curdi siriani è invece del gennaio 2018. L’operazione “Ramoscello d’Ulivo” mira a conquistare il cantone di Afrin ai danni delle forze Ypg, presenti qui dal 2012. Anche in questo caso, oltre che a propri uomini e mezzi, la Turchia utilizza milizie islamiste ex appartenenti al’Esercito Siriano Libero. Nel giro di poche settimane il cantone risulta interamente conquistato ed Afrin cade in mano alle milizie filo turche. Vengono abbattute statue che raffigurano eroi curdi ed ogni simbolo della storia curda viene eliminato. Si inizia a parlare anche di vera e propria pulizia etnica: molti curdi di Afrin sono costretti ad andare via mentre gli islamisti presenti iniziano ad impossessarsi di numerose abitazioni. La situazione nel cantone di Afrin è ancora in evoluzione: non c’è più il controllo delle Ypg, le quali però promettono azioni di guerriglia volte a riconquistare la zona. La presenza turca è ben visibile e sul campo sono diversi i mezzi e gli uomini inviati da Ankara. Erdogan più volte ha minacciato di ripetere questa operazione anche a Manbji e dovunque sia necessario tutelare, secondo il presidente turco, gli interessi del suo paese.

Proprio sulla questione curda negli ultimi mesi sono emerse le profonde divergenze tra Turchia ed Usa: in particolare, Ankara vede con sospetto l’appoggio dato dagli americani ai curdi ed a tutte le milizie interne all’Sdf.

Nell’ottobre 2017 i curdi e le forze Sdf conquistano anche Raqqa. La città che Al Baghdadi aveva posto come capitale del suo califfato, è espugnata dopo però intensi mesi di lotta e dopo intere settimane di bombardamenti della coalizione a guida Usa.

Raqqa è un altro territorio difficile da controllare per i curdi. La città è da sempre a maggioranza araba, la popolazione non vede di buon occhio la presenza Sdf e delle milizie Ypg in particolare. Come a Manbij, non mancano anche a Raqqa proteste contro i curdi. In generale, le Sdf controllano tutta la Siria ad est dell’Eufrate ed il cantone di Manbji. Il “disegno” del paese ipotizzato già nel 2015, con una Siria divisa esattamente in due sfere d’influenza, appare al momento realizzato. Quel che originariamente è il Rojava, attualmente è invece una vasta regione oltre l’Eufrate che comprende come detto anche territori arabi.

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I curdi ben comprendono l’impossibilità di controllare a lungo proprio le zone a maggioranza araba, per tal motivo da qualche settimana sono in corso colloqui con Damasco. I curdi, in particolare, vogliono sfruttare i rapporti non ostili tenuti con Assad in questi anni di guerra per trovare accordi in grado di stabilizzare il paese e potersi quindi difendere al meglio contro le minacce della Turchia. Una priorità questa ben evidente soprattutto dopo la perdita di Afrin a vantaggio dei filo turchi.

Di recente, le forze Sdf hanno consentito l’ingresso dei soldati siriani a Taqba per il recupero delle salme di coloro che sono stati uccisi dall’Isis durante le avanzate del 2014. Si tratta di un segno inequivocabile sui dialoghi attualmente in corso. Si potrebbe ipotizzare una concessione di maggiore autonomia politica accordata da Damasco ai curdi, in cambio della restituzione dei territori a maggioranza araba. Sembra quindi una questione più politica che militare, ma che deve fare i conti anche con i rapporti tra le due potenze che maggiormente hanno inciso sul campo in questi anni: Russia ed Usa. Gli Stati Uniti in particolare non considerano il governo di Assad un interlocutore e vorrebbero per tal motivo mantenere le proprie basi nel paese, circostanza questa certamente non voluta né da Damasco e né da Mosca.

Soltanto dagli accordi tra Russia ed Usa si potrà comprendere il futuro assetto della Siria e, per quel che concerne i curdi, il destino politico e militare del Rojava e delle zone a maggioranza curda.

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